L'angolo dello scrittore

Gratta il movimento (Cinquestelle) e riappare il partito-azienda


grillo1_Un’articolata riflessione sulla gravità e la profondità della crisi italiana, anche alla luce del risultato elettorale e della eclatante affermazione della lista guidata da Beppe Grillo. La cui spinta innovatrice sembra voler postulare una inedita forma di democrazia diretta fondata sulla rete e capace di sovvertire l’intero quadro istituzionale-partitico. Dietro questo neo-movimentismo digitale si profila, però, una forma di impresa economica con due proprietari (l’altro è Casaleggio) che operano nel settore della comunicazione. Ciò che genera domande e dubbi molteplici sulla opacità di tali dinamiche politiche e sui conflitti di interesse sottostanti.

di Alberto Scarponi_

Le elezioni politiche del febbraio scorso hanno prodotto uno stallo istituzionale da cui non è molto semplice uscire. Le tre forze politiche maggiori, più o meno paritetiche quanto a numeri, non sembrano in grado di costruire in parlamento una maggioranza governativa adatta alla complessità e problematicità della situazione. I giochi verbali, le mosse retoriche, le cosiddette prese di posizione, i dinieghi e le proposte, le dichiarazioni d’intenti, fanno mucchio e groviglio, in apparenza senza costrutto, aggiungendo energia inerziale allo stallo.

In una tale situazione ogni parola ‘autorevole’ non appena emessa (e ne abbiamo l’annuncio immediato mediato dai media) produce nuova realtà, ma non realtà reale, solo reality articolata in opinioni, ipotesi, al più desideri, intenzioni (buone), ovvero ovviamente produce il Possibile. Cioè tutto, epperò, anche questo, non come probabilità (sarebbe troppo), appena come eventualità. Eventi. (Eleganza è l’evento, lieve nulla, viene e svanisce. Volontà di potenza è l’evento, figuralità, segnala e si spegne nel nulla.)

Eppure le cronache raccontano di disoccupazione giovanile in vorticoso aumento, di miseria ormai visibile, di crescita economica in negativo, di piccole e medie imprese in stato di decozione, di burocrazia statale assurda per sprechi e sua cultura, di banche, pubblica amministrazione e giustizia civile in funzionamento autistico, privo di ogni idea di società e tantomeno di progresso civile. Di più, la pubblica opinione lamenta degrado e caos nelle istituzioni, il diffondersi dell’asocialità nei comportamenti, della violenza… Insomma, pare che la macchina operativa del nostro sistema sia inceppata seriamente e anzi proceda verso il blocco assoluto per il numero crescente dei conflitti fra singoli, uffici, organi, interessi in presenza di prospettive culturali inadeguate rispetto alla qualità dei problemi.

grillo4L’impasse politica provocata dal risultato elettorale, infatti, non si limita a derivare da tecnicalitàprocedurali irragionevoli e/o da furbi machiavellismi della politicanza pervenuti a esiti tragicomici. Se così fosse, basterebbe un poco di buona volontà e di assennatezza, un po’ di atteggiamento serio, di fronte alla gravità della situazione economica e tutto andrebbe a posto.  

Per orientarsi sullo stato delle cose presenti, bisogna partire – a me sembra – da un dato di fatto: è in fase critica in Italia, più che altrove, quel necessario equilibrio dinamico tra l’economia, la politica e la cultura che nell’epoca moderna garantisce il funzionamento e la trasformazione di ogni società di tipo cosiddetto occidentale.

Andando per grandi quadri: l’economia è fuori sesto, ha conquistato una quasi illimitata ultrapotenza decisionale, ma proprio questo strapotere la priva di difese davanti agli effetti collaterali negativi (anche economici) della propria attività, oggi tendenzialmente priva di respiro politico-sociale nel suo funzionamento liberistico. Il quale, in sostanza, tende a distruggere la produzione per trasformarla in potere finanziario. Non per nulla persino negli Usa si hanno cenni di un processo di riforma dei mercati finanziari, fra l’altro si tende a porre sotto controllo gli hedge funds così come un po’ tutte le forme della finanza speculativa. Tuttavia quest’ultima, per quanto fenomeno appariscente e rovinoso, è solo uno degli aspetti della realtà economica globalizzata, la quale – proprio per questa sua nuova struttura – abbisogna oggi di risposte nuove da parte della politica, di ordine sia strutturale che qualitativo.

La politica tuttavia al momento, e forse non solo in Italia, resiste a cercare l’energia interna per una propria riforma che la renda atta a governare i processi economici e culturali da cui inevitabilmente la storia reale del pianeta Terra, per automovimento, è stata investita e messa in crisi. In Italia abbiamo, a indicare lo stato febbrile della situazione, il fenomeno Cinquestelle con il suo successo pratico, politico, ma soprattutto con il suo apparente condensarsi, isolarsi e chiudersi in una sorda e gaia protesta.

La si potrebbe considerare (e c’è chi in effetti l’accoglie così) come un prodotto del pensare corto e metaforico, caratteristico della vita quotidiana quando non sa o non può salire oltre il proprio orizzonte, oppure semplicemente come il ripresentarsi di quel tratto psicologico adolescenziale che, a partire dal ‘sessantotto’, ha colorato di sé tutti i moti civici di contestazione politico-culturale, sempre basati magari simbolicamente sul concetto positivistico di generazione e dunque delimitati e svuotati a fatto comportamentale giovanilistico.  In tal caso tutto resterebbe politicamente limitato alla  protesta narcisistica, autoaffermativa, fine a se stessa e inutile.

foto_beppe_grillo_21xIn ogni caso a tale presunta protesta inutile vanno rispondendo, a destra, una cultura politicaimprenditorial-populistica (che confonde la società con l’azienda, il governo con la trimestrale, i cittadini con i clienti, da sedurre o ingannare o comprare, la politica quindi con la pubblicità o con il maneggio abile delle debolezze umane, purché i conti del potere tornino), una maniera politica dunque lontanissima da ogni possibilità di riforma sociale che non sia mera redistribuzione nella casta delle deleghe amministrative. Al centro, l’idea della politica come mediazione di risposta, sempre dunque come azione ex post, e per questo storicamente saggia, conservatrice ma duttile, e anche manovriera, spesso furbesca, umbratile e maliziosa, ipocrita e tollerante, chiusa con aperture, tutrice dei valori, delle forme, e permissiva purché tornino i conti del potere. A sinistra infine, dove abita o abiterebbe un concetto della politica come governo continuo della trasformazione sociale, dal 1989, – dal cosiddetto Crollo del Muro, di fronte al venir meno, anche come testa di turco, dell’esperimento detto ‘socialismo reale’, – da allora, comunque stessero le cose prima, è subentrato uno stato di shock cognitivo, una sorta di rinuncia a studiare e comprendere la realtà, la realtà che è sempre nuova e complessiva e praticamente, per così dire, interminabile. Così mentalmente disattivata, la cultura politica della sinistra si  è attestata inveceattivisticamente soprattutto su un pezzo solido della realtà, sulla tradizionale linea di difesa degli interessi economici delle classi oppresse, ora intesi vagamente come interessi di vita di tutti.

Così l’intero sistema politico esistente in Italia sembra come impreparato a intendere se l’affermazione elettorale dei Cinquestelle non nasconda invece una richiesta forte di cambiamento, come diffusamente vanno notando gli osservatori politici nei media.

 Ad esempio, sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia analizza il fatto a partire appunto dal bisogno della società italiana di un adeguamento ‘istituzionale’ a una realtà socioeconomica – una volta esauritosi il tempo del dopoguerra ­– diversamente dinamica. Dalla fine degli anni settanta, egli sostiene, si è formata una «Italia del cambiamento» la quale, bisognosa di superare il proporzionalismo elettorale e la conseguente partitocrazia, ha di volta in volta cercato in occasioni varie (andando per cronologia: nelle iniziative di aggiornamento civile del Partito radicale, nell’attivismo di Craxi, nelle proposte referendarie di Mario Segni, in Berlusconi finto liberale) e tuttora ancora cerca nelle filippiche del comico antipolitico Grillo «una sorta di grimaldello» per scardinare il «tetragono immobilismo» dell’assetto politico (istituzionale). Tale «Italia del cambiamento» però non si è mai identificata davvero con tali occasioni e tali discorsi, invece «illudendosi di servirsene strumentalmente» li ha usati e vuole usarli per ottenere quel risultato di aggiornamento. Ecco perché non bisogna in sostanza credere alle parole di Grillo, quali che esse siano, ma apprezzarne il valore di apertura di una nuova fase nella storia politica italiana.

grillo1Tralasciando poi l’opinione di chi vuole sminuire la presenza dei Cinquestelle a transitorio episodio elettorale privo di peso, a una moda giovanile cui rispondere semplicemente tirando diritto, tale elogio del salto nel buio, un benefico, liberatorio salto nel buio, lo troviamo anche, più appassionato, a sinistra in uno scritto di Marco Revelli sul Manifesto. Il quale addirittura legge nell’evento qualcosa di più di un singolo segnale, per quanto luminoso, vi vede piuttosto un grande fatto energetico, una fantasmagoria vitalistico-politica che chiude un secolo. Siamo entrati in un’«epoca assiale», una di quelle in cui «il mondo ruota sul suo asse e ogni cosa si rovescia». Vero che «il combinato disposto di burocrazie e sistema dell’informazione» tenta di ridurre il tragico a banale, ma  «la potenza tellurica del mutamento» sta lì.

Per Revelli l’atto stesso di Grillo di presentarsi alle elezioni politiche ha prodotto una rottura di paradigma, cioè ha rivelato che «è finita la politica del Novecento», quella in cui una società «aggregata in gruppi e classi si strutturava e riconosceva stabilmente nella forma del partito politico e attraverso questo provava a esprimersi e contare dentro le istituzioni». Vale a dire  che per Revelli – premesso evidentemente che la politica non sarebbe le istituzioni stesse, come siamo stati abituati a pensare finora (in quanto cioè gli interessi contraddittoriamente conviventi in una società esprimono per autogovernarsi determinate istituzioni storicamente variabili) – i Cinquestelle non sono affatto antipolitica, un vuoto, un ‘rifiuto’ (magari in odore, nobilmente, di utopismo marcusiano, di sessantottismo formalmente aggiornato, 2.0… certo con la tendenza dei fatti storici a minacciare di ripetersi, quando si ripetono, come fatti comici), sono invece un’altra politica. Quella del «non-partito» come infatti esprime la cosa l’«outsider assoluto» Beppe Grillo.

A questo punto il problema diviene: è possibile agire tramite un non-partito in un assetto politico fondato proprio sulla istituzione partito (accanto ad altre congrue istituzioni democratiche che dovrebbero contrastare la partitocrazia)? A parte le esperienze storiche di regimi dittatoriali a partito unico, l’unico tentativo nelle intenzioni democratico che viene in mente, quanto al Novecento, è l’idea (non la realtà) della democrazia diretta azzardata brevemente dalla rivoluzione comunista trasformando le assemblee rappresentative in soviet, in consigli, ma soprattutto prevedendo una società perfettamente omogenea, non più articolata in strati diversi e tantomeno in classi. Non c’è bisogno di ricordare che la cosa nella pratica non riuscì e anzi sfociò nella dittatura del partito unico.

Questo dunque del non-partito pare uno di quei ragionamenti che una volta venivano criticati con l’argomento che poggiavano sulla testa invece che sui piedi. Anche se può essere vero che nel fenomeno dei Cinquestelle traspariscano esigenze di democratizzazione della società, anzi della vita quotidiana della nostra società, su cui meriterebbe riflettessimo. Ma allora abbiamo qui davvero una richiesta che mira oggettivamente a un cambiamento strutturale della nostra società al fine di insediare la nuova forma politica della democrazia quotidiana?

Per comprendere chi siano in realtà i Cinquestelle possiamo affidarci forse alla sociologia di Ilvo Diamanti, il quale ha cercato di definire il fenomeno, nel momento in cui si insedia in parlamento, con una metafora: un partito-autobus. Come dire una formula politica nuova, dove «una “rete” di esperienze» operanti da tempo, da anni, sul territorio si è sperimentalmente data una organizzazione unitaria (un quasi partito) per proseguire il proprio lavoro sui temi scelti come propria competenza: i beni comuni, l’ambiente, l’etica pubblica. Di fatto, tale esperimento non risulta assimilabile né ai partiti tradizionali, né al partito-azienda personale che conosciamo. Per cui non pare ci sia da aspettarsi né un suo rapido ritorno indietro a uno dei tipi già esistenti, né la sua disgregazione, né un suo salto politico verso la democrazia diretta del mandato imperativo, come sembrerebbe esigere la strana sua leadership, esterna e bicefala (con una testa tacita, o almeno laconica, e un’altra invece loquente, talora loquacissima). Insomma un avvento politico da cui dedurre, sobriamente, che sta finendo non la politica in quanto politica, ma soltanto la «seconda Repubblica» italiana con le sue forme.

E però, anche, se ne deduce, che ancora non è cominciato niente. Infatti il salto di scala quanto a popolarità vissuto dal movimento Cinquestelle nell’ultimo anno non è affatto chiaro se sia dipeso da un rudimentale rifiuto d’opinione pubblica verso la crisi economica e i suoi indistinti agenti (i partiti al governo), rifiuto addensatosi nella rumorosità consueta di una campagna elettorale, o invece se non si sia sviluppato dal proporsi effettivo di una nuova agenda politica.

Gli anni di ingaggio con la cittadinanza sui temi della trasparenza amministrativa, l’acqua pubblica, l’acquisto solidale e l’economia sostenibile, il continuo collegamento con una miriade di gruppi e associazioni di scopo, per esempio con il movimento antimafia delle «agende rosse» oppure con il no-tav, la ripetuta denuncia del costo eccessivo della politica (della mediazione dei partiti), l’organizzazione di eventi coinvolgenti (ad esempio il ‘giorno del rifiuto’ a Napoli, dove – con l’indicazione «che bello essere completamente fuori dalle logiche del potere e dei partiti, ci si sente più liberi» – si riprendeva e rimodellava un lontano precedente parigino cioè la ‘giornata del rifiuto della miseria’, poi divenuta ogni 17 ottobre Giornata Mondiale contro la miseria in nome della dignità come diritto dell’uomo), il concreto monitoraggio dell’operato di consigli comunali, iniziativa chiamata ‘Fiato sul collo’, la mappatura del potere locale in questo o quel territorio, i servizi informativi per la cittadinanza, ma poi soprattutto il formarsi nel tempo di un diffuso strato di attivisti core per i quali il Movimento Cinquestelle è in primo luogo reciprocità che si traduce in supporto online e offline pratico-gestionale e anche in una sorta di costante ‘gruppo di studio’ dove in continuazione si riflette, si discute, si comunica, oltre che si accelerano e amplificano i messaggi del momento… ecco tutto questo – che istituisce di fatto un rapporto fra ‘movimento’ e ‘cittadinanza’ nutrito tendenzialmente di informazione critica ed è assai lontano dagli spotpropagandistici dei politici tradizionali, inclusa la loro partecipazione a dibattiti televisivi o la loro messaggistica online personalizzata, su modello americano ricavato dalla pubblicità commerciale, dove il rapporto con la cittadinanza si istituisce invece sul fondamento dell’opera di persuasione – tutto questo ha davvero almeno iniziato a trasformare la folla plaudente dei comizi, la massa passiva degli elettori, in quel cittadino monitorante e informato di cui si comincia a parlare oggi e che infine allude a una germinale possibile forma di democrazia della vita quotidiana?

grillo5Sta qui infatti, in questo rivolgimento culturale, se c’è, la novità di sostanza politica che contraddice la attuale natura del rapporto fra i partiti (attivi) e la cittadinanza (passiva), sta qui e non, mi sembra, nel nuovissimo ‘uso strutturale’ delle nuove tecnologie informative. La forza retorica con cui si criticano i costi della politica partitica, la sua mediazione farragginosa, burocratica, fra problemi e soluzioni, il suo finanziamento pubblico, e si afferma per contro il carattere di ‘lavoratore’ dell’eletto, che sarebbe un ‘dipendente’ della cittadinanza (con la quale dovrebbe essere connesso attraverso un sistema di ‘vasi comunicanti’), indica abbastanza chiaramente la via che porta alla democrazia diretta.

Il punto problematico è, allora, che questo modo di governo democratico sembra valere soltanto per piccoli aggregati e non nella società di massa in quanto tale. Infatti qui ciascun individuo sarebbe sì e si sente un soggetto, e però nel loro insieme gli individui fanno appunto una massa, restando quindi, nella loro simultanea totalità, contraddittoriamente inarrivabili come soggetti. Con la cosiddetta democrazia liquida tuttavia – che si fonda sull’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche e che incrocia i criteri della democrazia diretta con talune correzioni di democrazia delegata – si dice che sarebbe possibile avviarsi per tale nuova strada. Infatti per la gestione pratica di tale democrazia liquida, almeno all’interno del movimento, i Cinquestelle pensano di utilizzare una piattaforma internet realizzata attraverso il software chiamato LiquidFeedback.

Quest’ultimo comunque sembra presentare talune difficoltà di tutela democratica. Ad esempio il criterio della trasparenza, necessario per garantire l’autocontrollo del sistema nell’affollarsi delle proposte e delle delibere, a loro volta necessariamente filtrate da uno screening che deve essere trasparente, prevede soltanto il ‘voto palese’, ma l’esclusione del ‘voto segreto’ espone il votante senza difese al ‘potere di persuasione’ di eventuali leaders, formatisi nell’altrettanto necessario meccanismo del voto delegato per competenza. La principale di queste difficoltà comunque che sembra un sistema adatto a regolare la funzione deliberativa assembleare, ma non quella, altrettanto ricca di decisioni, della gestione. Questo aspetto del governo dei fini e dei mezzi sembra accantonato.

Probabilmente perché sentito come una technicality, un punto teoricamente già risolto. È possibile. È certamente possibile che nell’atmofera culturale contemporanea, dove l’economia mette la propria impronta su tutti i valori e i modi d’agire, l’unica forma di organizzazione operativa considerata efficiente, o almeno l’ovvio modello cui ispirarsi nella pratica, sia l’impresa. Una volta era l’esercito, potremmo considerarlo un passo avanti sul terreno della democrazia.

In ogni caso abbiamo infatti che il movimento Cinquestelle appare, per questo aspetto, una ripetizione sui generis della formula organizzativa del partito-azienda. Qui non si dà un proprietario di un’impresa politica la quale opera mediante un apparato di funzionari da lui nominati e che hanno con tale proprietario un rapporto di dipendenza aziendale. Nel caso dei Cinquestelle invece si dànno due proprietari di più imprese economiche che operano nel settore della comunicazione sulle quali poggia un movimento politico (di fatto un partito o almeno un quasi partito) di cui uno dei due proprietari è presidente.

Senza approfondire qui l’argomento degli eventuali conflitti di interesse che dovrebbero sorgere nella pratica e nel diritto da questo stato di cose, basteranno un paio di interrogativi generici. È congruo che un diritto politico (la libertà di voto del parlamentare) venga negato in termini aziendali, tramite un contratto di diritto privato? Esiste una relazione fra i toni alti, sempre di rottura scandalistica, talora in apparenza irragionevolmente forzati, della polemica se non addirittura della linea politica propugnata dal ‘portavoce’ del movimento Cinquestelle e la utilità economica (legittimamente) procurata dal connesso rendimento pubblicitario delle aziende che a lui fanno capo o a cui è cointeressato? C’è un nesso fra tali interessi pubblicitari e il rifiuto di usare per la ‘comunicazione’ politica non altro che il proprio blog e i suoi siti virali? Ma, più latamente, è fondata la polemica contro i mass media che sempre deformerebbero il verbo Cinquestelle, se la loro funzione, non piattamente divulgativa, servile, ma critica, conoscitiva, è appunto e deve essere di coglierne il senso contestualizzandone e ricontestualizzandone il significato?

 

Alla fine, da questo breve panorama ricaviamo la sensazione di trovarci davanti a una straordinaria complessità e problematicità della situazione italiana in questo momento. Il nuovo e il vecchio vestono gli stessi panni. Il dominio anche culturale (ciò che Antonio Gramsci, traendone importantissime conseguenze di analisi sociale e di azione politica, chiamava egemonia), il dominio dell’economia è talmente totale e ovvio da squilibrare tutto il sistema e inaridire persino l’economia stessa. Ogni pensiero politico e/o culturale che guardi ai problemi della realtà, come sarebbe sempre necessario per acquistare senso, oggi deve compiere sforzi enormi per non accontentarsi della riverniciatura economica e lì chiudersi nell’inutilità.

Ecco dunque una conclusione che, apparentemente marginale, tocca invece il problema in realtà decisivo: l’egemonia economica non solo distrugge la politica, a cui vorrebbe rifiutare la ‘delega’, intendendola come una intromissione indebita, ma più largamente, negando il valore del lavoro intellettuale e la necessità sociale della cultura, finisce addirittura per distruggere il processo di formazione delle stesse competenze economiche. Con il suo strapotere l’economia autodistruttivamente danneggia se stessa. Ma purtroppo senza le conoscenze  e  lo spirito critico e dunque lo sguardo lungo, che vi sono connessi in quanto prodotti organici del lavoro intellettuale, la realtà tutta, economica, politica, materiale, scade e rovina. La mancanza di spirito critico e di sguardo lungo pare oggi il centro rovinoso dello stato delle cose in Italia. Siamo dentro una crisi generale. Comunque – va anche detto – la parola ‘crisi’ ha una coloritura negativa solo se non la si intende per quello che è: una richiesta di risposte nuove a problemi reali nuovi.