I racconti del Premio Energheia Africa Teller

Momma’s Girl_Zhanet Kendi, Nairobi(Kenya)

_Racconto vincitore prima edizione Premio Energheia Africa Teller 2000.

Abbi il coraggio di essere un leone

Abbi il coraggio di restare solo

Abbi il coraggio di tener fede ai tuoi propositi

Abbi il coraggio di esprimerli…

“Mi sforzavo di richiamare alla memoria il resto del canto ma non ci riuscivo. Pensai che fosse colpa del nodo che avevo in gola oltre che delle lacrime che mi offuscavano la vista”.

Era una notte fredda quella in cui lei mi aveva insegnato quello strano canto. Io ero troppo giovane allora per poter riflettere a fondo sulle parole e catturarne il vero significato o sentirne il peso reale. Ma di una cosa ero certa: mi aveva sempre trasmesso un senso di appartenenza e di coraggio. Era sempre presente nel mio animo e nel mio cuore per rendermi audace ogni volta che avevo paura e mi aveva sempre dato un barlume di gioia quando ero arrabbiata. Nonostante l’innocenza dei miei anni quel canto mi aveva sempre reso più coraggiosa.

… E ora mi trovavo lì, in cima ad una collina, circa undici anni dopo che quello strano canto si era iscritto nella mia mente e le sue parole impresse nel mio cuore e tutto ciò che riuscivo a ricordare era la notte in cui lei me lo aveva insegnato e soltanto poche frasi per completare quel ricordo.

Ero di nuovo quella ragazzina… che piangeva per aver perso una bambola e per un padre che non la amava, che piangeva per tutti quei motivi che aprono il pozzo di lacrime di una ragazzina e che non poteva nascondere nessun problema, perché lei era sempre lì presente…

Mentre la mia mente continuava ad accarezzare quei momenti lontani nel tempo e cercava di ricordare le parole di quello strano canto, scoprii l’ironia dolce-amara di tutta la situazione e deglutii a fatica soffocando i singhiozzi…

… Ma tutto ciò era accaduto ieri.

Con mamma.

Questo accadeva oggi. Senza mamma.

“Sarà terribile. E sotto tanti aspetti”, pensai tristemente, mentre i miei occhi fissi sulla vallata sottostante trattenevano il corso dei miei pensieri che vagavano lontano…

In quello scenario riuscivo a vedere il villaggio con le sue case dai tetti di lamiera ed il grande edificio di pietra grigia circondato da giardini incolti inondati da un’esplosione di fiori. Proprio dietro l’edificio c’era il cimitero pubblico… Il cimitero era antico, il suo terreno ricoperto di erba grigio-marrone con qualche pallida macchia verde; dal mio punto di osservazione mi sembrava di una bellezza selvaggia. Le tombe erano sistemate tutte in fila, alcune avevano delle statue, altre soltanto una croce in cima e sebbene alcune sembrassero più tristi di altre, tutte erano segni di marmi bianchi sbiaditi.

Provai un brivido lungo la schiena nel ricordare gli eventi dolorosi che erano sepolti sotto una di quelle querce. Provai il bisogno impellente di andare al cimitero. Una cosa che non avevo mai fatto prima e non avrei mai immaginato di fare… ma prima che potessi avviarmi vidi la piccola figura di una ragazzina avanzare lungo la strada che portava al cimitero. Mentre apriva il cancello e lo richiudeva dietro di sé, riconobbi Sandra, la mia sorellina di sei anni, con una bambola sotto il braccio come un fagotto infangato, gli stivali scoloriti che avanzavano a fatica nell’erba del cimitero.

La ragazzina non degnò di uno sguardo le tombe attraverso cui passava finché non arrivò ad una che stava sotto un’enorme quercia.

La osservai con orrore mentre posava la bambola ai piedi dell’albero e procedeva verso il cumulo di terra non lontano dai piedi della quercia.

La osservai mettere un piede sul marmo per cercare di pulirlo dalle foglie secche che vi si erano posate sopra.

Una tomba senza nome.

Era la tomba di mamma.

“Un dolore che rimane sempre lì a farci ricordare i problemi, le ansie, i dubbi e l’amore che abbiamo provato” pensai mentre mi alzavo in piedi e incominciavo a camminare giù per la collina con lo sguardo ancora fisso sulla ragazzina nel cimitero sottostante e mi sembrò di vederla saltare…

… Non avevo pensato che qualcun altro potesse provare quello che io stavo provando dentro di me.

Come aveva potuto? Perché l’aveva fatto? Mi chiedevo con dolore.

Era sempre stata così premurosa. Come avrei mai potuto perdonarla per non avermi detto che se ne sarebbe andata così presto?

“Non vivrò a lungo”, mi aveva detto una sera mentre sedevamo davanti alla luce del caminetto fatto di tre pietre che era l’unica cucina che io avessi mai visto in casa!

“Vuoi morire?”, avevo domandato sorpresa come se la parola ‘morire’ evocasse tutto il regno del male.

Non avevo mai pensato che fosse vero. Ma un giorno tutto ebbe inizio.

“Come un incubo…”

Il suono dell’organo vagava verso il soffitto macchiato della chiesetta ed il coro di voci all’interno della piccola stanza si innalzava in un potente unisono con quel canto familiare.

“Nella tentazione e nella prova spesso ci domandiamo perché deve essere così tutto il giorno mentre altri, intorno a noi, non patiscono sebbene vivano nel male…”

Ma quella mattina il canto risuonava in modo strano; riuscivo a malapena ad aprire la bocca o a muovermi mentre stavo in piedi fissando davanti a me la bara di mia madre. Tutti sapevano che era morta di una malattia incurabile. Era stata una buona madre. Una solitaria.

Una leonessa nelle avversità, ma ora che era morta solo noi, io e Sandra, sapevamo quanto fosse stata brava perché il resto della folla si era lasciato comprare dall’orrenda bugia che lei fosse morta a causa della sua immoralità.

“Grazia divina, quanto è dolce il bene che ha salvato i miseri come me ero perduto e sono stato ritrovato ero cieco e ora vedo …” La musica vagava di nuovo nell’aria mentre le voci scivolavano via lontano dalle mie orecchie…

“La mia corsa è finita”. Ricordai con amarezza il giorno in cui mi aveva detto quelle parole e aveva riso alla mia espressione divertita.

“Non finisce mai!”, aveva aggiunto ridendo con gli occhi pieni di lacrime.

Era sempre stata una buona amica per me.

Un’ottima amica.

Ed ora ero lì, in piedi come una statua a fissare la sua bara marrone scuro coperta da un telo bianco con una croce rossa… immaginando che da qualche parte in un’altra dimensione spazio-temporale io e mamma fossimo ancora due buone amiche che ridevano senza preoccupazioni e si volevano bene.

“O forse no!” pensai esausta.

“Forse non so quando mollare. E’ come vivere in una trappola del tempo…”

Mio padre non era mai stato presente durante tutto quel periodo terribile ed ora eccolo lì! Tutti pensavano che per lui fosse stato molto difficile anche soltanto accettare l’idea che mamma fosse così gravemente ammalata ed ora eccolo lì, in piedi accanto a me, che piangeva come un bambino. Io ero pronta a scommettere che avrebbe portato a casa una delle altre sue mogli ora che mamma se ne era andata e mentre pensavo questo una voce che conoscevo molto bene mi colpì come un fulmine.

Troppo familiare per poter passare inascoltata.

E troppo chiara per poter essere dimenticata anche solo per un secondo.

“Spesso mi chiedo perché dovrei viaggiare lungo una strada così ripida e accidentata mentre altri vivono nell’agio mentre io lotto con la perdita…” Mi asciugai le lacrime che stavano per scivolarmi lungo le guance. Era mia sorella Sandra.

Lei era stata la prediletta di mamma e la poesia che stava recitando  era tra le sue preferite. L’aveva imparata tempo addietro all’asilo e ricordavo perfettamente il giorno in cui aveva imparato a metterne insieme le parole. L’aveva recitata più e più volte. E ora l’avrebbe ripetuta tante volte ancora a chiunque le si fosse presentato davanti…

“… I miei progetti grandiosi sono falliti. E il mio cuore sanguina…”

Riuscivo a malapena a sentire la sua voce che veniva sommersa dai singhiozzi dell’assemblea. “… Per i miei tanti errori non soffro e mi chiedo il perché di questa prova mentre sto facendo del mio meglio ne ricevo vergogna…” La sua voce svanì nei singhiozzi e la vidi soffiarsi il naso e sorridere.

Sorridere.

Lei sorrideva alla folla riunita. Poteva permettersi un sorriso nonostante tutto quello che le stava succedendo intorno; aveva solo cinque anni. E non aveva una mamma. La sua mamma era morta e lei non avrebbe provato più il calore dell’abbraccio di sua madre. Io ero in una situazione migliore: avevo 14 anni ed avevo già conosciuto il suo amore, la sua bontà…

“Sorella” sentii una voce e delle piccole dita che tiravano le mie.

Quando mi voltai, accanto a me c’era Sandra che mi guardava diritto negli occhi come se si aspettasse che la sua mamma emergesse dallo strato di lacrime che vi si stava formando.

“Va tutto bene”, mi disse dolcemente stringendo la sua presa.

Bene!

Come poteva andare bene!

“Andiamo al cimetrio” disse lasciandomi dolcemente il braccio e prendendomi il vestito.

“Non cimetrio. Si dice ‘cimitero’ ”, la corressi. Sì, al cimitero!

Il vento si calmò come se temesse di svegliarla, il turbinio delle foglie ricoperte di rugiada gelò i miei piedi. La luna attraverso le nuvole posò lo sguardo su quello che un tempo era stato un cespuglio fiorito e quel riflesso mi fece rabbrividire.

Tutta la sua onta era nascosta sotto la terra rossa a dimostrazione del fatto che lei se ne era andata.

Lei non esisteva più.

Aveva continuato a dormire nelle notti precedenti e l’avrebbe fatto anche stanotte. E non l’avrebbero svegliata le voci intorno o il suono dei passi che calpestavano le foglie secche rompendo il silenzio sopra di lei.

Mi sedetti sul marmo sentendo il contatto delle foglie umide sulle mie gambe nude.

Mia madre era lì, la sua tomba era senza nome. I miei nonni, seguendo la tradizione, avevano rifiutato di seppellirla nella tomba di famiglia.

D’impulso avvicinai a me alcune foglie secche e mi distesi su un fianco pensando a quanto fosse piacevole sentirmi così vicina a lei.

“E’ morta di Aids dopo essere stata emarginata da tutti” pensai con dolore cercando di allontanare i miei pensieri dalla sua tomba su cui ero distesa. Non riuscii più a trattenere le lacrime. Piansi. Era una cosa che non avevo fatto molto spesso, da quando era morta. Lei mi aveva pregato di non piangere, ma oramai non importava più a nessuno, neanche a lei.

L’essere nata come illegittima, mi aveva fatto estraniare dal mondo. Ero cresciuta in un mondo crudele, incapace di vivere come gli altri bambini. Col passare del tempo mi ero richiusa in me stessa creando un mio mondo pieno di sogni e di fantasie, dove a nessuno era consentito entrare all’infuori di mia madre. Dipingevo immagini di vita perché i colori della realtà erano per me troppo sgradevoli da accettare.

All’età di dieci anni la mia paura della realtà aveva iniziato a svanire, ma non molto era cambiato. Mentre le ragazzine della mia età erano tutte impegnate nelle loro attività, io insistevo a dire che non mi interessavano. Ero soddisfatta a vivere la vita creata dalla mia immaginazione separata da tutto e da tutti fatta eccezione per la mia sorel1lina e mamma: tutta la mia vita, escluso il tempo che trascorrevo a scuola, ruotava intorno a loro.

Parenti e amici avevano cercato di farmi uscire da quel mio mondo di favola e mi avevano riportato alla realtà con l’aiuto di mamma per affrontare le questioni relative a chi fossi e perché. Per affrontare la stretta delle mani di una madre che moriva di Aids senza nessuno che potesse aiutarmi ad aiutarla ad andare avanti.

Avevo mantenuto nascosto il lato oscuro della mia natura mentre aiutavo mia madre a vivere con l’Aids e con il dramma di veder crescere la mia sorella minore mentre lei era tanto debole. In realtà ero una ragazza molto emotiva, capace di grande odio, capace di suicidarsi e nei confronti degli uomini ero brutale.

Una volta la mia insegnante mi aveva definita, confusa e superficiale.

Pungente ma particolarmente intelligente…

Attraverso la malattia di mamma mi ero liberata dal dolore di vederla morire…

… E il dolore arrivò. Non avevo preso un sedativo perché avevo voluto soffrire. Lo dovevo a me stessa e a lei. Sarei stata in grado di sopportarlo. Perché era quello il mio dolore e lei aveva attraversato il dolore… vedendoci lottare nella fitta nebbia della povertà senza poter fare nulla o non molto per ammorbidire l’aspro corso della nostra vita… Subito dopo la sua morte avevo pensato che la vita fosse giunta al termine. Di giorno e di notte stavo lì senza pensare a niente, pensando a tutto senza ricordare niente, ricordando tutto avevo riso agli scherzi che lei faceva e avevo pianto per tutto il dolore che lei aveva portato nel mio cuore. Spesso sorridevo al ricordo dei bei momenti che avevamo vissuto insieme. Il pensiero del futuro incerto mi aveva fatto rabbrividire. Credetti di trovarmi in uno stato di isteria…

In quella notte fredda, sdraiata sulla sua tomba, lasciai che il passato mi inondasse. Ricordando, ricordando ogni cosa…

Lei giaceva sotto di me.

Era una sofferenza.

Era un piacere.

A tratti pensavo che fosse piacevole sapere che lei era lì sotto. Era il dolore più grande.

Lei dormiva.

Dormiva e non sentiva le nostre grida di dolore, non rispondeva alle nostre domande.

Dormiva e non poteva darci ancora un conforto. Sentii le lacrime inumidirmi i capelli mentre col pensiero tornavo indietro alla nostra vita prima che lei si ammalasse.

Erano stati gli anni del benessere.

Anni in cui ero stata talmente disperata, talmente indipendente.

Non potevo fare niente per me stessa, né lo poteva mia sorella che allora era una bambina. Mamma faceva tutto per noi due, non ingoiava il nostro cibo ma ce lo metteva in bocca.

Era l’unica persona che ci apparteneva in modo assoluto e completo.

Non fu mai una donna di casa tranne che per me e per Sandra.

Completamente sola, aveva raggiunto il massimo nel cercare di farci capire cosa vuol dire avere una madre.

Era unica nel suo genere.

Era tutta la magia che noi due avessimo conosciuto. L’unica madre amorosa che ci fosse familiare… sempre pronta a prenderci in considerazione.

Sempre pronta a pulirci il naso e a metterci a letto ogni sera. Non c’era bisogno di una richiesta insistente perché lei facesse qualcosa per noi. Sapeva sempre tutto ciò che bisognava fare. Era come un angelo che faceva sempre ciò che era necessario al momento giusto.

Era sempre presente per fare ed ascoltare quello che io avevo da dire…

Ma un giorno tutto cambiò.

Noi avevamo bisogno di lei come mai prima di allora, ma ora era lei ad avere maggiore bisogno di noi. Aveva terribilmente bisogno di noi.

Lei era sempre stata formidabile. Non era più formidabile per il resto del mondo. Era ammalata. Era sempre stata estremamente capace, affidabile, instancabile… “sì” pensai ad alta voce mentre mi alzavo dalla sua tomba e sentivo il lato sinistro del mio corpo rigido e i piedi intorpiditi, provando un brivido ora che il vento sembrava soffiare contro il corso dei miei pensieri. Sentii freddo dentro di me rendendomi conto di come fosse diventato buio.

Rimasi in piedi sulla tomba di mia madre chiedendomi che cosa il fato avesse in serbo per me e Sandra.

“Abbi il coraggio di essere un leone

Abbi il coraggio di restare solo…”

Non riuscii a cantare la frase successiva, non ricordavo neanche come continuava il canto.

Ritornai con la mente al pomeriggio, quando avevo visto mia sorella Sandra in quello stesso punto e pensai al contrasto tra i momenti in cui ognuna di noi era stata lì: lei durante il giorno, quando il paesaggio solitario era pieno del canto degli uccelli e di voci umane, io, di notte quando l’aria era completamente ferma tranne che per il canto dei grilli e il gracchiare dei rospi…

Nonostante le circostanze della mia nascita, avevo scoperto un altro mondo al di fuori del ghetto violento. I suoi orizzonti erano illimitati.

Era questo un motivo per cui ero indifferente alle opinioni degli abitanti del villaggio riguardo alla mia famiglia. Bisognava avere pietà di loro, non paura. Mi tranquillizzò il pensiero che quasi tutte quelle persone conducevano una vita molto arida. I loro mondi si limitavano a poche miglia quadrate. Come potevo lasciare che le loro opinioni su di me e la mia famiglia mi condizionassero? Avevo deciso di combattere ad ogni costo e di nuotare contro corrente.

Una brezza leggera soffiava tra le foglie delle querce e le ombre giocavano sulla tomba senza nome di mia madre. Una volta, molto tempo addietro, l’avevo odiata e avevo attribuito a lei la colpa di tutti i problemi della mia infanzia, della crudeltà del mondo e dello scherno dei bambini del villaggio che avevano saputo che mio padre era andato via di casa.

Ma ora la capivo e non potevo provare altro che tristezza. Lei aveva amato, in modo imprudente, forse, ma con tutto il suo cuore e temevo che io avrei fatto la stessa cosa. Di mia madre rimanevano soltanto Sandra, dei ricordi dolorosi e poche parole di un canto incompleto coronati da una tomba senza nome; il suo sangue, però, era vivo dentro di me e dopo un lungo periodo di amarezza avevo imparato ad esserne fiera, ma lo era anche il destino che veniva espresso dalla tomba senza nome, da canti incompleti e dal ricordo dolce-amaro di lei?

Tutto ciò mi si chiarì attraverso il ricordo di una poesia che lei mi aveva insegnato.

Da domani sarò triste

Sarò triste da domani

Non oggi. Oggi sarò contenta

E ogni giorno sarò contenta non importa quanto sarà duro

Io dirò

Da domani sarò triste. Non oggi

E c’è un Dio

Che accetta doni

Che guarisce le ferite

Che perdona e che ha un sogno con il mio nome!

Sì mamma!