I racconti del Premio letterario Energheia

Miss Pimm. Cronache di una battaglia di cuscini_Giulia Pedonese, Camaiore(LU)

_Racconto finalista diciannovesima edizione Premio Energheia 2013.

 

 

1. Preludio

 

Miss Pimm non aveva mai considerato una questione da un punto di vista diverso, da quello di sua madre. O meglio, la questione. Articolo determinativo femminile, singolare. Anche se sarebbe stato più appropriato l’Articolo determinativo maschile singolare, dato che lui era maschio. E molto singolare.

Miss Pimm faceva la maestra delle elementari: italiano, storia, iuspichinglisc e matematica, fino alle divisioni a una cifra. Non le riusciva molto bene, dividere. Soprattutto la domenica, soprattutto se la Miss Pimm, che a quell’ora stava sfornando una sontuosa torta di mele, non era la stessa Miss Pimm che lo stesso giorno, alla stessa ora, doveva smaltire una sontuosa sbornia.

Era andata in cucina a preparare un drink, possibilmente un po’ più forte di un frullato alla pesca, e la cosa migliore che le saltò in mente, fu aprire il frigo, nella speranza di trovare, per sbaglio, una lattina di birra, anche se non aveva mai comprato birra, che si ricordasse.

Tirò un sospiro alla luce automatica del frigo e l’aria fredda le mandò in circolo una stantuffata di terrore. Sveglia, alle tre di notte. Sveglia a cercare birra. Così sveglia che la testa le faceva male e il respiro le vorticava intorno, come se l’aria le sfuggisse e per rincorrerla fosse costretta a vivere di più. Fissò l’insalata, lì, a un palmo dal suo naso, le carote ancora da pelare e l’involto con l’arrosto. Due chili di manzo, netti. A guardarlo le venne una tristezza colossale. Perché cucinava l’arrosto se amava le acciughe?

Con la coda dell’occhio notò un tappo blu dall’aria circospetta. Le era sempre piaciuto, il blu, e l’impressione le ispirò fiducia. Guardò meglio. Il naso ormai era mezzo congelato. La punta del pollice, che teneva aperto lo sportello, scricchiolò un pochino, prima di staccarsi e le parve che la polaroid del tempo scattasse un’istantanea della sua eterna trasgressione.

 

2. Presentazioni

 

La testa le girava. Stropicciò lentamente la punta delle dita. Pollice e indice, come faceva prima di correggere i compiti con la penna verde. Sempre piaciuto, il verde. No, il blu. Dicevano che le donava, il verde, per via dei capelli rossi. Glielo dicevano. Chi glielo diceva? Glielo diceva sua madre. Sua madre? Avvertì il gelo del pavimento prendere la rincorsa lungo la spina dorsale.

Balzò, come un gatto, e mise a fuoco le mani. C’erano piume ovunque. Notò, solo allora, di aver dormito dalla parte sbagliata del letto, con il cuscino ai piedi e il lenzuolo chissà dove: che avrebbe detto sua madre di tutte quelle piume in camera, dell’arrosto ancora nel frigo, di…?

Cercò a tentoni la finestra e si alzò, reggendosi al davanzale. Si affacciò prima con la punta del naso, poi con il mento e il busto, via via che le gambe reggevano. La giornata era un vero trionfo, un sole pirotecnico nel blu senza nubi e un vago odore di lucertole. L’estate nasceva sotto i suoi occhi, crogiolandosi al frutto di una tarda primavera. Sarebbe stato tutto perfetto, se solo avesse apparecchiato il gazebo, pareggiato la siepe e ridipinto i nani da giardino. Tutte cose che l’attendevano ordinatamente su una fila di post-it, a lato dello scrittoio.

Guardò fuori dalla finestra. Guardò i foglietti. Guardò ancora fuori. Li staccò, uno giallo, uno rosa, uno blu. Li fece a pezzi. Li buttò di sotto. Si appoggiò con i palmi distesi al davanzale e respirò forte. Respirò e respirò tanto, che avrebbe dovuto girarle la testa. Ma la testa non le girava più.

Un ticchettio indistinto le invase la memoria. Vide i post-it danzarle in cerchio, intorno alla testa, e battere il dito sull’orologio, come il coniglio bianco del paese delle meraviglie.       Li scacciò e tornò a godersi il sole. Tictic tictic tictic. Si avvicinava, fastidioso, e la costrinse ad aprire gli occhi.

Fu un attimo. Desiderò lanciarsi dalla finestra, raccogliere alla svelta i post-it, riappiccicarli al muro, tornare nel letto, dormire, rimettere le piume nei cuscini, tappare la bottiglia, riporre i bicchieri, chiudere la porta di casa, tornare a quel marciapiede e dire no, grazie.

No, grazie, la prima cosa che la vocina le suggerì alla mente, quando quel tale si offrì di accompagnarla a casa. Poi aveva cominciato a piovere, era scivolata e aveva perso un tacco. Lui l’aveva presa sottobraccio, prestandole l’impermeabile. Non c’era stato bisogno di parole, e ne era contenta. Lo stesso istante in cui la vocina le aveva fornito la risposta con i fiocchi, lo stomaco si era spostato di un millimetro, giusto il tempo di un silenzio che lasciasse accadere l’inevitabile.

L’aveva guardata, a quella cena di lavoro. L’aveva guardata.    Tanti la guardavano, perché era strana, forse, addirittura bella con quei lineamenti chiari e l’aria di un gatto bagnato, completamente inzuppata di altrove. Lui l’aveva guardata dietro quel velo. L’aveva vista nuda, sul nascere di un desiderio, prima che avesse il tempo di inventarsi dove mettere gli occhi, per non apparire sbagliata o fuori luogo. Le aveva confuso le mani e le ginocchia. Era stata questione di un attimo, e lo sapeva.

Lo sapeva, perché si era spaventato quanto lei, se non di più.    Si vedeva lontano un miglio che moriva di paura. Ma aveva paura di vivere, non di morire. Per quello sapeva che farsene degli occhi e delle mani e, a un certo punto, l’aveva sfiorata.

–        Questo posto è occupato?

–        No, prego.

–        Jeremiah.

–        Charlotte.

Stretta di mano formale. Formalmente avrebbe dovuto seguire un di cosa si occupa, invece cacciò fuori un

–        Che bel blu.

Che bel blu. Tre parole semplici, monosillabiche, ferme negli occhi, come un particolare: il ciondolo blu che le si era arrampicato addosso, prima di uscire. Non ci azzeccava niente con il vestito verde, il blu, ma si era ostinato a restare come una goccia d’aria di riserva, un lasciapassare per sorridere.

Perciò, sorrise. Non disse nulla, non lanciò un sorriso di circostanza, come non lo era stata la domanda. Lanciò un sorriso specifico, particolare, di quelli che aveva chiusi nel cassetto e non uscivano, se non di rado, neanche alle feste comandate, e che regalava solo per aver indovinato un pensiero. Lui aveva indovinato il pensiero. Articolo determinativo maschile singolare.

–        di cosa si occupa?

–        Insegno filosofia al liceo. Lei invece?

–        Un po’ di tutto, alle elementari – sorvolò abilmente sulle divisioni.

La serata era trascorsa in un lampo, dall’antipasto al dolce, al brindisi, al caffè, al dopo caffè, alle barzellette, al si è fatto tardi, al l’accompagno, al si figuri.

–        Possiamo darci del tu?

In effetti, avevano parlato di tutto, tranne che del lavoro. Si era scoperta diversa da come immaginava, Miss Pimm. Aveva mangiato con gusto il riso con polpa di granchio e si era servita, due volte, di tutte le portate di pesce. Lo stomaco lavorava liscio, come una locomotiva e se la godeva a buttar giù un sorriso, tra un boccone e l’altro, quando non una risata. Era stata l’anima della festa, lei, aveva anche raccontato una barzelletta. Tutti, nel salutarla, avevano apprezzato gli effetti del buon vino. In realtà non aveva bevuto, ma le parve scortese contraddire.

Così si erano trovati sotto il lampione, fuori dal locale, lei che camminava discosta, lungo il marciapiede e lui sul ciglio della strada, un passo dietro, per discrezione. Poi lei si era girata sui tacchi – o meglio, sul tacco, rigirandosi l’altro tra le dita – e aveva detto:

–        Ti va di bere qualcosa?

Sulle prime non ci aveva creduto, e neanche lui. Rimasero un istante a bocca aperta, certi del fatto di volersi bene, ma tremendamente incapaci sul da farsi. Poi, aveva risposto:

–        Sì.

Non sapendo come coprire il silenzio, Miss Pimm ebbe l’accortezza di non parlare. Pensò a raffica milioni di cose da dire, scoprendo, con orrore, di averne troppe, tutte insieme. Così scelse a casaccio, dove capitava, e partì da un punto inaspettatamente lontano, sperando di avvicinarsi, come nel gioco dell’oca, a quello che in realtà voleva dire.

Parlarono di musica, di bastimenti, di carote, di poesie, di lampade, di viaggi, di cioccolato, di musica, di gatti. E lui, non solo la stava ad ascoltare, ma cuciva con gioia le parole, ricamando il filo che lei gli porgeva, sperando che lo portasse, presto o tardi, alla sua bocca.

– Perché non hai un gatto, se ti piacerebbe?

– Mia madre è allergica.

– Tua madre?

– Sì, vivo da sola, ma mi aiuta ad ogni cambio di stagione. Cioè ogni stagione, ogni mese, ogni minuto è qui. E i peli la fanno starnutire.

– Capisco. Avevo una zia asmatica che optò per una tartaruga.

– Giusto, le tartarughe. O i pesci. I pesci mi rilassano. Guardarli mentre nuotano, è la mia passione.

– Mica solo guardarli.

Sorrise. Se n’era accorto. Avrebbe voluto vergognarsi, ma non le riusciva.

– Di solito non mangio pesce – si difese, ma non si chiese il perché. Si erano seduti in salotto, lei sulla sedia, lui sul divano. Avevano parlato tanto, da non ricordarsi più da dove erano partiti, ma si vedeva che erano arrivati e il discorso non voleva saperne di ricominciare. In realtà, c’era ancora un passo da fare e Miss Pimm si sentì libera di cadere nel ridicolo, pur di guadagnare un altro istante di quella inspiegata, sospesa felicità.

– Quanto pensi che arrivi lontano il suono di un bacio?

– Non so. Mille miglia almeno.

– E come fai a essere sicuro che sia un bacio o, che ne so, uno schiocco di dita?

– C’è differenza.

– Tipo?

– Un bacio ha il suono di un’avventura che nessun altro movimento ha.

– E per i baci in silenzio?

– Quelli hanno il rumore di una centrifuga sottomarina, un’esplosione di musica negli occhi: un canto, a tu per tu, con l’ombelico, fino al centro della terra. Su quelli non ci sono dubbi.

– …

– …

– Bevi qualcosa?

Miss Pimm aveva cambiato discorso alla svelta, torturando, tra le dita, il ciondolo blu. Quel canto non l’aveva mai sentito e si morse la lingua al pensiero che, una parte di lei, era già sul punto di chiedere: e com’è?

C’era stato un inciampo, una volta. Tutto lì. Per il resto, aveva incontrato solo uomini stonati. Si era sempre detta che, forse, prima bisognava trovare la sua voce. Magari l’aveva persa da qualche parte, in una conchiglia, come la Sirenetta. Oppure era muta. Possibile?

Così era andata in cucina e ne era riemersa con due sostanziosi bicchieri, pieni fino all’orlo. I fumi dell’alcol, però, non erano riusciti a fermare il prurito di un’altra domanda:

– Bacia di più chi fa il primo passo o gli ultimi tre millimetri?

Aveva appena sospeso l’ultima sillaba, che la voce che l’aveva pronunciata non le sembrò la sua. Si sentiva formicolare il cervello, come se stesse parlando sott’acqua, con una voce rotonda e plurimillenaria, la voce che hanno i gatti al chiaro di luna.

Tictic, tictic, facevano quei pensieri e si avvicinavano, piano, con le ombre spaventose di mostri. Miss Pimm guardò la sua stanza con gli occhi incendiari di chi avrebbe voluto cancellare tutto; afferrò i bicchieri, i vestiti e quanto rimaneva dei cuscini, ma si fermò. Vide l’uomo che dormiva nel suo letto e un’analisi grammaticale, fatta milioni di volte con la medesima distrazione, si presentò sul foglio bianco della sua mente. Quello era il suo uomo, suo, da quella notte in giù. Immaginò quanti altri aggettivi le si aprivano davanti, qualificativi, dimostrativi, possessivi, ed ebbe una vaga idea dei nomi, dei verbi…

Il campanello si mise a suonare e le mandò all’aria la punteggiatura del pensiero. I bicchieri le sfuggirono di mano, uno rimbalzò e si ruppe. Miss Pimm lo vide scivolare lungo le sue dita, come il lancio esatto che le suggerì una parentesi di gravità al contrario. Furono i suoi piedi a sganciarsi da terra. Sentì un singulto strano, come lo sbadiglio che le serrava la bocca dello stomaco tutte le volte che, bambina, appoggiando la schiena sul prato, inarcava il collo e perdeva i confini del cielo, immaginando come sarebbe stato mettere i piedi nel vento. Le accadeva di credere che i suoi gomiti si sarebbero staccati da terra di lì a poco e, muovendo le gambe piano, varcava nuvole e oceani di blu. Fu un attimo. Lungo le braccia la punzecchiarono gli stessi brividi di allora, con una differenza: non sarebbe scesa mai più.

 

3. La fuga

 

Sognò un autobus, con gli interni scuciti e le tendine che sapevano di fritto. Curioso, davvero. Aveva mangiato sogliole, scampi, acciughe, ma di fritto neanche l’ombra.

Sapeva di sognare, lo sapeva, sempre. Riconosceva il serbatoio dei ricordi dalla piega oziosa che prendevano le mani, a un certo punto del sonno, e con un po’ di buona volontà avrebbe potuto svegliarsi, ma gli piaceva stare a guardare.

L’autobus viaggiava e viaggiava, con le tendine tirate e una luce gialla e turbinosa. Avrebbe voluto guardare fuori, ma, per quanto cercasse, non riusciva a trovarsi le mani. Pensò di scostare le tendine col naso, quando l’autobus, all’improvviso, sterzò. Doveva essere una curva di montagna, perché la forza centrifuga lo scaraventò di lato, tirandolo con le unghie di chi ha fretta. Ci mise un’eternità a cadere. Sapeva che stava scivolando dal letto, ma preferì non dirselo e aspettare che le ruote dell’autobus toccassero di nuovo la strada.

L’impatto fu più forte del previsto. Aprì un occhio, poi l’altro. Riconobbe due caviglie nude che si rincorrevano e un treno di pensieri lo investì, definitivamente sveglio.

Un campanello suonava e suonava tre note, secche come un insulto. Sentì due voci al piano di sotto, una spazientita, l’altra di sogno.

– Non ho una bella voce.

– Non mi pare. Canti?

– Mi vergogno.

– Via!

– Davvero! Canto in macchina, da sola. Oppure lì, nell’angolo della cucina. Ho preso qualche lezione tempo fa, ma mi sono spaventata.

– Di cosa?

– Della mia voce. Era forte, troppo. Non c’ero abituata.

– Aspetta, guarda. Mi tappo le orecchie, ma ti prego, canta!

– No, così non funziona!

– Perché?

– Perché mi guardi le labbra.

Si era trovato scoperto, interdetto, ladro. Non trovò la parola per ribattere, gli occhi non ne vollero sapere di scherzare. Non poteva fare altro che prendere l’unica strada rimasta, e la prese al volo, prima di ripensarci: si sporse in avanti, tanto da poter contare le ciglia sbalordite da un angolo all’altro dei suoi occhi, e: – Allora, facciamo così! Cantiamo insieme, in silenzio.

Lei si era sporta, sull’orlo di una melodia che aveva intravisto lontano, in un punto imprecisato dei suoi occhi. Lui, lanciato in una corsa folle, si piantò a metà divano, nell’atto di alzarsi e soffiare sull’ultima ombra di desiderio che gli accendeva le mani, come un fuoco d’artificio. Affondò le unghie nella fodera del divano e si ricordò che non sapeva nuotare.

L’aveva vista a quella cena di lavoro ed era azzurra. Portava, dietro l’orecchio destro, il fiore di un sorriso che, da tempo, non si regalava più. Una scarica di certezza gli infuse il terrore che sarebbe stato lui a farle quell’antico omaggio: mosse le mani, mosse gli occhi e la chiamò. Rispose. Precipitò, annientato dall’idea che, per un solo sguardo, avrebbe attraversato per lei l’Oceano intero, senza salvagente.

Le chiese se il posto era libero. Sedette. Parlò. Sulle prime, voleva dirle che non sapeva nuotare. Poi, scoprì che il blu le donava meravigliosamente. Non riprendeva nulla del vestito che aveva indosso, né degli occhi, castani, né i capelli. Ma era il centro esatto del suo annegare e ci si perse dentro, respirando piano, per bere, goccia a goccia, ogni istante del suo profumo.

Le dona molto, il blu. No. Le sta bene, il blu. No, niente virgole: le sta bene il blu. No. Il suo pensiero lavorò di forbici fino a creare un origami fantastico che descriveva tutto il suo girovagare di naufrago:

– Che bel blu.

– Grazie!

Disse, e il suo silenzio, prima e dopo, lo cambiò.

– Non si intona esattamente col vestito, ma Le sta benissimo.

Partì, tra un antipasto e l’altro, così di cuore che gli parve un guaio. Lei non ci fece caso e continuò. Si ripromise di fare giri larghi e, per non tradirsi, si tenne occupato con le acciughe marinate; poi con il sugo di granchio, la spigola, l’insalata di gamberi, il salmone.

– Serve un passaggio?

– Abito a due passi.

– L’accompagno!

– Si figuri!

La vide cercare con gli occhi una scusa per scappare, con le punte dei piedi una, per rimanere. Le torceva nelle scarpe e le caviglie guizzavano per la tensione. Stava per salutarla, quando uno dei suoi tacchi decise che si era fatto tardi e prese l’iniziativa: crollò e nella traiettoria scomposta del suo braccio, lui riconobbe il suono di un appiglio e vi si aggrappò. La trattenne gentilmente per il gomito dicendo:

– Posso accompagnarla?

Ma non ci fu bisogno di parole. Una goccia d’acqua, una di quelle in cui aveva rischiato di annegare, gli si posò sulla fronte.     Non poteva giurare che non fosse una goccia di umidità notturna, scivolata dal lampione. Comunque, era nuvoloso. E fu autorizzato a sospingerla.

Camminò discosto, osservandola mentre volteggiava su un ticchettio unilaterale. Si chiese se era lecito sorridere dei loro occhi che non volevano voltarsi nel buio e si rispose di sì.         Avrebbe voluto allungare il braccio e sfiorarla, capire se il sovrappiù di ossigeno che aveva in circolo era opera di un sogno o del suo profumo, o tutt’e due. Stava per fare un altro passo per muoverle vicino, vicino all’odore dei suoi capelli, vicino ai suoi occhi, se si fosse voltata, vicino alla paura di trovarsi vicini.

Poi gli parlò. Aveva la voce chiara, di un usignolo, al primo quarto di luna. Lo invitò a bere qualcosa. Lo invitava a entrare. Il cortocircuito che seguì fu un colpo pauroso, tra fegato e stomaco: il cervello passò col rosso, provocando un tamponamento a catena, e il cuore animò la centralina del pensiero e congruo rimescolio dei pantaloni.

Le sentì parlare di tavole apparecchiate, di ospiti, di nani da giardino, di arrosto, arrosto? Sì, quello che avrebbe dovuto preparare. Ma io odio l’arrosto. E odio avere ospiti, anzi odio proprio cucinare!

Sentì un ticchettio potente salire le scale. Ad ogni passo, scartava un’ipotesi su come sarebbe stato meno difficile sparire, finché il tictac, di colpo, finì.

Saltò dalla finestra, ma poi si rese conto di essere al primo piano e decise che era meglio non rischiare. Così, si appiattì lungo la parete, scivolando fin sotto la porta, e sperò di passare inosservato, mentre balzava, di quadro in quadro, giù per le scale, finché non inciampò in un vaso di giunchiglie. Allora si ricordò del bicchiere rotto, delle sue scarpe, del lenzuolo di traverso, del tappo della miscela per dolci spacciata per rhum, la sua cravatta, i resti del cuscino… Raccolse tutto, spalancò l’armadio e stava per balzarci dentro, quando la maniglia, inesorabilmente, scattò.

        Cos’è successo qui dentro?

La frase balzò, graffiante, come il demonio, scorticandogli le orecchie, alla ricerca di una preda per la sua inquisizione. E Mr. Pilgrim, dall’alto del suo terrore, coprendosi solo con una scarpa senza tacco e una bottiglia di falsi alcolici, chiamò all’appello tutte le sue facoltà migliori ed ebbe la nudità di rispondere:

– Una battaglia di cuscini.