I racconti del Premio letterario Energheia

Milady, come è scuro il cielo stasera_Benedetta Maggi, Bologna

 _Racconto finalista diciannovesima edizione Premio Energheia 2013.                 

        Luna nuova

Il vento stride e strappa le foglie dagli alberi, mi sferza il viso e s’insinua fra le pieghe, tracciate dal tempo, sulla mia pelle.

La notte è lattiginosa, la luna si nasconde nel suo etere, come un bambino che sta per uscire dal ventre materno… è riluttante ad abbandonare il suo caldo posto, sicuro.

Sono seduta sul balcone e come ogni sera, aspetto il suo ritorno.

Sono passati quarantadue anni ormai, quarantadue anni d’attesa. Sono molti, moltissimi.

Eppure, rivedo come fosse ieri il momento in cui aprì la portiera della macchina e ci salì sopra, scegliendo lei al posto mio.

È come fosse ieri, fa male, come fosse ieri.

 

Quando se n’è andato, i telefonini non c’erano, internet non era stato inventato e i panni sporchi si lavavano in casa propria: così sono rimasta a macerarmi, nella delusione del mio primo e unico amore per quarantadue anni, senza una famiglia accanto, senza un amico, senza qualcuno con cui parlare, completamente sola.

Ed ora, improvvisamente, la sua telefonata. Che voce diversa ha, dopo tutto questo tempo!

“Lei è morta…”

“… non ti ho mai dimenticata”.

 

Quarantadue anni sono, forse, troppi, ed io, forse troppo debole per non essere schiava della vita che mi scavalca e si va a donare a mani ben più giovani e decise delle mie.

Sarà qui per la fine del mese, io lo aspetterò.

Non è come credevo, non così tremendo. Si dice che, dopo aver atteso a lungo qualcosa, senza sapere se sarebbe arrivata mai, l’ultimo breve periodo sia il più difficile da affrontare.

Invece, come ogni sera, ogni notte, siedo qui al buio, sul terrazzo, a scrutare la luna, inspiro ed espiro furiosamente, in modo così frenetico che ho paura si sfondi il setto; Luna nuova significa tante cose, lui mi raccontava le sue storie quando, di nascosto, ci incontravamo col buio.

“Sai – diceva, – una volta la Luna e il Sole erano creature terrestri, una giovinetta e un coraggioso cacciatore. Tra i due nacque un amore fortissimo e indissolubile e dopo poco, decisero di fuggire insieme. Ma il nonno di Luna, irato e umiliato per l’affronto, la fece uccidere. Luna, era così bella…”

E mi carezzava lievemente il volto.

“… così pura… le libellule raccolsero, allora, il suo corpo e il suo sangue, in tredici ceppi cavi. Sole era disperato, l’aveva persa per sempre, credeva. Eppure, dopo tredici giorni di vana ricerca, trovò quei ceppi. Da dodici di essi uscirono serpenti e insetti velenosi, il male del mondo, la volubilità e l’imprevedibilità della vita. Ma dal tredicesimo, Luna risorse”.

Luna nuova, per me, significa questo. Notti intere di amore sussurrato, storie raccontate per farmi addormentare, leggende, vecchie di secoli, sospirate sottovoce al mio orecchio attento.

La Luna aveva battezzato il nostro amore. La passione di lui era il cielo.

“Guardala, guarda come splende!”

Sorrideva e mi faceva il solletico, stesi sull’erba del giardino di casa mia.

“Guarda com’è bella!”, e rideva, oh come rideva…

 

Rideva sotto la luna, come avrebbe potuto fare un bambino.

Avevamo, invece, più di trent’anni, e forse avremmo dovuto smettere di illuderci che il tempo, per noi, non sarebbe passato mai.

Io avrei dovuto smettere di illudermi che l’avrebbe lasciata per me.

Ma sotto la Luna, cosa mai di razionale si potrà capire? Quando illuminava il suo profilo sorridente, o quello imbronciato, o quello pensieroso, come avrei potuto fare a non perdermi su quella sottile linea di folgore, che separava la sua pelle dal resto del buio della notte?

La verità era che, in quei momenti, eravamo tutto l’amore del mondo, racchiuso tra ossa, muscoli e sorrisi.

Mi prendeva in giro e mi chiamava Milady. Gli sembravo una bambina, diceva, una bambina che fingeva di essere cresciuta.

Lui mi raccontava storie della Luna, e giocava ad arrotolare una ciocca dei miei capelli su ogni dito. Io, in cambio, lo ascoltavo.

Gli piaceva essere ascoltato dalle persone, lo faceva sentire apprezzato, importante, e io non lo giudicavo se non con la tenerezza. Lo vedevo diverso dal mondo che lo circondava, troppo speciale per esso.

Onorata che avesse scelto me, come interlocutrice, passavo le giornate a compiacermene.

“Con lei non parlo di queste cose” mi diceva sempre, e io correvo a salvare, raccogliendo con il cucchiaino, ciò che rimaneva della sua essenza.

In realtà si trattava di debolezza, ma di questo mi accorsi solo molto dopo, e anche adesso che, come ho ribadito più volte, sono passati quarantadue anni, solo nei giorni di cinismo più cupo, riesco ad ammetterlo.

Tutto ciò non è incredibilmente triste?

 

        Luna crescente

 

Stasera fa molto freddo, con me sul terrazzo ho portato una coperta. Una febbre di piccola entità mi ha costretto a letto, diversi giorni, e ora che guardo la Luna, la riconosco cambiata e crescente.

A lui, la Luna crescente non piaceva, affatto.

“Ti lascia in sospeso, troppo, ti aspetti che da un momento all’altro riveli la sua luce, e invece, se ne sta lì, a mostrarti una parte piccola, piccola di sé. Ama farsi sospirare”.

Inoltre, ripeteva sempre: “Milady, non ti sembra troppo scuro il cielo, stasera?”

 

Come mi manca il suo respiro sulla pelle. Come mi manca.

E pensare che io ero una bambina, ma una bambina, davvero! Avevo trent’anni, il mondo in una mano e non sapevo che farne, tutto ciò che volevo era stringerlo fra le braccia, o a casa, al lavoro, al parco o portando fuori il cane.

Ora che la Luna sta crescendo, so parlare con chiarezza di tutti i ricordi.

Anch’io avevo una storia ufficiale, in quel momento…

In realtà, non gli diedi mai molta importanza, povero ragazzo. Era bello, bellissimo, ma terribilmente banale.

Tuttavia, di quel periodo, qualcosa mi rimase, anche se per poco…

 

        Primo quarto

 

Cosa mi rimase? Tommaso. Tommaso era mio figlio.

Nacque col primo quarto di Luna, e proprio come questo, era intricato e controverso.

Sin dalla prima volta che pose gli occhietti, ancora quasi del tutto ciechi, sull’ambiente esterno, si capì che Tommaso non era banale.

Io ero stanca, accaldata, bagnata di sudore e impregnata degli odori dell’ospedale e degli umori del parto, mentre lui, oh, lui era soffice e pulito, scuro, senza essere livido.

 

Le sue pupille fissavano il volto delle persone, senza sorridere. A neanche un giorno, già indagava.

Quella notte in ospedale, vennero entrambi, Lui e l’Altro.

Si guardarono negli occhi, consapevoli dei rispettivi ruoli nel gioco, accettando quei ruoli.

Poi, l’Altro vide il viso di Tommaso, getto i fiori che aveva portato a terra e sparì.

Era banale e terribilmente orgoglioso. Poteva accettare una donna che lo tradiva all’insaputa del mondo, ma non che un bambino lo sbandierasse.

In effetti, Tommaso non avrebbe avuto un solo dubbio su a chi rivolgersi come padre…

Gli anni passarono, e con essi i quarti di Luna.

A ogni loro succedersi, io deliziavo Tommaso con dolci e leccornie, giocattoli e gingilli. Crebbe fortunato e senza padre, sino ai cinque anni, età in cui lo persi…

 

Ora che una lacrima scende sul mio viso, capisco che ancora non posso ripensarci, né raccontarlo a me stessa… Quanta debolezza…

Ma a trentacinque anni mi ritrovai sola, disperata, con l’unica consolazione del ricordo di un amato che non c’era più e viveva rinchiuso nella vita di un’altra, con la perdita di un figlio su cui avevo sbattuto sopra, una porta di granito.

Ancora anni, ancora quarti di Luna. Ripenso a quando sul terrazzo, con me portavo il mio bambino, ripenso alle storie inventate per lui, a quelle che, una volta, lo furono per me.

“La Luna è tonda – diceva, – è bianca, è piatta, è bucata, è silenziosa”.

“Cosa vuoi che ti racconti, piccolo mio?”

Raccontami la Luna, mamma.

 

        Gibbosa crescente

 

Stasera gibbosa crescente, e si avvicina sempre di più il giorno del suo arrivo, almeno secondo i miei calcoli.

Gibbosa… Come mi ha sempre fatto sorridere questo termine.

Senza un particolare perché.

Ma sa di spugnoso, bitorzoluto, irregolare, superficiale, sa di sporco, di puzzo, di strano.

Cosa ha a che fare con la Luna? La Luna è così bella.

Una cosa che mi diceva lui, era che classificavo troppo le cose, le persone, i sentimenti, le emozioni.

Ogni volta che parlavamo, diceva, io avevo bisogno di catalogare ogni cosa e parola.

“Smettila di attaccarti ad ancore e boe di salvataggio, su tutto, non sarà così, per sempre. Cosa t’importa? Sii come la Luna! Sii legata, ma senza legami, fluttua anche tu! Perché non ci riesci? Hai paura? O non ne sei, solamente, capace?”

Io, beh, io non sapevo come ribattere. Ero la sua bambolina perfetta, aderivo a ciò che lui chiedeva, pensavo fosso sbagliato, ma non desideravo altro che la sua approvazione.

Non lisciavo i capelli, perché lui potesse giocare con le spirali dei miei ricci; non vestivo di nero, perché a lui piacevano luce e colori.

Non fumavo, perché lui non gradiva; non uscivo che per lavoro e, con scuse per l’Altro, con lui.

Lui doveva essere l’Altro, e l’Altro doveva essere Lui, ma poco importava, ero il suo oggetto del desiderio e la sua gelosia si spandeva e si spargeva tutta intorno a me.

Io, dentro una gabbietta d’oro, fischiettavo felice; anche se qualcosa, dentro di me, urlava, quando lui si rivelava pungente e cattivo, una voce interna, che sussurrava: “Dolore!”

 

        Plenilunio

 

So che è il Plenilunio, e che avrei tantissimo da scrivere, ma Tommaso scomparve nel Plenilunio di trentasette anni fa.

E per quanto mi rattristi la perdita del mio lui, per quanto i miei ricordi siano vividi, stasera non è il caso di uscire sul balcone.

In fondo, sono trentasette anni che non vedo il Plenilunio.

 

        Gibbosa Calante

 

Ricordo una sera particolare di gibbosa calante. Lui era molto felice, rapito, in estasi.

Meditava, seduto a gambe incrociate, nel mio giardino, tra i suoi discorsi: “Quanto sei bella, amore mio!”, lui pensava ad alta voce, mentre io facevo i conti dei giorni per capire le fasi della Luna.

Ad un tratto si ferma: “Devo raccontarti cosa è successo, oggi”, dice.

“Ti ascolto”, dico io.

“Oggi, mi hanno raccontato che la Luna influenza la marea”.

Io, sorrido: “Lo sapevo!”

“E, allora, sai cosa? Se la Luna influenza la marea, allora, influenza tutti noi. In fondo, noi non siamo forse, come la marea? Sempre di fretta, così mutevoli… Un giorno valichiamo i nostri confini e il giorno dopo ci ritraiamo, fino alle nostre origini. Pensaci, in tutto è così! Il lavoro, l’amore, la scuola da ragazzini. Quando hai quelle quotidiane alzate di testa, che ogni tanto ti vanno bene e molto più spesso no! Oppure quando, un giorno pensi di amare tantissimo e il giorno dopo hai paura d’aver amato, così tanto. Quando tutta la tua energia è concentrata in’azione sola, o quando ti ci vorrebbero cento, di quei momenti di energia, per compierne una… Quando si fa l’amore, non è come la marea? Dai tutto te stesso, poi, raccogli i tuoi vestiti e ti ritiri dentro! Dentro di te, dico… Come la marea che inonda la spiaggia e poi la lascia in secca! Amore mio, non siamo, quindi, come la marea?”

Il suo discorso filava liscio, ma lui, troppo spesso, mischiava queste fantasie notturne con la vita reale.

È questo che mi affascinava di lui. Io, così concreta, così compatta nelle mie decisioni, e lui, così fuori dal comune, così sognatore.

Eppure ci intendevamo a meraviglia così tanto che sono su questo terrazzo da quarantadue anni, e anche se avessi voluto davvero alzarmi e andarmene, reumatismi e bei ricordi mi avrebbero, comunque, tenuta  incollata qui.

 

        Ultimo quarto

 

Fra pochi giorni, sarà qui. Ho pulito la casa, da cima a fondo.

So che avrei altro da fare che preoccuparmi di questo, ma per me la pulizia esteriore aiuta quella interiore.

Come dire, riordina la camera che ti riordino l’anima.

Ho sensi di colpa che mi strisciano nel midollo osseo, nelle vertebre, sussurrano sulle reni e si spandono sulle costole, stringendomi il costato in una morsa invisibile e letale. Come posso, davvero, essere così impaziente di vederlo?

Il rispetto per me, dov’è finito? Quando ho cominciato ad aspettare, cosa pensavo?

È normale questo?

E Tommaso… Sto per accogliere il padre del mio bambino morto.

Ecco, ho pensato la parola, ora piango.

E invece no. Erano trentasette anni che aspettavo di sapermelo dire. Fino ad ora, ho sempre avuto quella disperata speranza che hanno, tutte le madri, di rivedere, un giorno, il proprio figlio.

Anche questo è un mio senso di colpa… Se fossi stata più attenta, se fossi stata più presente, non sarebbe successo. Non sarebbe successo niente.

Ora sì che piango. Odio sentire i sensi di colpa che mi mordono i piedi. Ma fanno male al punto da prenderci gusto.

Come posso stare ad aspettare un uomo che mi ha fatto così tanto male? E come faccio a credere ancora, dopo quarantadue anni di attesa, in una storia che ha fatto solo scompiglio e dolore intorno a sé, con l’egocentrismo unico degli innamorati, incatenati fra loro, a cui poco importa se il resto delle persone, a loro care, deve passare fra queste catene.

È l’ultimo quarto stasera… La Luna sta già cominciando a celarsi, la luce è offuscata dalle nubi.

Sì, siamo proprio come la marea. Per questo possiamo aspettare e sostare, non avremo mai, nemmeno per un secondo, un posto fermo.

 

        Luna calante

 

Luna calante, sono sul terrazzo, da giorni.

Ho dormito fuori.

Sono a un punto di non ritorno, dove nemmeno i sensi di colpa sono più gli stessi.

Ho male, dappertutto, per un’anziana, dormire su di una poltrona, al freddo, non è proprio l’ideale.

Ma con quella feroce determinazione che dovrebbero avere solo gli adolescenti, aspetto!

Non ho ricordi sulla Luna calante: o meglio, ne dovrei avere! Ma la mia mente ha cancellato tutto…

Sono indecisa su cosa dirgli, una volta che lo vedrò arrivare.

E se non arrivasse?

Ma no, no, non è possibile. E infatti, ecco che una macchina che non avevo visto, parcheggia con cautela sotto il mio terrazzo.

La portiera si apre, è lui. Cosa dirgli, ora che mi guarda negli occhi?

Taccio.

“Milady, com’è scuro il cielo stasera”, mi sento dire.