I racconti del Premio Energheia Europa

Amore materno, amore eterno_Noelle Zarife, Libano

_Premio Energheia Libano 2011.

Dopo cinque ore di dolore intenso, in mezzo alle grida e i gemiti, e nel buio di una notte calda di Aprile, la luce di una candela faceva vedere le gocce di sudore su un viso distrutto dalla fatica. Laila aveva partorito. A casa. Da sola! E subito dopo era caduta in un sonno che venne sospeso dai pianti del neonato e da sentimenti materni che per la prima volta nella sua esistenza, poteva capire.

Non poteva alzarsi dal letto che bagnava di sangue, sudore e lacrime. Provò a muoversi per prendere questo nuovo piccolo corpo tra le braccia; non riuscì a farlo. Ma non mollò e ricominciò a muoversi centimetro per centimetro fino a quando non afferrò le forbici nel cassetto vicino al letto. Si ricordò di tutti i parti a cui aveva assistito con la zia di sua madre che faceva la levatrice, e tagliò il cordone ombelicale che la legava a suo figlio. Prese il piccolo tra le braccia e provò a sopirlo…

La luce del giorno iniziava a presentarsi con timidezza quando Laila sentì la voce del Muezzin che invitava i fedeli in moschea per la preghiera dell’alba, e in sottofondo, le campane della chiesa di San Giuseppe che suonavano i colpi lenti, tristi e pesanti del Venerdì Santo.

Poi si rese conto di dover trovare un nome al figlio. Ma come chiamarlo? Non sapeva se dargli il nome musulmano di suo marito deceduto cinque mesi prima o un nome cristiano. Se fosse ancora vivo il marito, avrebbe dovuto chiamare il piccolo, per tradizione, come il nonno, visto che qualcuno deve assolutamente ereditare il nome del nonno paterno. Adesso il padre non c’era più, e lei poteva crescere il figlio con le sue credenze cristiane. “Ma cosa farei se il nome cristiano non piacesse al nonno musulmano, ora che è rimasto lui l’ultimo parente vivo?” pensò allattando il neonato. Non voleva offenderlo con un nome cristiano!

Il padre, marito di Laila, era figlio unico e la nonna era morta subito dopo averlo dato alla luce. Anche Laila aveva perso la madre dopo una lunga battaglia contro il cancro, mentre suo padre era morto di dolore quando seppe che sua figlia era stata uccisa dal fratello, perché avevano idee politiche opposte.

Queste due famiglie, un tempo appartenevano alla borghesia, ma adesso per colpa delle guerre, i loro patrimoni erano diventati molto umili.

E per leggi inventate da una certa casta che ha illuso e ingannato i fedeli; una società aiutata da gente che si era pronunciata custode delle tradizioni della Chiesa e dalla Charia, le due famiglie avevano litigato e reso la vita dei loro figli una miseria, un inferno vissuto. Ogni famiglia a sua volta, per crudeltà o per settarismo, aveva rinnegato i due nuovi sposi e ripudiato la coppia clandestina, multiconfessionale, come se fosse una malattia. Una coppia che aveva subito un raid di imputazioni da parte dei propri genitori. Una coppia che non aveva mai voluto staccarsi dalla famiglia che l’aveva accusata di separatismo. Una coppia diversa, che avrebbe voluto vivere in pace e amore, e credere in Dio senza dover attaccarsi a Libri e Sacre Scritture.

Ormai, per gioco del destino, questo figlio, metà cristiano metà musulmano era diventato l’unico erede delle due famiglie!

… Finito il suo primo pasto, il piccolo si addormentò, Laila lo mise accanto a lei, lo coprì con un fine velo e finalmente cedette anche lei al sonno.

Dopo scarsi minuti di riposo goduti al massimo, si svegliò al suono che odiava: il chiasso della guerra civile, diventato sveglia da più di sette mesi; il solito ritmo delle bombe che avevano tolto la vita al marito, e la stessa crudeltà che si era impossessata di suo fratello, impregnandolo di false idee politiche. Una crudeltà che si era impadronita di lui fino a supplicarlo ed implorarlo a uccidere sua sorella che faceva parte di un altro partito politico… E mentre Laila aspettava che cessassero le bombe, preparò il bagno per loro due affinché potesse portare il figlio in ospedale.

Poi sentì i suoi pianti, si avviò verso la sua camera, ma prima che lei arrivasse, lui smise di piangere. Si appoggiò sulla porta per contemplarlo sotto il velo bianco, con i primi raggi di sole sulla sua dolce pelle. Lo vide per la prima volta con la luce: le piccole dita dei piedi balzavano fuori dalla coperta; la sua respirazione faceva un ritmo che gli gonfiava il ventre a colpi stretti; poi mosse le braccia per mostrare dita snelle destinate a suonare il pianoforte, ultima supplica del padre. Ormai poteva vedere la faccia illuminata del neonato, gli occhi socchiusi, le labbra coperte di bava, e il naso.

Aveva un naso stranissimo che non somigliava né al suo, né a quello di suo marito! Si avvicinò per osservarlo meglio, e come un arco da violoncello che si rompe e interrompe la melodia di colpo, come una ballerina che cade nel bel mezzo alla sua performance, anche lei cadde in un’improvvisa défaillance quando un’aria fredda sbatté contro il suo petto e scosse il suo cuore: Laila si accorse che suo figlio era affetto dalla sindrome di Down…

Si fermò sopra il piccolo corpo e disse sottovoce: “E come farò io con un bambino così? Come lo crescerò?”

“Un bambino così?!” ripetè ad alta voce con un tono pieno di angoscia, ma anche di fastidio. Fastidio perché si era sentita priva di umanità come quelli che trattano i Down come se avessero una malattia contagiosa, o un veleno chimico che rischia di diffondersi nell’aria e rovinare vite ed esistenze.

“Così o no, questo è mio figlio ed è degno del mio amore e del mio affetto. Sì che lo crescerò! E sarà bello come tutti e non avrà nessun difetto, perché è mio”.

In nove lunghi mesi, anche con la morte del marito, la solitudine e i bombardamenti, Laila era sempre rimasta ottimista. Quante volte aveva sognato del giorno in cui avrebbe dato alla luce un piccolo corpo colore rosa, sano e salvo? Ma un figlio Down, nessuno lo vuole, nessuno lo sogna!

A salvarla dai pensieri furono le lacrime; le sue, che vennero ad acquietarla, e quelle di suo figlio che la supplicarono per un abbraccio.

Un abbraccio che fu appagante non solo per il neonato, ma anche per lei; sentì il bisogno di baciarlo, di toccarlo, di avvicinare il proprio viso a quello del piccolo, e di accarezzargli le guance con le sue guance.

Per sette anni le carezze e i baci diventarono la sua unica fonte di energia; e in sette anni, tantissime carezze e baci le procuravano, ad ogni momento la gioia necessaria per dimenticarsi di tutto e di tutti!

In sette anni, tutto cambiò: la guerra civile acquistò un nuovo nome: “democrazia dei partiti politici”, i rumori delle bombe vennero sostituiti da proclamazioni da parte di politici autorevoli, pentiti di guerra, e il chiasso della guerra da manifestazioni “pacifiche” di gente che non capiva nemmeno i punti di repulsione tra “manifestare” e “pace”!

Ma anche la vita di Laila cambiò: in sette anni visse la morte del suocero, fece tanti lavori, senza trovare mai un datore che accettasse la presenza di Sghir sul posto di lavoro. In sette anni Laila non ebbe il coraggio di avere tempo libero per paura di dover andare in comune a dichiarare il figlio che fu sempre chiamato da lei “Sghir”, “piccolo” in dialetto. E l’ultimo degli avvenimenti furono i dolori nel petto… Dolori a cui Laila non rispose per sette anni.

E finalmente venne il giorno in cui si presentò, con Sghir, in ospedale per farsi visitare da un medico: “La voglio rivedere fra quindici giorni con i risultati di questi esami”.

Alla seconda visita, il medico ebbe meno parole da dire: “mi dispiace… Ha un tumore in fase avanzata!”

Dopo questa scoperta, e con una raffica di pensieri che si insinuavano e serpeggiavano nella sua mente, si rese conto della serietà del problema e della scarsità delle soluzioni possibili, e finalmente si accasciò..

Per notti, aveva fatto mille volte il giro della casa pensando ad una sola cosa: a chi affidare Sghir dopo la sua morte, ora che non aveva più una famiglia? E le istituzioni non potevano accettarlo perché non aveva documenti, quindi, in comune, Sghir non esisteva! Si ricordò di tanti bambini che aveva visto per strada, a lavorare… Bambini senza famiglia, senza una casa in cui tornare la sera. Bambini infreddoliti in inverno e che alla fine dell’estate avevano i capelli ingialliti da tante ore di esposizione al sole.

“No! Io non lascerò mai mio figlio per strada; mai!”

Poi la travolse una visione che provò a riprendere tante volte affinché potesse capire come mai ebbe un pensiero così brutto?! “Uccidere mio figlio? Io? Uccidere Sghir? L’amore mio?”

Inibitasi, bloccatasi, adagiatasi, in mezzo a questo soliloquio, come un motore in panne, Laila andò in tilt…

Per due anni tornerà la stessa visione nella sua mente.

Ogni notte andava nella camera di Sghir a contemplarlo mentre dormiva. Quante volte aveva pensato al suo ultimo giorno che sarebbe stato il loro ultimo giorno insieme?

Per due anni, notte dopo notte, prima di andare a letto aveva dovuto tormentarsi a convincere una madre a uccidere suo figlio. Tormentarsi ad accettare di sciogliere le medicine nel bicchiere di latte di Sghir e lasciarglielo vicino al letto, e tornare all’alba a riprenderselo e ringraziare Dio per un altro giorno che vivrà suo figlio!

…Poi in quella notte si svegliò poco prima dell’alba. Era molto debole! Si mise a chiamarlo. Sghir non rispondeva perché dormiva. Cominciò a piangere perché sapeva che sarebbe stata la sua ultima notte. Non poteva muoversi, ma doveva assicurarsi che Sghir bevesse il bicchiere di latte che lo avrebbe portato in paradiso. Non mollò. Riprese a chiamarlo, poi sentì il bicchiere cadere e rompersi e subito dopo, Sghir arrivò da lei. Si mise in ginocchio davanti al letto e disse: “mamma, quando mi hai chiamato, mi sono alzato e ho fatto cadere il bicchiere. Scusami, mamma. Me ne puoi preparare un altro?”

Laila si sentì soffocare; erano i suoi ultimi minuti, e ora che il bicchiere si era rotto, Sghir sarebbe rimasto da solo, per strada, o anche peggio: a casa con il corpo di sua madre!

Il piccolo si addormentò in ginocchio dopo aver goduto di un abbraccio, anzi dell’ultimo; e Laila riprese a muoversi con difficoltà fino ad arrivare al cassetto dove trovò le forbici.

“Dio, ti ringrazio per l’amore che Sghir ha messo nel mio cuore, ti ringrazio per tanti momenti di gioia, di esaltazione che ho vissuti con lui. La sua presenza ha reso la mia vita felice e così leggera che sembra sia trascorsa in tre giorni. Perdonami Signore per aver ucciso il mio angelo, perdonami per averlo nascosto per nove anni per paura di essere criticata dalla gente. Perdonami per averlo chiamato Sghir, come se non fosse degno di un nome!” E con queste ultime parole, sentì la preghiera dell’alba e i colpi felici delle campane di Pasqua, e vide il sangue di Sghir mescolarsi al sudore della sua malattia e alle ultime lacrime.