I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2022 – Catene Comode, Maria Chiara De Gregorio_Napoli

_Anno 2022 – (Nero)

Nel 1961 nacque mia madre, in quegli anni Rocco Granata cantava “Mi sono innamorato di
Marina, una ragazza mora ma carina”. Marina fu il nome scelto per quella bambina coi
capelli neri. Marina è il nome di mia madre. Ad un certo punto della mia infanzia,
restammo io, lei e mia sorella Valeria più piccola di me di soli dieci mesi e mezzo.
Non eravamo solite separarci pur non conoscendo davvero quel naturale attaccamento fisico
fatto di baci e carezze. L’unico distacco avveniva durante le vacanze estive, quando
partivamo appena terminata la scuola per la lunga villeggiatura coi nonni. Ricordo
nitidamente le giornate che segnavano la fine dell’estate, la sensazione di perdere
all’improvviso quella piccola felicità dal sapore di mare costruita così in fretta tra le
passeggiate alla stazione San Marcellino per riempire la damigiana grande con l’acqua
buona alla fontana del paesino, coi i ghiaccioli gocciolati sulle mani piccole e scure
d’abbronzatura, alla rosticceria alle spalle del lungomare, tra le corse sulla Graziella
appartenuta a mia madre e ai suoi fratelli prima di lei.
Settembre sarebbe arrivato puntuale e io avrei dovuto dire addio ai grilli, alle
cavallette e alle lucertole. Avrei salutato le rane al fiume, i sassolini neri lucidi e i
cocci di vetro levigati con costanza dalle onde del mare. Settembre avrebbe distrutto i
miei castelli di sabbia e forse anche i miei sogni più teneri, mentre promettevo a tutti
gli amici che ci saremmo rivisti l’estate successiva.
L’estate è tornata ancora, e ancora, ma è arrivata cambiata. Tutto in quegli anni stava
cambiando. Erano cambiati i posti e anche gli amici, era cambiata la mia famiglia ed ero
cambiata pure io. Mio padre era rimasto indietro, talmente indietro che ogni volta che mi
voltavo non lo vedevo più. Stava costruendosi una nuova vita sugli errori commessi nella
vita precedente. Scoprii che sentirsi traditi aveva il sapore della carne cruda.
Settembre invece era sempre lo stesso, non mi tradiva mai. Mi restituiva con fiducia le
cose più vere. Segnava puntuale il tragitto della Lancia Delta grigia di mio nonno che ci
riportava a casa al rientro dalle vacanze. Imboccando il vialetto ad attenderci al
cancello, già c’era mamma. D’un tratto ricordavo il suo profumo buono e in quell’istante
avevo già dimenticato i grilli, le rane e gli amici dell’estate. Riconoscevo le sue mani
belle e il suo caschetto nero, quei suoi occhi scuri da animale selvatico ma fedele. Gli
anni della mia infanzia sembravano solo apparentemente passare lenti ma io crescevo in
fretta e la mia immaginazione costruita su una solida solitudine, correva lontano spiando
il mondo dalla finestra della cameretta di un piano rialzato con quella malinconia che
appartiene agli anziani e ai romantici che cercano di fare i conti col prossimo futuro.
In quegli anni pensavo a mia madre come al pulcino dei cartoni animati: Calimero “piccolo
e nero”. Ho odiato a lungo e in modo feroce il fatto che non combattesse abbastanza per
un episodio diverso, infondo anche Calimero aveva avuto i suoi momenti felici.
Alla “Marina” di Granata, veniva prospettata una vita meravigliosa e piena d’amore ma non
era stata quella la storia di mia madre, non era stata quella la vita della mia Marina.
A 9 anni, mi accorsi con un respiro già affaticato che la canzone che io le riconobbi in
quel bellissimo volto stanco non era altro che inevitabilmente “Anche per te” di Lucio
Battisti. Avevo compreso presto che in quelle parole piene di amore e pena per una vita
disgraziata, ci fosse tutta la compassione che già ero capace di provare per lei.
“Per te che è ancora notte e già prepari il tuo caffè, che ti vesti senza più guardare lo
specchio dietro te, che poi entri in chiesa e preghi piano e intanto pensi al mondo ormai
così lontano, per te che aggiungi ancora un po’ d’amore a chi non sa che farne, per te
che un errore ti è costato tanto, che tremi nel guardare un uomo e vivi di rimpianto.
Anche per te vorrei morire ed io morir non so, anche per te darei qualcosa che non ho. E
così, e così, io resto qui.”
In quegli anni mia madre vestiva quasi sempre di nero. Diceva che le piaceva ma a me
sembrava che volesse sparirci dentro, come a voler diventare un’ombra, per aggirarsi
indisturbata e inesistente nelle vite che gli altri le vivevano attorno. Come a voler
portare il lutto di un fallimento di cui si sentiva marchiata. Era una piccola anima
scura ma con una luce incredibile. Quel nero era diventato il mio colore più caro.
Il colore della sua resistenza, di quella tenacia necessaria, il colore del suo amore.
Oggi, coi miei 34 anni, mentre cerco di diventare madre senza essere certa che sia
giusto, quando mi guardo allo specchio, riconosco le prime leggerissime rughe identiche a
quelle che solcavano il suo viso a quei tempi. Proprio quelle sue prime rughe iniziarono
a farmi temere irrimediabilmente che anche lei sarebbe invecchiata e che il tempo sarebbe
diventato da quel momento in poi il mio più grande nemico.
Quel tempo mi ha tenuta con una mano stretta al collo ogni volta che respiravo serena per
un suo sorriso per il terrore che finisse il mio sogno di questo legame eterno. Oggi che
il mio volto assomiglia sempre più al suo volto stanco di quegli anni, oggi che ogni mio
piccolo dolore è silenzioso come lo era il suo, penso spesso a tutto quello che farei se
avessi la possibilità di averne un’altra di vita da rubare per vivere ancora, col
coraggio e la forza che solo il tempo ti insegna a recuperare. Ma il tempo ha una
scadenza, come quella dei concorsi ai quali puoi ancora partecipare. Il tempo non torna
indietro. Così ho riflettuto su quanto le sia sembrato che la vita le sfuggisse di mano
giorno dopo giorno, a quanto la più stupida felicità fosse una cosa per gli altri e mai
per lei. Ed è lì che ho capito il perché della mia precoce malinconia, di quel velo di
tristezza giunto da me ancora prima del menarca. Avevo sentito in una zona profonda di
una me che non era sbocciata ancora, quel rimpianto che lei non aveva mai espresso a
parole e avevo capito che il filo che ci legava non era solo fatto di sangue, era la vita
che si ripete, perché lei è me ed io sono lei. Per questo era diventata la prima per me,
la prima tra gli ultimi perché il mondo s’era dimenticato beatamente di lei, del suo
cuore buono. Il mondo l’aveva abbandonata alla sua indifferenza. L’aveva lasciata sola e
piena di devozione.
Mia madre era stata un groviglio di capelli neri che nessuno aveva accarezzato
abbastanza, di cui nessuno si era preso veramente cura e io l’amavo anche perché sapevo
che la sua sfortuna, quella piccola vita fragile e allo stesso tempo così strutturata,
fatta di grandi dolori muti non era stata una sua scelta, una sua colpa.
Le era capitata e forse, con uno spirito di adattamento che prima non comprendevo,
l’aveva già accettata nel momento in cui ne era stata investita. Crescendo capii che la
sua felicità esisteva nel mio sorriso e in quello di mia sorella. Avevo riconosciuto in
mia sorella, sin dai suoi primi anni di vita, un’attitudine al coraggio. Non aveva sempre
le idee chiare e quelle che le erano chiare, talvolta le esprimeva a fatica e in un modo
tutto suo. Era piccola e appassionata, aveva una sua lampante fragilità ma allo stesso
tempo era dotata di una forza che negli anni non ero riuscita a riconoscere in nessun
altro essere umano. Capii che la nostra vita era destinata alla tempra e che non c’era
spazio per molte altre cose. L’amore è ingombrante, il nostro, era silenzioso e pieno.
Erano queste le due catene comode della mia volubile esistenza, quelle alle quali ero
capace di restare attaccata anche durante il sonno.
Sarei riuscita a bastare loro, a quelle due donne di cui nessuno aveva scritto la storia,
le due donne della mia vita. Diventai comica per sentire le loro risate sincere. Diventai
forte per difenderle dalla cattiveria. Diventai amica per leggere meglio nei loro
silenzi. In difesa di quell’orgoglioso trattenerci a vicenda, sostituii gli abbracci e le
carezze con una durezza amara. Nel tempo, senza volerlo, diventai la voce del rimprovero.
Le mie parole piene di amore, giungevano loro per mia incapacità, come pezzi di vetro
impazziti e diventavano giudizi crudeli. Non sapevo come esprimere quell’amore che per me
era carico di responsabilità. Mi sentivo come una pianta rampicante che non poteva essere
staccata dal muro. Avevo sostituito la finestra della cameretta con lo schermo, era lì
che la mia immaginazione incontrava nuovi mondi, era lì che smettevo di essere
responsabile e immaginavo la mia vita nella vita degli altri.
Capii che avevo scelto la scrittura e il cinema perché era per mia madre e mia sorella
che inventavo delle storie, perché della realtà ne avevamo già abbastanza.
Avevo capito che il nero delle mie pause mentre scrivevo era il punto della nostra vita,
lo stacco di quell’inquadratura che ci serviva per riprendere il racconto di altre vite,
altri mondi che potevano diventare i nostri. Che potevano raccontare parte di questa
storia di cui non importava nulla a nessuno.
Capii che questa irriducibile passione veniva da loro, era stata la spinta per far
sentire loro tutto il mio amore ed era diventato il mio linguaggio per esprimermi col
mondo che non mi sembrava più così impunito. Forse, compresi amaramente e dolcemente che
infondo, nessuno è cattivo, i cattivi sono soltanto quei buoni che hanno avuto troppa
paura. E noi con la paura avevamo imparato a giocarci battendola sul tempo. L’unico tempo
che avremmo mai potuto vincere. E abbiamo vinto.