I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2015 – Maschere di Stefania Baldissin, Eraclea(VE)

_Anno 2015 (I sette peccati capitali – L’Ira)

 

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La facciata della chiesa era esposta ad ovest. Alle tre di un afoso pomeriggio di luglio si riusciva ancora a tenersi all’ombra di una delle due colonne che, distanti qualche metro dal portone centrale, gli si ergevano davanti. Nonostante una straripante folla di persone accaldate avesse occupato ogni spazio disponibile all’interno dell’edificio, inspiegabilmente il sacerdote aveva deciso di tenere chiuse tutte le porte, costringendo i partecipanti a stare o dentro o fuori la struttura.

All’interno della chiesa, tutto il tempo in piedi, individui, anche anziani, assistevano alla funzione religiosa resistendo impassibili alle gocce di sudore che colavano dalle loro nuche arrestandosi sui colletti delle camicie o sugli elastici dei reggiseno.

Al pari di quelle degli attori che recitano un triste copione, le facce non facevano trapelare null’altro che un composto dispiacere, come se un muto accordo le impegnasse ad esibire un portamento riservato ed austero. Gli sguardi si mantenevano vitrei. Era percepibile lo sforzo di astenersi da qualsiasi giudizio sul fatto che aveva costretto molti a condursi lì.

Non detto, serpeggiava pure il divieto di lasciarsi sfuggire una minima variazione di espressione che potesse tradire il nascosto piacere d’esser vivi, d’essere spettatori di colui che, trapassato, era ormai nell’al di là ignoto e misterioso ma, peggio ancora, l’inammissibile piacere di spiare il dolore trattenuto che contraeva i volti dei suoi familiari, ancor più intenso dato la causa impronunciabile che originava il funerale.

Se qualcosa lì si poteva esprimere, era possibile solo tramite gli occhi, un rimprovero latente, una rabbia ingiustificata e compiaciuta contro “altri”, alcuni altri, una accusa a prescindere, che accomunava gli uomini e le donne che popolavano quei banchi, contro chi si permettesse di non restare incanalato in un certo modo di vivere: il loro.

Impossibilitati a rimanere immobili sul marmo eroso dal tempo, nell’aria quasi pietrificata per il caldo e per l’avvenimento che non lasciavano scampo, temperamenti nervosi ripararono all’esterno, all’ombra del porticato. Il selciato era impraticabile, scottava. Il calore mordeva le caviglie, i polpacci. Rallentando la sua corsa, il sangue pareva pungere la pelle dall’interno, come per avvisare il corpo che era ora si muovesse al fine di scongiurare un abbassamento di pressione, uno svenimento.

Gli astanti, in attesa che la bara uscisse, evitavano di guardarsi tra di loro, ciò nonostante, di sfuggita, qualche occhiata saettava sugli altrui abiti, sulle scarpe, sulle borsette.

Raggiere di rose e anturium bianchi erano stati raggruppati vicino ad un furgoncino pronto per scortare l’auto col feretro.

Non era facile convincersi che dentro la bara, ora sorretta dai portantini, potesse trovarsi il corpo di un ragazzo, di un uomo con lo sguardo da ragazzo, di nemmeno cinquanta anni.

Non si riusciva a unire due immagini, quella del defunto in quanto tale (epigrafi e articoli sui giornali lo attestavano) e quella di lui, vivo, che salutava sorridendo chiunque incontrasse.

In effetti, più che un sorriso sembrava un ghigno stampato, un cinico, ironico sorridere, deridere.

Finalmente si aprirono le porte della chiesa. Arrivò un sentore d’incenso e cera consumata dalla fiamma, un vapore di corpi accaldati.

L’autista del carro funebre chiuse con sussiego i bottoni della stretta giacca nera,  assunse un’aria seria e compunta e parlottò con un vigile urbano per accordarsi sul percorso.

La cassa di legno, sorretta dai portantini, era ricoperta di gigli bianchi. Subito dietro, si affacciò per prima la sorella del morto. Il suo viso era chiazzato per l’emozione, l’amaro del dolore le aveva scavato guance e collo. Gli occhi erano gonfi ma prosciugati di lacrime.

A seguire, la madre ed il padre, anziani ma impettiti come sempre, non tradivano l’urlo che altrimenti ci si sarebbe potuti aspettare. Entrambi sorridevano gentili ai convenuti accettando le condoglianze con espressione neutra, senza pianto, senza ribellione alla sorte, stoicamente. Ma la vergogna era immensa nel loro cuore. Non era ammesso che un cristiano cattolico, un uomo nato in una famiglia da generazioni ricca e stimata, il loro figlio, unico maschio, potesse essere caduto dal quinto piano del palazzo in cui abitavano, nel centro della cittadina.

Quel gesto silenzioso e solitario aveva parlato più di cento parole, quelle che nessuno aveva provato a offrire amorevoli, quelle terribili pronunciate nelle liti tra marito e moglie, tra genitori e figli, quelle mai ascoltate, le sue, di lui, talmente arrabbiato da non riuscire, per assurdo, a scappare da quei genitori, che mai gli avevano donato una carezza, un abbraccio o il perdono per un brutto voto.

Le parole perse per sempre, inghiottite dal buio.

E quelle non dette che affermavano “Mi sento deluso, tradito. Vi odio. Pur di punirvi sono perfino disposto a perdere la vita, a togliermela”.

L’ira feroce, d’essere stati svergognati nella loro esemplare rispettabilità dal figlio suicida, non sarebbe mai emersa dal loro intimo. Né altre emozioni. Nessuno, nemmeno loro per se stessi, li aveva mai educati ad ascoltare teneramente.

Accaldati, provati, camminavano diritti e a testa alta, ben vestiti, ben pettinati, come fossero ad un corteo per tutt’altro evento, sul volto la maschera più bella, per l’ennesima rappresentazione.