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Montesano racconta “Di questa vita menzognera”

Il Quotidiano – Mercoledì 24 marzo

L’ossessione della famiglia

Scrivere anche dieci ore al giorno, “fino allo spossamento fisico”, è il metodo di lavoro di Giuseppe Montesano, vincitore dell’ultima edizione del premio Viareggio con il romanzo “Di questa vita menzognera” (Feltrinelli).
“Mi piace molto la velocità del racconto – afferma – cerco di scrivere con grande immersione, la prima stesura la scrivo sempre in breve per poi elaborarla”.
“Di questa vita menzognera” ha come protagonista la famiglia dei Negromante, imprenditori partenopei senza scrupoli, padroni indiscussi della città e promotori di una nuova economia di rapina: le parole d’ordine sono “distruggere e ricostruire”, con l’obiettivo di creare “Eternapoli”.
La famiglia con i suoi segreti e i suoi intrighi è al centro del suo romanzo. Quanto è importante per lei?
“Un po’ mi ossessiona il mondo familiare perché mi sembra il luogo in cui esplodono cattiverie, crudeltà. La famiglia è uno specchio del mondo grande”.
“Di questa vita menzognera” sembra quasi la parodia di Beautiful ambientata a Napoli.
“Mi piace ripetere che è un po’ come se i personaggi del Padrino tentassero di imitare quelli del Gattopardo. La Negromante è una famiglia volgarissima, avida e ignorante che cerca di scimmiottare i fasti del passato”.
Ritiene di dover salvare qualche componente della famiglia Negromante?
“So che sembrerà romantico ma è la pura verità: Andrea e per me è stato terribile farlo morire. È stato un momento di identificazione molto intenso. La vittima sacrificale richiama sempre più l’attenzione. Ma c’è anche un altro personaggio che nella sua ambiguità mi piace, è Cardano, il dandy che alla fine si riscatta da una vita tradita”.
Che significato ha per lei scrivere?
“Ho l’impressione che fin da bambino volessi scrivere e questo capita a tutti. La convinzione l’ho avuto all’altezza del primo libro, intorno ai trent’anni, quindi non sono mai stato un giovane scrittore e non considero la scrittura un mestiere. Scrivere è come una forma di manifestazione di sé stessi, del rapporto con gli altri, quelli che io definisco amici immaginari. Reputo la scrittura qualcosa che ha a che fare con l’artigianato. Nella vita insegno filosofia e la scuola entra nei miei libri. Stare con i ragazzi costringe a cercare di capire cose, mi piace molto questo confronto continuo. Questo incontro scontro con un’altra generazione è stimolante. Spesso mi è capitato di raccontare le trame, senza svelare se fossero mie. Gli studenti sono una specie di lettori primari”.
Cosa consiglierebbe ad un giovane scrittore?
“Per i giovani è più facile. Credo che presto saranno i bambini di 13 anni ad essere i più ricercati dall’industria culturale. E comunque a farcela è uno su mille. Bisogna essere intransigenti verso le proprie debolezze e delle richieste che ci vengono dall’esterno. Se un orafo fabbrica un gioiello e si concentra sul gioco delle sue dita non costruirà un buon gioiello. Si può essere anche molto felici se ci si immerge così tanto nel lavoro da dimenticarsi di se stessi”.