I racconti del Premio letterario Energheia

Angelica e la danza_Martina Filippi, Roma

_Racconto finalista quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.

 

Angelica nacque a Roma il 18 marzo 1990.

Quel giorno un sole freddo risplendeva sull’intera città e sull’ospedale Gemelli, dove vide la luce.

La famiglia era interamente riunita intorno al letto della madre, nella trepida attesa di osservare la bimba. Giunse infine tra le braccia di una giovane ostetrica che la sorreggeva come fosse un trofeo.

Aveva occhi vivaci ed un sorriso in grado di risvegliare gli animi assopiti.

Era la seconda di due sorelle. La prima, Matilde, aveva sette anni più di lei e si era già promossa da sorella maggiore a vice-mamma.

Fin da fanciulla, Angelica era una bambina paffuta, amava mangiare ed amava condividere le gioie del mangiare con tutti i suoi cari. Era allegra, ilare ed aveva l’argento vivo addosso.

Fu verso i sette anni d’età che Angelica si scontrò con quelle che si sarebbero rivelate le sue due più grandi passioni: la lettura e la danza.

Girovagava con il papà per il parco alle spalle del condominio in cui viveva con la sua famiglia.

Era un freddo pomeriggio di metà dicembre e già fervevano i preparativi per il Natale.

Un morbido montgomery le proteggeva tutto il corpo.

Improvvisamente Angelica si fermò.

Dritta, immobile. Occhi sgranati, respiro corto.

Cosa aveva colpito così meravigliosamente la sua attenzione?

Un’eclissi improvvisa? Uno spettacolo pirotecnico?

Niente di tutto ciò.

Saltimbanchi. Colorati artisti di strada, le rapivano l’attenzione.

Ma ve ne era uno in particolare che la incuriosiva.

Massiccio, enorme, mastodontico, ma con gli occhi d’angelo, color del ghiaccio come l’acqua più pura.

Una calvizie incipiente lasciava scoperto il suo capo, ma sembrava non avvertire il vento gelido del pomeriggio inoltrato.

Una barba non curata troneggiava sul suo volto dotato di grande espressività.

Indossava un gilet slacciato sul petto nudo e glabro e jeans aderenti, slavati ed estremamente consunti. Sedeva su una cassetta di legno.

Aveva un contegno istrionico, proprio di chi è avvezzo a stupire.

Intorno al ragazzo e ad un misero focolare si erano radunati molti fanciulli, rapiti anch’essi dall’aspetto desueto del giovane e dalla sua voce incantatrice, apparentemente sordi al gelo che li attanagliava.

Recava in mano un grande libro, il più grande che Angelica avesse mai visto.

La bimba domandò al padre il permesso per fermarsi ad assistere allo spettacolo: “Papà, per favore, posso andare a sentire la storia del ragazzo buffo?”

Faticò molto per cercare di ottenere ciò che voleva e fallì comunque miseramente, in quanto Marco, questo era il nome del genitore, era irremovibile.

“Come può essere in grado di rimanere indifferente davanti ad un tale spettacolo?”, pensava Angelica tra sé e sé. “Forse i grandi non si accorgono delle cose belle che li circondano, perché magari sono piccole e semplici e non le vedono. Pensano solo al lavoro e per questo sono sempre tristi.

Vorrei rimanere piccola per sempre, proprio come il protagonista della storia che mi ha raccontato papà l’altra sera.

Come si chiamava?Ah!Sì, sì! Peter Pan! Così potrei essere felice per sempre!”

Nel formulare questo pensiero, assai complesso per una bimba di 7 anni, aveva creato intorno alla sua persona uno scudo impermeabile rispetto agli avvenimenti esterni, fino a quando non si ridestò dal suo apparente torpore nel sentire dei passi, molti passi allontanarsi.

Si accorse che il ragazzo buffo aveva terminato il suo racconto e che tutti i fanciulli si erano riuniti con i propri genitori e si stavano pigramente incamminando verso casa.

Guardò il papà con rancore, ma egli, forse vergognandosi, fece finta di nulla. Avrebbe tanto voluto assistere allo spettacolo.

Angelica avanzò mesta verso il focolare che andava via via estinguendosi.

Il gigante buono, così la bambina ribattezzò il ragazzo che le ricordava la figura scaturita dalla fervida fantasia di Oscar Wilde, era intento a riporre il suo libro di favole. Ella lo rimirava e piangeva. Piangeva di un pianto disperatamente silenzioso, sotto lo sguardo vigile del padre.

Evidentemente Neven, questo il nome del saltimbanco bretone, si sentì osservato e si girò verso la bimba e scoprendola piangente, le si avvicinò e le si chinò vicino, in modo da risultare meno imponente.

A quel gesto Marco scattò verso la bambina ma velocemente saettò nell’aria la mano di Neven che si frappose tra il padre e la figlia.

“Aspetti solo un momento la prego”.

Marco si arrestò.

“Come ti chiami bella bambina?”

“Angelica, ma i miei genitori e tutti quelli che mi conosco e mi vogliono bene mi chiamano Angy”.

“Posso chiamarti anch’io Angy? So di non conoscerti bene, come i tuoi cari, ma vorrei essere tuo amico. Mi concederesti questo privilegio?” Le disse, asciugandole le lacrime salate.

“Tu sei buono. Lo vedo dai tuoi occhi… si certo, puoi chiamarmi Angy”.

“Piccola, posso sapere perché piangevi?”. Marco si rabbuiò in volto.

“Io volevo ascoltare la storia che raccontavi, ma il mio papà non mi ci ha mandato, secondo me perché aveva paura”.

Bambini. La sorgente dalla quale sgorga la verità.

Neven regalò a Marco uno sguardo sprezzante, carico di rassegnazione.

“Vorresti che la leggessi solo per te piccina?”

“Lo faresti?”

“Certo”. Marco si era ormai seduto su una panchina lì vicino, scrutando torvo la scena che gli si presentava dinanzi agli occhi.

Neven si rituffò nella tenda, dove conservava i propri averi da cantastorie e ne riemerse con un gran sorriso e con il libro delle favole in una mano.

“Allora Angy, cosa vuoi che ti legga?”

“Decidi tu, io, però vorrei se possibile, una storia d’amore, però un po’ particolare”.

Neven la guardò incuriosito. Aveva proprio ciò che faceva per lei.

“Conosci la storia del soldatino di piombo?”

“No”.

“Allora, ascoltami attentamente ed apri la tua mente ad immaginari fantastici”.

Riaccese il fuoco che danzò pronto nell’aria.

Angelica ascoltava con attenzione la storia tra il soldato e la ballerina. Si struggeva per il loro amore impossibile versando lacrime innocenti, sussultando per ogni piccolo colpo di scena, pendendo dalle labbra del vigoroso Neven. Egli raccontava con ardore, mimica eccellente e timbro possente. Quando giunse la chiusa del racconto Angelica era oramai in un’altra dimensione. Fluttuava felice tra i suoi pensieri, attratta in particolar modo dal ricordo della ballerina. La sua grazia, la sua bellezza, la ispiravano. Voleva assomigliarle.

“Ehi, gigante buono, ma io posso essere una ballerina? Sono sufficientemente bella per esserlo?”

“Sei bellissima piccola e sarai una ballerina famosa se vorrai e se studierai tanto”.

“Si lo voglio!”

“Ricorda, segui sempre il tuo cuore”. Neven si volse verso il padre della bimba. Questi di rimando lo guardò di sottecchi, stanco e con la voglia di rincasare. Neven comprese.

“Angy ora però devi tornare a casa per la cena con il tuo papà”.

“Quando potrò rivederti?”

“Bimba io sono continuamente in viaggio, ma ti prometto che ogni anno nel periodo natalizio sarò qui ad aspettarti, va bene?”

“Devo aspettare tutto un anno?”

“Passerà velocemente vedrai, sarai talmente impegnata a divenire una ballerina che non te ne accorgerai nemmeno. Prendi! Voglio regalarti questo!”

Neven porse ad Angelica il grande libro delle storie.  “Leggi Angy, impara ad amare la lettura ed a leggere non solo con gli occhi e la mente, ma con il cuore!”

Angelica accolse il grande libro delle storie nel caldo abbraccio del suo montgomery, rimirandolo con occhi innocentemente increduli.

Accarezzava il volume con movimenti lenti. Le mani scorrevano avvertendo i rilievi e le rientranze della copertina grettamente sagomata. Lo aprì, lo sfogliò con grande timore, temendo di sgualcirlo. Notò la presenza di una piccola piuma che fuoriusciva dal volume. Incuriosita, andò alla ricerca della pagina in cui era custodita. Estrasse un curioso manufatto.

“Questo cos’è?”

“È un piccolo acchiappasogni; un piccolo oggetto che ti aiuterà a concentrare i tuoi pensieri ed i tuoi sogni. Quando dormirai, le tue idee convergeranno in questa rete e resteranno lì in modo che tu possa riprenderli ed averli a tua disposizione quando vorrai, per accudirli con amore senza obliarli”.

“Come fai a sapere tutte queste cose?”

“Viaggio molto Angy, visito molte città ed ho imparato ad amare la storia di ognuna”.

“E questo magico oggetto da dove viene?”

“Mi è stato donato dal capo di una tribù di Navajo, indiani d’America”.

“È bellissimo gigante, grazie”.

Il gigante e la bambina si abbracciarono, il tempo sembrò fermarsi immortalando la scena da cui scaturirono effluvi di speranza, una speranza dura a morire, capace di scavalcare gli iniqui sentimenti e di intrufolarsi nelle vite, al limite della monotonia dei lavoratori ordinari.

“Gigante!”, urlò Angelica “non so nemmeno il tuo nome!”

“Neven”, rispose egli, trafiggendole il cuore con lo sguardo.

Da quella sera il comportamento di Angelica cangiò: supplicava la madre affinché le comprasse libri su libri da leggerle prima di addormentarsi, implorava i genitori di iscriverla ad una scuola di danza, ma non una scuola qualsiasi, ad “una di quelle che fa diventare famosi!”. I genitori non subivano di certo disagi economici, erano abbienti e potevano esaudire con estrema facilità il desiderio della loro secondogenita. Ma erano restii ad accontentare la bambina in quanto, per loro, non avrebbe potuto fare la ballerina, non avrebbe avuto un futuro, sarebbe stata umiliata, la sua speranza sarebbe stata disillusa. Ma Angelica era così euforica ed insistente che non poterono rimanere sordi alle sue suppliche.

Erano oramai i primi gelidi giorni del gennaio ‘98 e mentre i raggi del sole annoiato irradiavano il loro tiepido calore sui viali rivestiti di foglie senza vita, una famiglia si affacciava al lontano orizzonte della via che saliva lenta. I due genitori, tesi, si stagliavano di fianco alla bella bambina dal volto gioviale che avanzava sulle punte dei piedi. Arrivarono alla celebre scuola con il nome impresso su un cartello in eleganti caratteri rossi su fondo bianco. Varcarono la soglia e tutto ciò che videro furono un modesto saloncino, con due divani ed una cattedra dietro alla quale sedeva una distinta signora che, avvertendo nuove presenze nella sala, levò il suo sguardo altero verso la famiglia.

“Buongiorno, sono Madame Brasseur, posso aiutarvi?”

Marco prese la parola.

“Buongiorno Madame, vorremmo iscrivere nostra figlia Angelica al vostro corso di danza. Vorremmo, inoltre, avere qualche informazione, se possibile, sull’orario delle lezioni e sulla funzionalità della scuola”.

Madame Brasseur, con in volto un’algida espressione, posò la sua attenzione sulla bimba, la scrutò torva, e si rivolse ai genitori.

“Molto bene”, disse “ma gradirei discorrere in privato con voi”.

Detto ciò aprì la porta del suo studio lasciando libero il passaggio per i due signori. Angelica rimase nel salottino con la sorella Matilde, che era li per controllarla. Ma non vi era pericolo che potesse dare fastidio in quanto era letteralmente ipnotizzata da tutto ciò che la circondava: rumore di tasti di pianoforte premuti con vigore dal quale facevano capolino dolci melodie; scalpiccii veloci indicanti la presenza di molti ballerini, intenti nel danzare aggraziatamente. Cercava di far tesoro di tutto per rimembrarlo sino alla sua prossima venuta.

Mentre ella rimirava tutto con estremo riguardo, i genitori discutevano con la preside.

“Tanto per cominciare, vostra figlia è troppo robusta. Deve dimagrire e molto se vuole avere dei buoni risultati. Anche perché la nostra è una scuola d’elite e io non posso permetterle di mettere a rischio la nostra reputazione.

O accetterà di buon grado le mie disposizioni, o sua figlia qui non danzerà mai”.

Detto questo si alzò interrompendo la conversazione, mentre la madre versava silenziose lacrime amare. Si asciugò gli occhi, il marito le passò un braccio sulla spalla e aprendo la porta, ritornarono a far parte della realtà in cui Angelica era ormai totalmente immersa.

“Andiamo Angy”.

La mamma le tese la mano con un grande, triste ma efficace sorriso. La bimba corse verso la madre urlando di contentezza.

“Mamma, allora, potrò danzare?”

“Certo che potrai! Non preoccuparti”.

E con queste parole intrise di rabbia uscirono dalla scuola. I giorni successivi trascorsero per tutti in un clima di trepidante attesa. La borsa era pronta, le scarpette ed il body erano già riposti mentre la bambina già si immaginava sulle punte, intenta in graziosi volteggi. Non si era neanche accorta della variazione alimentare che la mamma le aveva imposto. Era talmente euforica, da concedere la sua attenzione, solamente al suo completo da danza. Il dì tanto atteso, infine, giunse e Angelica, accompagnata dalla onnipresente madre, fece la sua apparizione sull’uscio della scuola. Venne accompagnata dalla preside nello spogliatoio femminile e fu presentata ai compagni di corso che la accolsero con grandi sorrisi. Dopo il lungo processo di vestizione uscì dalla stanza ed imboccò il corridoio che l’avrebbe condotta alla sala danza n. 1.

Su una parete vi erano affissi grandi specchi che riflettevano il lucido parquet e la sbarra, vicino alla quale sostavano inermi i fanciulli in body. Al momento del suo ingresso, si aspettava un’atmosfera di gioia, invece si ritrovò d’innanzi agli occhi una decina di ragazzi e ragazze della sua età alti e longilinei in religioso silenzio. Si guardò le punte dei piedi scorgendo le cosce carnose e le caviglie robuste. Cosa ci faceva lì? Era immobile, al centro della pista da ballo, con lo sguardo fisso sui compagni, persa nei suoi pensieri. La sua mente volò all’acchiappasogni che troneggiava sul suo letto. Non si sarebbe arresa. Avrebbe realizzato il suo sogno. Un colpo di tosse la risvegliò. Scosse la testa e si voltò. Una donna dall’aspetto androgino e dal piglio duro aveva fatto il suo ingresso in sala con in mano il suo fido bastone di legno.

“Buongiorno a tutti voi, mi presento a lei, signorina Carraro poiché è nuova qui. Sono Mademoiselle Brignard, in questa scuola ricopro il ruolo di insegnante di danza classica. E costui” disse, prendendo per il braccio un signorotto basso e pasciuto, “è Monsieur Monclair. Sarà il nostro accompagnatore musicale al pianoforte. Ed ora basta tergiversare, alla sbarra prego!”

E passando nelle vicinanze di Angelica aggiunse: “Un’altra cosa signorina: meno caramelle!”

La bambina fu come fulminata. Sorpresa si recò alla sbarra, impugnò lievemente il manico e cercò di eseguire i complicati esercizi che le venivano proposti: prima posizione, plié, grand-plié, tira la schiena, chiudi lo stomaco, ed ora vai in arabesque.

Non era per niente facile la danza! Ma le piaceva compiere quei movimenti talmente aggraziati. Mentre era intenta a danzare, era conscia di divenire un’altra persona, una fanciulla diversa, la sua anima trasmigrava, lasciando il corpo di rozza fattura, da brutto anatroccolo, per albergare in quello di nobile cigno. Matilde venne a prendere la sorella a lezione e poiché era giunta in anticipo, si appostò dietro la grande porta di vetro, ad osservare ciò che rimaneva della lezione. Posò il suo sguardo sulla sorella, la sua “pallocchetta”, come amava chiamarla. Ma il suo epiteto non celava alcuna malizia, era assolutamente un’aggettivazione affettuosa, riservata alla dolce sorella.

Come si faceva a non volerle bene? Paffutella, con il sorriso sempre sulle labbra che le formava due tenere fossette sulle guance. Era sempre così anche ora che era affaccendata con esercizi tecnici complessi per una bambina come lei. E poi si voltò a guardare gli altri ragazzi. Fin troppo seriosi per la loro età, impettiti e nel contempo, molto aggraziati. La danza classica, da sempre, le regalava una sensazione di profonda inquietudine. Ballerine perfette longilinee, plastiche, danzavano sulle punte eseguendo volteggi e salti, riportando nel viso un sorriso vuoto. Ma cosa si celava dietro tutto ciò? Aveva saputo dalla madre che era stata imposta alla sorella un duro regime alimentare. Non poteva soffrirlo. D’altronde aveva solo 7 anni! Talvolta contravveniva alle regole, portandole di nascosto barrette di cioccolato e caramelle, senza esagerare, rendendola felice. La prima lezione giunse al termine con un’Angelica estenuata, ma al settimo cielo.

Le giornate di Angelica proseguivano in un continuo via vai tra scuola, casa e corsi di danza, merende a base di frutta, che lei poco gradiva, lezioni estenuanti di danza. Plié, grandplié, relevès.

”Signorina Angelica, dentro la pancia, schiena dritta, tiri la punta, alzi il passè”.

Un incubo. O almeno era ciò che gli altri potevano pensare.

Angelica si sentiva ispirata da tutto questo. Tutte quelle correzioni nonché le critiche che le venivano riservate le servivano da sprone per migliorare.

L’estate passò velocemente all’insegna del divertimento, della movida. A settembre Angelica tornò alla scuola di danza scortata dall’affezionata sorella. Ad attenderla vi era la signora Brignard che, al solo scorgerla, si fece scura in volto.

“Bonjour Mademoiselle”, esordì felice Angelica.

La donna guardò la bimba di otto anni “Ha fatto feste quest’estate signorina Carraro, o sbaglio?”

“Be sì ci siamo molto divertiti e…”

“Sì, non mi interessa cara… vai a cambiarti veloce e zitta! E da domani, nuovamente a dieta signorina!”

Matilde era basita. Come si poteva essere così crudeli con una bambina di otto anni! Ma non voleva porsi allo stesso livello di quella donna insultandola, preferiva parlare con la sorella.

“Che inizio corso scoppiettante”, pensava Angelica con le lacrime agli occhi. Aprì il suo borsone e ne tirò fuori un diario chiuso con un lucchetto. Si chiuse in bagno e cominciò a scrivere. Parole d’odio e di disprezzo. Parole che naufragavano in un oceano di lacrime in tempesta. La bambina piange, il suo cuore piange.

Aveva cominciato a scrivere il diario durante l’estate, annotando tutto ciò che di felice era accaduto, tutti i momenti trascorsi con i suoi cari ed ora, a settembre, doveva sporcare con la tristezza quell’eremo felice in cui la sua anima e la sua mente si rifugiavano, per viaggiare nel tempo e nei ricordi. Le piaceva molto scrivere e leggere. Da quando Neven l’aveva lasciata, mesi fa, con, in mano il grande libro delle storie, lo rileggeva periodicamente. Comprava libri su libri ed in questi, si trovano appunti, frasi, pensieri che appuntava non appena le nascevano dentro e li sentiva scalpitare nello stomaco.

Scritto questo chiuse il suo diario, si asciugò gli occhi ancora umidi ed uscì dal bagno, con aria falsamente felice e sorrise a tutti i suoi compagni che la ricambiarono con una smorfia da fototessera.

Si cambiò e fece incursione nella sala e si mise alla sbarra per iniziare a scaldarsi. Successivamente, giunsero i suoi compagni e madame Brignard. Grand-Jeté, battement, chainés e via al centro.

Il tempo passava ed Angelica cresceva. Cresceva tra i banchi di scuola, cresceva a lezione, cresceva nei pianti liberatori, cresceva nei dialoghi scambiati con la sorella.

Ma anno dopo anno non dimenticava di trovarsi al parchetto dietro casa nei giorni natalizi.

“Neven!”

Correndo affannosamente la bambina si buttava tra le braccia di colui che riteneva il suo angelo custode.

“Neven, Neven! Ho da raccontarti molte cose! Sia belle, sia brutte!”

“Tranquilla bambina. Abbiamo tutto il tempo del mondo”.

Parlarono per ore, poi Neven, guardando la bambina le disse: “Angy, ricorda sempre, non lasciare che i tuoi sogni volino via. Afferrali, tienili con te”.

“Ho 10 anni Neven; il prossimo anno potrei entrare in accademia. Sarebbe il mio sogno. Ma non ci riuscirò, mai”.

“Perché? Chi ti assicura che non potrai farcela?”

Uno sguardo d’intesa volò tra i due giovani.

“Ora devo tornare da papà ma… ho paura di non trovarti più qui, un giorno”.

“Mi troverai sempre bambina. Guarda nel tuo cuore”.

Con le lacrime agli occhi, la bambina si girò verso il suo gigante buono e disse: “Ciao Neven. Al prossimo anno”.

Raggiunse il papà che la attendeva.

“Che vi siete detti?”, chiese Marco arcigno e sospettoso.

“Mi ha raccontato dei suoi viaggi”.

“Tutto qui? Quattro ore per dei viaggi?”

“No. Quattro ore per un anno intero di viaggi!”

Detto questo calò il silenzio. Da quando tre anni prima aveva incontrato quel ragazzo, la sua bambina era cambiata.

Marco lo pensava continuamente ormai. Era poco concreta ed era quel Neven a fuorviarla. Avrebbe dovuto impedirle di vederlo. Ma lei lo avrebbe odiato. Ma era anche inconcepibile tutto quel tempo perso dietro la danza. Non sarebbe mai diventata un’ètoile. Perché sprecare tante forze per qualcosa di irrealizzabile?

Giunti a casa. Angelica corse dalla sorella e bussò alla sua stanza.

“Chi è?”

“Tilde sono io, posso entrare?”

“Vieni, Angy, tranquilla! Come va?”

“Abbastanza bene. Tilde io… vorrei avere un consiglio da parte tua…”

“Spara sorellina! Sono tutta orecchi!!”

Angy le raccontò di voler entrare in accademia, di quanto fosse difficile e di quanta paura avesse nel domandarlo ai genitori.

“Ma Angy è una idea magnifica! Parlane a mamma e papà! Saranno contenti vedrai! E non buttarti giù! Impegnati tantissimo e vedrai che ce la farai! Ricordati che sarò sempre la tua prima fan, non puoi deludermi!”

Rincuorata dalle parole della sorella Angelica si mise a tavola. Era già tutto pronto per la cena. Attese finché tutti non ebbero preso il proprio posto e poi parlò: “Mamma, papà, devo dirvi una cosa molto importante per me… vorrei entrare in accademia il prossimo anno. L’accademia di danza qui a Roma”.

Pronunciò queste parole tutte d’un fiato.

“Cosa?”

“Sei pazza! Angelica, non se ne parla”

“Perché, perchè non posso?”

“Sarebbe un impegno troppo grande”, disse Marco “E la scuola? Stai forse dimenticando i tuoi impegni scolastici?”

“No papà, certo che no! Potrò frequentare la scuola media che si trova li vicino! Mi sono informata”.

“No non se ne parla”.

“Ma papà ti scongiuro… ”

“No Agelica, basta così. Cerca di impegnarti, di pensare al futuro. La ballerina non è un vero mestiere! Non ti permetterà di mantenere una famiglia”.

“ Ma Neven e Tilde…”

La madre aveva osservato tutta la scena in silenzio finché non irruppe violentemente nella discussione.

“Basta Angelica! Non si discute! Non ti sono bastati questi anni in quella scuola?”

“Ed inoltre dimentica questo Neven!”, disse Marco. “È uno sconosciuto che ti vuole abbindolare con i suoi discorsi”.

“Stai zitto! Non interrompermi!”, sbraitò la madre di Angelica. “E comunque tuo padre ha ragione!”

“Ma è la mia passione! Il mio sogno!”

“Al diavolo le passioni e al diavolo i sogni. I sogni sono per gli sciocchi. È ora che tu guardi in faccia la realtà: non sei portata per la danza. Pochi diventano delle etoile e sicuramente non tu Angelica. Non hai il fisico adatto, è inutile continuare in questa direzione. Sarebbero solo tanti altri buchi nell’acqua, altri fallimenti. Ti proibisco di rivedere in futuro questo Neven. Basta credere nelle favole. Sii realista”.

Silenzio. Angelica corse via. Aprì la porta di casa incurante della pioggia che la bagnava completamente. Piangeva di rabbia, di odio. Da suo padre, ma soprattutto da sua madre non si sarebbe mai aspettata una simile reazione.

“Li odio, li odio tutti!Matilde non mi ha neanche difesa…”

Nel frattempo, Matilde, guardando sdegnosa i suoi genitori, corse nauseata a mettersi il cappotto per uscire a cercare la sorella. Guardò negli occhi i genitori: “Ma che razza di genitori siete? E Tu mamma, questa volta hai davvero esagerato. Guarda nel tuo cuore quanto male c’è”.

La madre la fissò incredula.

“Perché hai dovuto ridurre il suo sogno fumo e cenere? Lasciala vivere mamma, falle vivere quella vita che tu, perennemente ostacolata dai tuoi, non hai potuto vivere. Conservi ancora le tue prime punte, in una scatola nascosta nell’armadio. Qui se c’è qualcuno che deve crescere sei tu”.

Detto questo, sbattendo forte la porta, uscì.

Dove poteva essersi nascosta sua sorella? Ma certo, eccola lì. Nel giardino dietro casa, inginocchiata sulla terra umida con l’acqua piovana che le si infiltrava fino alle ossa. Smuoveva con un bastoncino i resti inceneriti di un fuoco che qualche ora prima, invece, danzava allegramente.

“Proprio come me”, pensava tristemente Angelica.

“È andato via piccolina?”.

“A quanto pare…”

“Andiamo a casa, dai, fa freddo e piove a dirotto”.

“Non ci penso minimamente”.

“Almeno vieni sotto l’ombrello o ti prenderai un malanno”.

“Vattene, la pensi come loro”.

“Angelica ti prego, non dire queste cose, non è vero”.

“Allora perché sei stata zitta a casa? Perché non hai fermato mamma? Tesoro, in quel momento non potevo credere ai miei occhi. Ero atterrita, spaventata, non credevo possibile qualcosa del genere. Ma dopo ti ho difeso a spada tratta. Ti prego credimi”.

“OK ti credo…”.

“Ora vuoi venire sotto l’ombrello?”

“No. Voglio abbracciarti”, e buttandole le braccia al collo, la strinse fortissimo, piangendo di dolore e di gioia, lasciando che la notte dispiegasse il suo buio mantello e le avvolgesse completamente.

Ad inizio settembre Angelica si iscrisse all’accademia di Roma. Era passato del tempo dal traumatico litigio e lentamente tutto tornò al proprio equilibrio. Ma come in un vaso andato in mille pezzi si possono notare profonde crepe, così era l’attuale situazione familiare. Matilde osservava con scrupolosa attenzione ogni singolo comportamento dei suoi familiari. La sua “Pallocchetta” era diversa. Effettivamente si presentava sempre allegra, ma a Matilde sembrava un’allegria forzata e le infondeva tristezza nel cuore. Inoltre era dimagrita davvero molto. Non mangiava quasi più ed aveva notato strani comportamenti.

L’aveva vista dividere i maccheroni in gruppi di tre e mangiare solo i restanti; l’aveva vista tagliare il cibo in porzioni piccolissime e mangiarlo con grande lentezza. L’unica cosa che ingurgitava senza tregua era l’acqua.

Atteggiamenti che non erano nella sua indole. La ricordava divorare tutto con voracità e con un gran sorriso sulle labbra.

Ora non più.

I genitori, dal canto loro, erano contenti. Pensavano fosse meglio così e soprattutto, che godesse di ottima salute; ma per Matilde ombre scure sotto gli occhi ed ossa sporgenti non erano proprio ciò che lei avrebbe definito perfetto stato di salute. Soprattutto, la inquietavano i frequenti svenimenti attribuiti al troppo caldo, anche d’inverno.

In accademia, ora che era così magra, tutti la elogiavano e la guardavano con entusiasmo.

Negli anni successivi al litigio non era più andata a far visita a Neven, così da rendere felici i genitori.

“Sono ancora troppo grassa”.

La mattina si levava presto e si posizionava nuda, davanti lo specchio, per osservarsi attentamente.

“Non vado ancora bene. Se non dimagrisco ancora mi cacceranno dalla scuola. Mi elogiano solamente perché provano pietà per me”.

E guardando fissa le foto di Nurajev e della Fracci appese sopra il letto, al posto del vecchio acchiappasogni riposto in un cantuccio, si convinceva che, presto, ce l’avrebbe fatta.

Ultimamente però si sentiva particolarmente debole e le si era interrotto il ciclo mestruale gia da due o tre mesi, ma non le dispiaceva poi molto. L’esame di fine anno era alle porte e doveva pensare solo a superarlo.

Roma, 15 Maggio 2004

Il telefono di Marco squillava incessantemente.

“Marco ti prego! Corri corri!”

Era la moglie.

“Cosa c’è, dove sei, cosa è successo?”

“Corri, vieni al Gemelli!”

Marco si tuffò fuori dalla porta del suo ufficio. Salì in macchina e a tutto gas si precipitò alla meta designata. Parcheggiò malissimo; uscì correndo e varcò affannato le porte dell’ospedale. Scorse la moglie. Dietro di lei si stagliava alta e scura in volto la figura di Matilde.

“Vuoi dirmi cosa è successo?”

Urlava innervosito.

“Angelica… Marco. Angelica… Rischia di morire… ”

“Perchè, Perchè? Stava benissimo fino a stamattina!”

Matilde prese la parola: “No papà, no! Come facevate a non vederlo?”

“Ma cos’ha?”

Matilde sorreggendo la madre si fece coraggio e disse: “E’ anoressica papà… è gravemente debilitata. Da tempo mangia pochissimo. Se supererà la notte sarà un miracolo…”

“No… No!”

L’urlo risuonò fragoroso per i corridoi dell’ospedale. Una folle disperazione si impadronì di lui.

“Dov’è!Devo vederla!”

“Marco, ti prego…”

Marco correva di corsia in corsia. Dove avevano nascosto la sua piccolina?

Sfrecciava come un treno, quando la vide.

Era li, con gli occhi chiusi, chiusi nella speranza di poterli riaprire in seguito, respirando affannosamente a causa di una dura lotta per l’inserimento della flebo.

Alle spalle di Marco comparvero la moglie e la figlia maggiore.

“Non voleva le venisse inserito l’ago… Ha detto che questa flebo la farà ingrassare…”

I due genitori si guardarono intensamente.

Quanto avevano sbagliato con Angelica?

Quanti sensi di colpa, quanti rimorsi e quanti rimpianti avrebbero dovuto sostenere le loro spalle già appesantite dall’età?

“Ho buttato tutto al vento. Ho portato al suicidio mia figlia. Le ho fatto odiare il suo corpo ed è tutta colpa mia… Non avrei dovuto dirle quelle cose…”

“Tesoro, stai calma”, le disse Marco tenendole dolcemente il volto fra le mani.

“Abbiamo tutti delle colpe. Avremmo dovuto farle seguire il suo sogno con libertà, difenderla dalle asperità e invece io per primo ho sbagliato, creandone di nuove…”

Giunse un’infermiera dal camice ceruleo: “Signori Carraro, potete entrare”.

I genitori varcarono l’uscio della stanza.

“Mamma, papà”, con un refolo di voce Angelica pronunciò queste parole, cariche d’amore per la prima volta dopo mesi.

“Tilde…”, guardò la sorella piena d’ispirazione. Posò lo sguardo sulla madre, fissandole gli occhi umidi e scrutandole l’animo.

“Mamma, avevi ragione tu: i sogni sono per gli sciocchi”.

“No tesoro, sbagliavo. Arrendersi è da sciocchi”.

“Ormai non posso fare più nulla. Posso solo aspettare e spero voi resterete ad aspettare con me”.

“Sì amore mio”, disse Marco “aspetteremo la tua guarigione e poi torneremo a divertirci tutti quanti assieme, torneremo a vivere davvero”.

“Sì papà”, disse Angelica guardandolo e sorridendo melanconicamente.

“Hai ragione”.

E dicendo questo prese la mano del padre. In quell’istante una figura silenziosa entrò nella stanza.

“Neven”.

“Eccomi Angy, Sono qui vicino a te”.

“Ma come hai… Non è Natale!”

“Mi ha avvisato la tua famiglia”.

“Mi dispiace di essere sparita così…”

“Non preoccuparti bambina, pensa solo a rimetterti, così potrò raccontarti di tutti i miei viaggi”.

Angelica guardò stupita i suoi cari raccolti intorno a lei e intanto sentiva il calore vitale abbandonarla sempre di più.

“Grazie…Grazie davvero di cuore per tutto. Ho vissuto questi anni con intensa emozione e questo lo devo soltanto a voi… Nessuno escluso”.

La madre scoppio in lacrime, per l’ennesima volta.

“Bimba mia perdonaci”.

“Mamma, non devo perdonarvi nulla, mi avete donato la cosa più bella al mondo: la vita. Sono stata io a farmi condizionare ed infine a trattarla male. Io ho sbagliato ed io sto pagando le conseguenze dei miei errori. Voi…Voi siete le persone più speciali del mondo”.

Respiri sempre più affannosi.

“Infermiera corra, la prego!”

“Vi amerò per sempre, dal più profondo del cuore…”

Ti, ti, ti, ti.

Il rumore che segnava la fine era arrivato.

Di Angelica rimaneva solo un corpo senza vita ed una linea dritta continua che ne segnava la morte.

Nella mano del padre aveva lasciato un biglietto.

“Danzerò per sempre nei vostri cuori. Vostra Angy”.