L'angolo dello scrittore

Abolire province o prefetture?

di Roberto Vacca

_Il Governo riduce il bilancio delle prefetture di mezzo miliardo. Ridurrà un po’ il deficit. Nessuno dice, però, quanto costino all’anno i prefetti. Si può risparmiare ben di più. Si è parlato di abolire le province che hanno funzioni concrete: istruzione, cultura, turismo, trasporti, viabilità, territorio, protezione dell’ambiente, sviluppo economico. Se le aboliamo, altri vicarieranno le loro funzioni. Il risparmio sarà illusorio: consisterà in controllo di qualità e innalzamento dell’efficienza. di cui c’è sempre bisogno. Indago in rete sul costo annuo di province e prefetture. [l’Annuario ISTAT non lo cita].. I numeri non sono univoci: ci sono: spese impegnate, di competenza, residui. Grosso modo le prefetture costano circa 9 miliardi, ma fanno cose utili. Le prefetture costano 6 miliardi, ma non hanno funzioni utili. A parte sprechi lussuosi, i prefetti servono solo a frenare ed estendere in periferia il potere centrale. Hanno anche effetti peggiori: 68 anni fa li descrisse duramente Luigi Einaudi. Fu il più rivoluzionario Presidente che abbia avutola nostra Repubblica. Nonteneva tanto nemmeno alle province. Scrisse queste parole – in Svizzera, quando l’Italia era sottoi tedeschi:

 

Via il prefetto! di Luigi Einaudi, Gazzetta ticinese 17/7/1944, (firmato Junius)

Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il “prefetto” sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l’amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d’ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti regii, che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati  italiani governavano entro i limiti posti dalle “libertà” locali, territoriali e professionali. Spesso “le libertà” municipali e regionali erano “privilegi” di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all’universale. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l’opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all’interno, amante dell’ordine, sospettoso, come tutti i  tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò  l’opera. I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non  di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto  napoleonico. L’Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d’Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà  e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.

Democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro. Né in  Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finche esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto.

Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà  popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno  quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre  farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico. Gli uomini di  stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la  forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e  pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole hanno  un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla da  imparare, perché quelle parole sentono profondamente da sette secoli.  Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o  presidenti o borgomastri, ma da se, senza intervento e tutela e comando di  gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano,  se lo mandano in malora o lo fanno prosperare. L’auto-governo continua nel  cantone, il quale è un vero stato, il quale da sè si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica.  Il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio federale  per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e  mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossie piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto,  ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più  piccoli. Cosi pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; cosi si fa negli  Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana, australiana e nella  Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la  gente sbriga da se le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si  dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo  centrale. Cosi si forma una classe politica numerosa, scelta per via di  vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma  prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano,  bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli  stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto  amministratore. La classe politica non si forma da sé, ne è creata dal  fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per  scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali  delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quelle  delle cose nazionali od inter-statali più grosse.  La classe politica non si forma tuttavia se l’eletto ad amministrare le  cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile   per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad  amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare  appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?

 Finche esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio  provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale,a  Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. Costui è  il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero stato.  Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale  approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre  spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi  locali. Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il  consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o  provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari  statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria  deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i  moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda  locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: non sono ancora arrivate le  istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno  in giorno. A nessuno viene in mente del ministero, l’idea semplice che  l’eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge,  salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che  cosa fu e che cosa tornerà ad essere l’eletto del popolo in uno stato  burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un  tale, il cui merito principale e di essere bene introdotto nei capoluoghi  di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, eda Roma, presso i  ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più  potenti, presso direttori generali, capi-divisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri.  Il malvezzo di non muovere la ” pratica ” senza una spinta, una  raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. E’ antico ed è  proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l’orologio, diceva: a quest’ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i  professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti  gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine  degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei   bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami,  materie insegnate. I fascisti concessero per scherno l’autonomia alle  università; ma era logico che nel sistema accentrato le università  fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria  dell’amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati  elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le  camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti-accentratori a poco a poco  originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di   scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni   possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a   cattedre.  Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di  una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro  amministrati appariva camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte  nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell’interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del  consiglio può rinunciare ad essere ministro dell’interno se non vuol correre il pericolo di vedere “farsi” le elezioni contro di lui dal  collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel  ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei  carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccolie grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di  spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno  dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue  raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l’esito delle pratiche  dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo   scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.

Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si  trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto  napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le   fronde.Per fortuna, di fatto oggi in Italia l’amministrazione  centralizzata è scomparsa.  Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del  quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per  manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo  la macchina oramai guasta e marcia. L’unita del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L’unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali  imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La  vera costituente non si ha in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o  di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a qualche altro  saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa  e dai comitati eleggere a costituente. Chi vuole che gli italiani   governino se stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali,  unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita  da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare  liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi  lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma cosi: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da parte con il distretto o collegio o vicinanza, unita più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall’altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il collegio regione  dovranno amministrarsi da se, formarsi i propri governanti elettivi,  liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo  e con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire. Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell’altro ente  sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad  indicare che non solo nel campo internazionale, con la creazione di  vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di  corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata dall’alto, urge  distruggere l’idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l’unità nazionale. L’accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una burocrazia pronta a ubbidire a ogni padrone, non radicata  nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico  oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e  ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca e a premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia “economica”, ossia arbitraria. L’arbitrio poliziesco erasi affievolito all’inizio del secolo; ma lo  strumento era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere  al dittatore i rapporti quotidiani della polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur guasto, e pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire nuovi  tiranni e nuovi comitati di salute pubblica. Che cosa ha dato all’unità d’Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unita e salda, se prima gli uomini i quali si conoscono ad  uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre l’occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti conosciamo e amiamo: la famiglia, il comune, la vicinanza ela regione. Cosipossederemo finalmente uno stato vero e vivente.