L'angolo dello scrittore

Africa: dai campi alle baracche

L’impatto della crisi è più forte sui paesi in crescita. L’industria licenzia ma lì non ci sono protezioni sociali: chi viene dalle campagne finisce nelle periferie delle metropoli africane

 Amani – 22 Aprile 2011 di Pippo Ranci

  

L’economia mondiale sta attraversando la crisi peggiore dal 1929. l’origine è in quella macchina potente e terribile che è la finanza. È stata il motore dell’incredibile sviluppo degli ultimi sessant’anni: non ci sarebbe stata la crescita della ricchezza e la serie di straordinarie innovazioni che ci hanno cambiato la vita (a cominciare dal computer) se gli imprenditori non avessero trovato credito per realizzare le loro idee. Ma il gioco ha preso la mano. Le vecchie banche erano troppo prudenti e non ti facevano prestito se non mostravi di essere abbastanza ricco da non averne bisogno. Le nuove società finanziarie, specie negli Stati Uniti, hanno cominciato a fare un mutuo casa anche a chi evidentemente non sarebbe riuscito a pagarlo, contando sui prezzi delle case che crescono, comunque; poi sono andati avanti a rivendere pacchetti di mutui confezionati come obbligazioni ai risparmiatori, attraendoli con un buon tasso d’interesse. E via di corsa, sempre più prestiti a rischio da un lato, e dall’altro sempre più titoli attraenti, ma con poca sostanza e sempre più complessi e meno trasparenti. Prima o poi le bolle scoppiano, le finanziarie falliscono, crollano i prezzi delle case (in America), si avvia la spirale di minori vendite, licenziamenti, minori redditi. Nella storia si era già visto più volte, ma questa volta le proporzioni sono maggiori.

L’onere è disuguale

Gli aspetti che rendono la crisi grave e dolorosa sono due: il meccanismo di amplificazione in certi settori (nessuno rinuncia a mangiare, ma è facile rinviare il rinnovo dell’auto o del vestiario, così la crisi colpisce i produttori di auto e di abiti, molto più che quella di cibo) e la cattiva distribuzione degli oneri tra i cittadini (qualcuno guadagna un po’ meno, ma qualcuno perde il lavoro, qualcuno ha sostegni di reddito e qualcuno no).

E tra paesi? La crisi che nasce nel paese più ricco del mondo colpirà maggiormente i più poveri? Discutere in termini di paesi ricci e paesi poveri, porta fuori strada. Nell’economia mondiale ci sono ormai tre gruppi di paesi: quelli ricchi (Europa, Nordamerica, Oceania, Giappone, Corea), quelli che stanno uscendo dalla povertà attraverso uno sviluppo tumultuoso e rapidissimo (Cina, India, Brasile e molti altri che lottano contro le difficoltà, ma crescono) e, infine quelli che stanno in fondo alla fila, sono poverissimi e non riescono proprio ad avviare il meccanismo della crescita economica. L’economista inglese Paul Collier ha descritto la situazione nel suo libro: “L’ultimo miliardo”. In una popolazione mondiale di sei miliardi, un miliardo vive in paesi ricchi, quattro miliardi nei paesi in crescita, l’ultimo nella miseria. Tutti i paesi hanno grandi differenze di benessere al loro interno, e in particolare i paesi in rapida crescita mostrano disuguaglianze enormi tra le aree dove prospera l’industria competitiva e le sacche di miseria nelle campagne e nelle periferie.

In termini quantitativi, l’impatto della crisi è più forte e immediato sui paesi in crescita, che vedono restringersi i ricchi mercati in cui trovano sbocco le loro rigogliose esportazioni. Al loro interno l’effetto è disuguale: l’industria esportatrice licenzia con la stessa facilità con cui ha assunto, ma non ci sono protezioni sociali; chi ha lasciato i campi, finisce negli slums. Le economie dell’ultimo miliardo, poi, sono fragilissime e basta poco per metterle in ginocchio.

Le imprese dei paesi ricchi cancellano i programmi di investimento all’estero. Calano le rimesse degli emigrati. Complessivamente è emergenza per i poveri nei quattro miliardi dei paesi in crescita e per la quasi totalità della popolazione in quelli dell’ultimo miliardo. Si stima che nel 2005 sul totale di 5 miliardi di popolazione, 1,4 miliardi di persone (oltre un quarto del totale) vivevano sotto la soglia della povertà (secondo la definizione consueta: un reddito sufficiente a coprire i bisogni essenziali, attorno a un dollaro e 25 cents al giorno).

Nel 1980 erano 1,9 miliardi, la metà della popolazione. La popolazione al di sopra della linea era passata da 2 miliardi a 3 miliardi e mezzo, per effetto della crescita economica. L’uscita dalla povertà è stata disuguale: dall’80 al 20 per cento della popolazione nell’Asia sub-sahariana la percentuale è stazionaria sul 50%. La crisi attuale sta spingendo circa 100 milioni di persone di nuovo al di sotto della linea.

Un ripiegamento egoistico da rifiutare

Di fronte alle difficoltà, ciascuno pensa ai suoi problemi. I nostri mezzi di informazione sono pieni di cronache attorno a noi, e di proposte per alleviarla da noi, a costo di aggravare la situazione altrui. E lo stesso accade in tutti i paesi ricchi. Rinasce il protezionismo. Si rivede la propaganda “comperate prodotti nazionali” (Buy American, Achetez français) e i governi ne fanno una condizione per aiutare le imprese in difficoltà: se vogliono gli aiuti statali devono acquistare semilavorati solo in patria, e s sono banche e assicurazioni servire prima i clienti nazionali. Il nazionalismo economico è comprensibile a livello locale: l’impresa in crisi chiede protezione contro la concorrenza, la comunità locale sostiene la richiesta. Ma se appena alzate lo sguardo su di un panorama più ampio, vedete bene che è solo un farsi male a vicenda, dannoso per tutti; produce solo inefficienza e ritardi nell’uscita dalla crisi. Ora sappiamo bene che ha enormemente aggravato la crisi degli anni ’30. ma si ripete: dalla storia non si è imparato nulla.

Il nazionalismo economico dei paesi ricchi va a particolare detrimento dei paesi che si affacciano ora all’industrializzazione. Già incontravano ostacoli allo sviluppo delle loro esportazioni, ora ancor più. E naturalmente i governi dei paesi in crescita non sono innocenti, hanno capito il gioco e lo praticano anche loro. i paesi ricchi, al profilarsi della crisi, si sono irrigiditi. I negoziati per la liberalizzazione del commercio mondiale (il Doha Round), si sono bloccati nel luglio 2008, per l’impossibilità di raggiungere un accordo su come bilanciare la liberalizzazione e le protezioni mirate per le economie e i settori più deboli. Il danno maggiore del blocco è per i paesi dell’ultimo miliardo.

Nel 2009 si tratta di riprendere le fila della trattativa in un clima dominato dalle mosse difensive che la crisi induce in tutti i paesi: sarà una partita difficilissima eppure essenziale.

Ricordiamo, però, che il problema non sta solo nel commercio, come non sta solo negli aiuti. Forse, più importante di tutto è la prevenzione e la composizione dei conflitti che abbondano soprattutto in Africa e che sono piuttosto la causa della povertà che la sua conseguenza.