I racconti del Premio letterario Energheia

Al cimitero in un giorno di vento, Lorenzo Pedrazzi_Milano

Miglior racconto per la realizzazione di un cortometraggio – Premio Energheia 2019

Racconto finalista venticinquesima edizione Premio Energheia 2019

Mi sono sentita adulta solo dopo i trent’anni, quando ho cominciato a vedere cose che i miei genitori conoscevano a malapena. Frammenti di viaggi solitari, come incroci affollati di città straniere o piste di decollo che sfidano l’orizzonte: quel genere di immagini che trovereste nel diario di una turista ingenua, poco abituata al mondo.

Ora invece vedo uno scoiattolo che scorrazza fra le tombe del cimitero e poi si ferma sulla lapide del signor Valaguzza, con la lunga coda che ne nasconde la fotografia. Ecco, questa è un’altra scena che probabilmente mia madre non ha mai visto: uno scoiattolo che si pettina il pelo in cima a una lapide. Adesso lei è sepolta a pochi lotti di distanza, nell’ampliamento che fa parte del nuovo piano regolatore. Ci sono già le prime tombe, compresa la sua, ma i vialetti non sono ancora completi: invece dell’asfalto o della ghiaia, c’è una terra bruna e soffice che ti si attacca alle suole delle scarpe. Tenere pulito quel pezzo di cimitero è praticamente impossibile, soprattutto in giornate ventose come queste, ma io ci provo lo stesso.

Non sono la custode, no, quello è Rinaldo. Io mi occupo solo della manutenzione quotidiana dei lotti, faccio pulizie, risistemo i vasi, spazzo le foglie dai sentieri. Ho persino un gabbiotto dove mi posso sedere, vicino all’ingresso. È un lavoro tranquillo, com’è ovvio che sia quando ci si prende cura dei morti: non protestano, non ti rimproverano, e i loro cari non vengono così spesso da rappresentare un problema. A volte cerco di scherzarci sopra anche con Rinaldo, ma non è il tipo da apprezzare l’umorismo nero. O di qualunque altro colore, se è per questo.

È proprio lui ad avvertirmi che il vento si alzerà nel corso della giornata, quindi devo stare attenta agli eventuali danni. Il vento è un bel grattacapo nei cimiteri: rovescia i vasi, spegne i lumini, sparpaglia i fiori e li mischia tra loro. Eppure, sa anche essere molto generoso con i defunti. Basta una folata improvvisa, e una tomba dimenticata da tutti si ritrova cosparsa di petali altrui, come se un parente lontano avesse finalmente deciso di farle visita. Anche quella di mia madre potrebbe giovarne, dato che non le ho più portato niente dopo il funerale. D’altra parte, il vento è un sovrano illuminato che ridistribuisce la ricchezza, senza discriminazioni; io invece sono la protezione civile che stima i danni e cerca di rimettere a posto, lasciando almeno qualche fiore a chi non ne riceve mai. Lo faccio più per risparmiarmi la fatica che per spirito caritatevole: tanto, ai morti non importa se le loro tombe sono adorne di fiori oppure no. In quelle bare ci sono soltanto mucchi di ossa e polvere.

Ovviamente non dico queste cose ad alta voce, soprattutto quando ci sono molti visitatori… cioè, quasi mai. Il cimitero in cui lavoro è uno dei più piccoli della città, ai margini del quartiere periferico in cui sono cresciuta e vivo tuttora. Le ossa di mio padre sono già conservate in un loculo, perché morì quand’ero appena adolescente durante un viaggio di lavoro. Ci vorranno almeno dieci anni prima che anche mia madre venga riesumata, e allora spero che potranno trovarle un posto vicino a lui. Mi auguro di essere altrove quando succederà.

Il mio gabbiotto vibra a ogni raffica di vento, ed è solo metà mattina. Appena vedo la signora Valaguzza entrare dall’ingresso principale, mi alzo e afferro la ramazza, perché so già come andrà a finire. La signora Valaguzza ha perso il fratello sette mesi fa, e viene a trovarlo ogni giorno. Rinaldo mi ha detto che lavora in casa, fa la sarta, quindi immagino possa gestire il suo tempo come vuole. È una cinquantenne molto curata, con i capelli rosso fuoco e gli occhiali dello stesso colore, piccola e schietta. Ogni volta che mi vede, mi squadra come se fossi un eschimese nel Sahara, e forse ha ragione. La pedino mentre raggiunge la tomba del fratello, gettando un’occhiata a Rinaldo che ci scruta dal cancello.

«Guardi che disastro» dice la signora, chinandosi su un vaso di ciclamini rovesciati. «Lo sapevo, con questo ventaccio…»

«Prima c’era uno scoiattolo proprio sulla lapide di suo fratello» le rispondo.

Lei resta per un attimo sovrappensiero, la pelle corrugata dietro gli occhiali. «A Domenico non piacevano gli scoiattoli, e neanche gli altri animali» conclude.

Mi accovaccio e raduno i petali che si sono riversati ai piedi della tomba, insieme a qualche foglia e un po’ di sterpaglia. Lei sistema il vaso di ciclamini vicino alla foto, che ritrae il fratello sorridente in una luce calda, forse estiva. Non guarda in macchina, ma oltre l’obiettivo, come se si stesse rivolgendo a qualcuno dietro di noi. Ha la fronte ampia, lucida di sole, mentre i capelli castani sono piccole ali che si aprono ai lati della testa. Non ha l’aria di uno cui non piacciono gli animali.

«Volevo portare altri fiori, ma oggi è inutile» dice la signora contemplando il risultato delle sue cure. «Questo vento mi manda ai matti.»

Raccolgo le sterpaglie con una paletta, e mi rendo conto che le donne come lei sono le uniche a frequentare assiduamente un posto come questo: donne minuscole e coriacee, attaccate ai loro cari per senso del dovere e semplice abitudine, oltre che per vero affetto. La signora Valaguzza viveva con il fratello nella loro casa natale, nessuno dei due si è mai sposato. Lui l’aiutava con i conti e spesso le faceva da modello per gli abiti maschili, tant’è che il vestito con cui è stato sepolto l’ha confezionato lei. Quando si vive in simbiosi, la morte di uno è anche un po’ la morte dell’altro.

«Stamattina mi ha preso un colpo, sa?» continua la signora. «Dico per il vento. C’è molta corrente in casa mia, Domenico mi rimproverava sempre perché lasciavo aperte le porte e le finestre appena faceva primavera. Quando sbattono mi fanno impazzire, come uno sparo… ha presente?» Mi squadra nel solito modo, aggrottando la fronte e chinando un po’ la testa. «Ma lei lavora in un cimitero» dice. «Non si lascia spaventare da un po’ di vento, giusto?»

Annuisco, anche se non ho mai capito cosa ci sia di tanto spaventoso in un cimitero. I veri pericoli sono fuori da qui, mica dentro. Qui, al massimo ci si annoia.

«Magari torno nel pomeriggio» dice ancora la signora, poi lancia un’ultima occhiata alla tomba del fratello e si avvia sul sentiero, salutando con un cenno della mano. Il vento le fa guizzare i capelli come fiamme, e anche Rinaldo la segue con lo sguardo. Quando gli chiedo perché la gente sia così spaventata dai cimiteri, lui non ha dubbi: «È il silenzio» mi risponde. «Nessuno è più abituato al silenzio.»

In realtà, se c’è una cosa che mia madre mi ha insegnato, è proprio la paura. Non di fenomeni irrazionali come gli spettri o i morti viventi, no… parlo di fobie molto più concrete, che si sono acuite dopo la morte di papà. Ansiosa e iperprotettiva, sembrava che una paura costante l’accompagnasse in ogni momento della sua vita, e soprattutto della mia: paura che stessi troppo vicina ai fornelli accesi, paura che m’immergessi in acqua, che maneggiassi un coltello, che uscissi la sera, che prendessi un aereo. Era terrorizzata dall’idea che potesse accadermi qualcosa, e poi qualcosa – crudele ironia – è capitata a lei.

Lavoravo per un’agenzia di assicurazioni quando ho deciso di licenziarmi e vedere un po’ di mondo: superati i trent’anni, con una laurea in mediazione linguistica, ero stanca di valutare polizze dalla mattina alla sera. Ormai avevo messo via una discreta somma, e mia madre – in pensione dopo decenni di segretariato in uno studio legale – era solita vedermi ogni giorno perché vivevo ancora con lei. Alla notizia della mia partenza per il Nord America, i suoi occhi si sono sgranati come quelli di un cervo illuminato dai fari. Ho passato settimane a rassicurarla, cercando di farle accettare questa ribellione alle sue fobie come un passaggio obbligato nel mio percorso di crescita, ma è ovvio che pensarmi da sola in un altro continente le metteva i brividi. Ciononostante, sono partita lo stesso: sognavo di riciclarmi come reporter di viaggio, un mio vecchio desiderio. Così, ho preso l’aereo senza un piano preciso, confidando che le opportunità si sarebbero presentate lungo la strada… e indovinate? Non è successo niente. Nessun incontro memorabile, nessuna occasione saltata fuori dal nulla. Solo anonime stanze di hotel, caotici appartamenti in condivisione e chilometri consumati sulle scarpe. Visitavo posti meravigliosi, ma mi rendevo conto di non avere niente da dire. L’unico articolo che sono riuscita a piazzare è stato un reportage dal Whaling Museum di Nantucket, intitolato Sulle tracce del Pequod e imbottito di citazioni da Melville. L’ho ceduto a una rivista on-line che l’ha pubblicato senza entusiasmo, e non mi ha nemmeno pagata. Poi, mentre mi preparavo a lasciare Boston per Chicago, ho ricevuto una chiamata da casa: mia madre era stata colpita da un ictus. Senza alcun preavviso, era crollata su una bancarella del mercato rionale. Sono tornata giusto in tempo per vederla morire nel suo letto d’ospedale, dopo pochi giorni di coma. Il mio viaggio era durato solo tre mesi, e durante la nostra ultima conversazione telefonica le avevo raccontato di quanto le sarebbero piaciute le spiagge di Cape Cod, ma che al contempo avrebbe odiato l’umidità di quei posti.

Di colpo mi sono ritrovata senza madre, senza lavoro e senza prospettive. Smarrita, ho cominciato a mandare curricula e fare colloqui, ma nel frattempo mi serviva un reddito fisso per tirare avanti. Fortunatamente Rinaldo si ricordava di me dal funerale di mio padre, così non ha fatto molte storie quando mi sono proposta di lavorare per lui al cimitero, pur ritenendo che fossi “troppo qualificata” per una cosa del genere. Gli ho risposto che non doveva vedere in me una laurea vivente, ma solo due braccia sane, robuste e pronte all’uso. Tanto gli è bastato, e cinque mesi più tardi sono ancora qui.

Rinaldo corrisponde all’immagine che, da bambina, avevo di un capitano navale. Magari un po’ più basso, ma la fisionomia è quella: barba e capelli bianchi, occhi orlati di rughe, e palpebre che si stringono alla luce del sole mentre guardano l’orizzonte (in questo caso, una foresta di lapidi). Sarebbe perfetto sopra una confezione di bastoncini di pesce.

Il vento gli liscia la barba sul viso e gli dà un portamento da condottiero, anche se probabilmente sta pensando solo ai danni che dovremo contare quando il tempo si sarà calmato. Ora che è passato mezzogiorno, le nuvole corrono ancora più in fretta, alternando chiazze di sole e di ombra sulla superficie del camposanto. Ciocche di capelli mi schiaffeggiano il viso, forse cercano di tenermi sveglia. Ma non ce n’è bisogno: i danni del vento preoccupano anche me.

Ogni volta spero che qualche imprevisto mi faccia evadere dalla noia, poi però mi rendo conto che preferirei starmene nel gabbiotto a fissare gli uccellini che zampettano fra le tombe. La verità è che i cimiteri possono essere luoghi molto rilassanti, se si ignora la loro funzione principale. Un paio di anni fa, ad esempio, sono stata in un cimitero di Copenaghen dove la gente si sedeva a fare pic-nic: a pochi metri dai sepolcri di Kierkegaard o Hans Christian Andersen, tranquilli impiegati consumavano il loro pranzo sulle panchine, mentre gli innamorati si stendevano sull’erba con un cestino e una tovaglia. Mi è sembrato un bel modo di vivere il cimitero, più libero e disincantato; come se i morti facessero ancora parte della quotidianità, e venissero coinvolti anche nei riti più banali. Non mi dispiacerebbe se fosse così anche qui.

Ne parlo con Rinaldo, che sta scrutando il cielo come se volesse consultare le stelle per calcolare una rotta.

«La gente fa il pic-nic nei cimiteri?» dice con una smorfia.

«Non so se in tutti i cimiteri, ma in quello sì.»

«Boh, contenti loro.»

«Qui non è mai successo?»

«No, anche perché li sbatterei fuori a calci.»

In effetti, faccio fatica a immaginare qualcuno che venga in questo cimitero per la pausa pranzo: io stessa di solito torno a casa, dato che abito vicino. Oggi però rimango qui, e Rinaldo m’invita nella sua guardiola per ripararmi dal vento. C’è un tavolino in cui possiamo restare seduti a guardare fuori, mentre io condisco la mia insalata con un intruglio preconfezionato di olio e sale. Lui invece non mangia nulla, e rifiuta persino i taralli che sbriciolo nell’insalata. Si limita a sorseggiare un liquido ambrato da un bicchiere di plastica, che scopro essere del semplice sidro di mele, non cognac o qualche altro liquore da marinaio. Suppongo che bere sul lavoro non sia indicato in nessuna circostanza, nemmeno quando si fa la guardia ai defunti. Mia madre beveva sempre un bicchierino di amaro dopo pranzo, ma mai quando aveva in programma di visitare la tomba di papà. Quel sorso non alterava le sue capacità di giudizio, eppure preferiva non correre alcun rischio, e presentarsi ai morti nella sobrietà più assoluta: niente che potesse farla confondere, o mancare di rispetto.

Ora che non c’è più, mi chiedo cosa penserebbe di questo vento ubriaco e balordo. Io e Rinaldo lo vediamo colpire il cimitero a folate di intensità crescente, che fanno vibrare la vetrata della guardiola nel suo telaio. Ai lati, i cipressi che segnano il perimetro del camposanto sfidano le raffiche in una prova di forza, piegandosi all’unisono. La luce adesso è meno intensa, nubi lattiginose si addensano in cielo, e Rinaldo stringe gli occhi per esaminarle con attenzione. «Quelle non portano pioggia» commenta, e si versa ancora un po’ di sidro.

Intanto, altre folate alzano la terra nella zona dell’ampliamento, erigendo un muro turbinante e granuloso. Nella prima fila, proprio davanti a noi, un vaso di garofani rinsecchiti comincia a rotolare fra le tombe, e poi sparisce alla sinistra della vetrata. Faccio per alzarmi, ma Rinaldo mi posa una mano sul braccio. «Finisci di mangiare» dice. «Non ha senso correre dietro a ogni vaso che scappa.»

Annuisco e mi siedo, senza distogliere lo sguardo dalla finestra. Chissà se mia madre ha mai visto uno spettacolo del genere.

Trascorriamo il pomeriggio facendo proprio quello che diceva Rinaldo, rincorrere vasi e sottovasi. All’inizio m’illudo di poterli restituire tutti ai legittimi proprietari, ma basta poco per rendermi conto che non è possibile. È una scena buffa, a pensarci bene. I fiori con gli steli più lunghi si mischiano in terra, e giocano a Shangai disegnando strane geometrie; i petali si staccano in sciami colorati, poi s’incollano al marmo delle lapidi e donano bizzarre capigliature alle foto dei defunti. I lumini, però, sono i più infidi: leggeri ed elastici, rimbalzano sulla ghiaia con scarti improvvisi, come galline che non vogliono farsi acchiappare. I vasi di metallo, o quelli appesantiti dalla terra, fanno poca strada e si fermano contro le tombe vicine.

Io e Rinaldo recuperiamo tutto quello che possiamo, consapevoli che molta roba sarà da buttare. Inseguiamo i vasi e i lumini tra un sepolcro e l’altro, ridicoli come i personaggi di una commedia slapstick, e poi li portiamo in guardiola o li adagiamo sotto i portici dei loculi, al riparo. Ormai le nubi lattiginose sono sopra di noi, e le folate rendono difficile camminare. «Rientriamo» gracchia Rinaldo, poi lo sento imprecare qualcosa in direzione dell’ingresso. Seguo la traiettoria del suo sguardo e vedo la signora Valaguzza che combatte il vento stringendosi nel cappottino scuro, le scarpe che raspano a fatica sul pietrisco. L’aria mi stordisce, ma dico a Rinaldo che ci penso io.

Raggiungo la signora sulla tomba del fratello, dove il vaso di ciclamini non ha lasciato nemmeno una traccia della sua esistenza. Mi guardo attorno, non lo vedo da nessuna parte. Anche lei lo sta cercando, e nel rombo del vento la sento dire che voleva metterlo al sicuro. Rispondo che l’aiuterò a trovarlo, ma intanto le circondo le spalle con un braccio e la porto via, non possiamo stare lì. «Venga con me in guardiola!» urlo per sovrastare le raffiche, mentre camminiamo a piccoli passi sul sentiero. La signora non protesta, sembra solo un po’ affranta, e in guardiola si lascia guidare docilmente su una sedia. Rinaldo chiude la porta alle nostre spalle.

«Che disastro» mormora lei scuotendo la testa, le mani raccolte in grembo.

«I morti non li porta mica via nessuno» risponde il custode.

Restiamo a guardare fuori dalla finestra, in silenzio, con la porta che tremola sui cardini e il frastuono che filtra dall’esterno, come se la mano di un gigante stesse scuotendo la guardiola. Rinaldo aveva ragione: non piove, a parte qualche gocciolina passeggera che si schianta sui vetri e deforma il panorama. Un borbottio incomprensibile è il suo modo per offrirci del sidro, che però non è né abbastanza caldo né abbastanza alcolico da confortarci. Lo beviamo nei bicchierini di plastica, io e lui in piedi, la signora sempre seduta.

Non ho mai affrontato una tempesta in mare, ma immagino che l’atmosfera non sia tanto diversa: tutti chiusi in cabina, ad aspettare che passi, costretti alla compagnia reciproca. Certo, in quella circostanza sarei fin troppo spaventata per avere il tempo di annoiarmi, al contrario di adesso. E allora ripenso a mia madre: a tutte le cose che non ha visto nella sua vita, e che ha conosciuto solo attraverso i miei racconti, tramite i miei occhi. Persino una visione come questa, non certo esotica ma insolita, l’avrebbe stupita. C’è un istante in cui il vento è talmente forte da piegare i cipressi in modo innaturale, spingendoli oltre il limite della sopportazione: li vedo chinarsi a uncino, i vertici tesi verso il basso fin quasi a toccare le lapidi, come se volessero afferrare un ultimo appiglio prima di volare via. Sembrano implorare l’aiuto della terra che li ha generati, e di coloro che la abitano. Ma dura poco, giusto lo spazio di un inchino. Quando il fragore si attenua, gli alberi si rialzano e recuperano la loro compostezza, limitandosi ad agitare i rami tra una folata e l’altra.

Ecco, questa pace improvvisa le sarebbe piaciuta.

Usciamo con le nuvole ormai ferme, e la Signora Valaguzza si mette subito a cercare il suo vaso. Mentre l’accompagno, do un’altra occhiata alla foto del fratello, sempre allegro nella sua luce estiva: no, non ha per niente l’aspetto di uno che detesta gli animali. In realtà non so che aspetto dovrebbe avere uno che detesta gli animali, ma di certo non quello.

Intanto, ricevo un’altra conferma della saggezza di Rinaldo: le mie orecchie hanno bisogno di qualche minuto per riabituarsi al silenzio, ora che la bufera si è ridotta a una leggerissima brezza. È così delicata che sembra chiederci scusa, e io vorrei fare lo stesso con mia madre: scusarmi per essere partita, e per non averle portato fiori in tutti questi mesi.

In fondo al cimitero, la zona dell’ampliamento è piena di terra sfatta che avvolge le tombe con un velo sottile, simile allo strato di polvere che si potrebbe trovare in un vecchio solaio. Ai miei piedi vedo i ciclamini: sono ruzzolati fino a lì con tutto il vaso. Senza farmi notare dalla signora Valaguzza, mi abbasso e ne stacco uno, tanto sono già abbastanza malconci.

Raggiungo il posto dov’è sepolta la mamma, guardo la sua foto e penso che vorrei sistemarle il fiore tra i capelli, nascondendolo in quel taglio da signora che stempera un sorriso dolce e imbarazzato. Lo poso in bilico sulla lapide, in modo che i petali le sfiorino la testa come una corona. Il ciclamino vibra nell’aria inquieta del tardo pomeriggio, mentre il piccolo stelo si dimena sul suo letto di marmo.

Resto a guardarlo finché un ultimo soffio di vento non lo spazza via. È in quel momento che capisco di dovermene andare.