I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2021. Un fiocco di neve un pomeriggio d’autunno, Anna Valenti_Santa Margherita Marina(ME)

anno 2021 (Bianco)

N’ebbi abbastanza del bianco fin da giovanissimo. Quando nacqui – ma questo non me lo ricordo – fu probabilmente l’unico momento, ahimè, in cui il bianco non si impose con prepotenza nel mio campo visivo, divorando tutto, offuscando gli altri colori. A 4 anni, però, mi diagnosticarono la leucemia, e allora del bianco non me ne liberai più. Era nei camici degli infermieri che mi salutavano la mattina, quando andavo in ospedale a fare le visite, o quando le cose non andavano bene, e allora mi ricoveravano, e il bianco era tutto intorno: sulle pareti, sul letto, sul pavimento, sul soffitto, io ero bianco, bianchissimo, ero un fiocco di neve nella neve, sulla neve, sotto la neve, e mi chiedevo a volte come facessero a trovarmi, a distinguermi, in tutto quel bianco. Poi tornavo a casa, che di solito di bianco aveva poco, forse la mamma lo sapeva che non mi piaceva, e aveva colorato tutto il bianco che aveva trovato. Quando stavo con lei, sentivo che nessun colore cattivo poteva raggiungermi, mi sentivo io un arcobaleno, di colori belli, bellissimi, anche se rimanevo bianco bianco, e lei lo diceva sempre, mi metteva la mano sotto il mento, mi girava la testa a destra, poi a sinistra, e diceva: “Sei pallido”. Poi si alzava, si scotolava le mani sul pantalone, e andava comprarmi il gelato alla vaniglia. Per lei era la soluzione a tutti i problemi, e per un periodo, lo fu anche per me. Il bianco del gelato alla vaniglia era stato l’unico bianco, nella mia vita, che mi fosse piaciuto. E mi piace anche questo bianco, questo che brilla e luccica davanti a me. La mamma non c’è, non lo sa ancora che vedo il bianco, mi ha lasciato da solo per andare a comprare il gelato alla vaniglia, per portare per un pò di bianco bello nel bianco brutto dell’ospedale, mi ha lasciato con il bianco delle infermiere, che per ora però, quando mi salutano, sorridono un po’ di meno. Forse il bianco adesso, inizia a stare stretto anche a loro. Il bianco davanti a me sembra un pò più grande, un po’ più luminoso, si squaglia sulle pareti della stanza e gocciola dal soffitto. Eppure mi piace, è un bianco che calma, è il bianco del gelato alla vaniglia, quello che mi piace tanto. Però vorrei che la mamma lo vedesse con me, perchè sono sicuro che non farà in tempo, quando lei tornerà il bianco avrà avvolto ogni cosa, e lei lo confonderà con il bianco nel resto della stanza. Ma questo bianco è così bello, è così intenso, è così vivo! Dove sei mamma? Vorrei portarti questo colore, vorrei che facesse sentire te come fa sentire me. Lo vedi? Ti illumina, ti stringe, ti solleva come fa con me? Forse tu non sei ancora abbastanza leggera, forse devi aspettare ancora un po’ per vedere questo bianco, per sentirlo. Io sono piccolo, capelli non ne no, quindi non mi pesano e sono bianco anch’io, quindi questo bianco mi solleva e mi fa volare in alto, e all’improvviso c’è solo lei, la luce bianca, mia madre che ride, ma non è mia madre, eppure la risata è la sua, ma lei non riderebbe, perchè il bianco non potrebbe vederlo, ma io la sento, la sento e il bianco me lo sento dentro, mi sento tutto una luce e una musica e la risata di mia madre mi passa attraverso e io sono sempre in alto, il bianco dell’ospedale me lo sono dimenticato, vedo solo il bianco più bello che abbia mai visto, e sono libero, lontano, ma mia madre non c’è. Dove sei, mamma?

Il bianco si sposta un pochino, e finalmente ti vedo, eccoti, china su un letto bianco, in una stanza bianca, in un ospedale bianco, con un infermiere vestito di bianco accanto. Sei china su un fiocco di neve, che eppure è diverso dal bianco intorno a te. Sono io? Sono io, eppure sono anche qui. Piangi e mi accarezzi, ma io non mi muovo. Sono bianco anch’io, e tu, mamma, sei ancora a colori. Mamma? Parlami. Non riesco a sentirti. Non riesco a toccarti. Vorrei tornare a colori anch’io.