I racconti del Premio letterario Energheia

The few. The proud_Cristiano Scavongelli, Francavilla a Mare(CH)

_Racconto finalista ottava edizione Premio Energheia 2002.

È una parola senza significato.

Vuoto è una parola priva di senso.

Dentro, fuori, ovunque.

Il vuoto non esiste.

C’era qualcosa, lì fuori.

Il sole proiettava una coltre impenetrabile di luce candida, perfettamente priva di qualsiasi variazione cromatica. Attraverso gli occhiali scuri, l’immane distesa di dune tutt’intorno a loro appariva di un grigio smorto, ma sapeva benissimo che se se li fosse tolti non avrebbe visto più nulla. Solo una sconfinata landa di sabbia abbagliante, di sole abbacinante. Sabbia, sabbia, e ancora sabbia.

Eppure c’era qualcosa, lì fuori.

Un piccolo, microscopico puntolino scuro.

Sentiva i granelli di sabbia scivolare lungo i crinali sabbiosi delle dune, slittando gli uni sopra gli altri in un lento, costante, inesorabile acciottolio. Sapeva che se si fosse fermato ad ascoltarlo sarebbe impazzito. Il suono della sabbia.

L’eterno scivolare delle dune, spinte dal vento. Un infinito andirivieni, l’unico movimento in un luogo che non aveva ragione di esistere.

Perché non c’era nulla, lì fuori.

Tranne quel puntolino scuro.

Dovevano avvicinarsi per capire cosa fosse.

Era una carcassa.

La carcassa macellata, sventrata di un carro armato M-1A2 Abrams, Esercito degli Stati Uniti.

Giaceva semisprofondato nella sabbia, con i cingoli sporchi coperti da un sottile velo di polvere. La poppa lacerata affondava per un buon mezzo metro in un cratere bruciacchiato.

Forse una mina, forse una bomba, non faceva alcuna differenza. La corazza posteriore si era aperta come la corolla di un deforme fiore d’acciaio quando i vani motore e i serbatoi erano esplosi. Contorti petali di metallo annerito, graffiavano la sabbia. La torretta giaceva rovesciata qualche metro più in là, la lunga canna del cannone da 120 ad anima liscia ancora puntato verso il cielo. Incredibilmente, nonostante la violenza dell’esplosione, l’unico blocco di metallo che costituiva la torretta non era andato in pezzi. Così come la pesante corazza anteriore non recava segni di danni da esplosione.

C’erano ben altri segni.

Fori slabbrati di perforanti calibro 50. Piccoli, quasi invisibili fori costellavano le placche frontali. Microscopici intacchi indicavano che la corazza doveva averne deflessi parecchi, prima di cedere. Ma c’erano comunque abbastanza buchi per far assomigliare l’Abrams ad un colabrodo.

Nessuno di loro guardò all’interno. Conoscevano tutti quanti quel tipo di proiettili, non c’era bisogno di approfondire l’esame. Se una corazza d’acciaio di quattro pollici di spessore aveva fatto quella fine sotto l’attacco a suon di perforanti, era prevedibile quale fosse stato il risultato su un corpo umano.

Probabilmente non c’erano abbastanza resti da giustificare un funerale.

Un’altra cosa era certa. Quel carro non si trovava lì da molto. Troppa poca polvere.

Ma avrebbe rimediato il vento. Presto, molto presto la carcassa sarebbe scomparsa.

Così come sarebbe successo per altre carcasse.

Le loro.

Ponte di collegamento fra la terra e i suoi abissi.

L’immane torre di trivellazione spiccava scura contro il cielo, netta contro l’immane piattezza del deserto.

Un’incastellatura di ferro, un grandioso intrigo di travi e rivetti di metallo fusi in un’unica mastodontica struttura. Una lunga, frastagliata ombra nera, partiva dai pilastri alla base, dipanandosi come una lunga, interminabile autostrada nel bel mezzo del deserto. Una freccia, un cartello stradale ad indicare il deserto.

Prego, signori, per il vuoto sempre dritti.

Unica struttura nel bel mezzo del niente.

Una ragnatela di tubi luccicanti si distendeva come un intrico di mostruosi tentacoli sul fondo piatto del deserto. Reti di scintillanti condotti, oleodotti, gasdotti che s’intrecciavano in mezzo alle dune prima di sprofondare sotto di esse, come dita d’argento che cercassero qualcosa. Magari quello stesso qualcosa che era stato strappato poche centinaia di metri prima dallo stesso ventre della terra. Dita di un uomo assetato.

Volevano bere. Volevano quel qualcosa che scorreva dentro di loro.

Si trattava di petrolio.

Odore acre, forte, pungente, mescolato a quello salino della sabbia, in un mix inebriante. Il vento lo spingeva in lunghe folate contro le loro narici, facendolo insinuare nei vestiti, facendo ottenebrare i sensi. Ora c’era un solo pensiero, nella loro mente.

Quella stazione di trivellazione e di estrazione.

Quel vampiro conficcato contro il fianco della terra.

Il loro obiettivo.

A prima vista sarebbe sembrato un compito enorme, ma non lo era.

Sarebbe bastato piazzare qualche carica di esplosivo contro gli oleodotti o sotto la torre di trivellazione. O forse su entrambi. Greg non aveva idea di quanto C4 disponessero, ma non era un suo problema. Ci avrebbe pensato Rupert Chambers, esperto di esplosivi e nell’uso di armi pesanti. Un bel botto e il petrolio si sarebbe incendiato. Una gigantesca fiammata e l’intera stazione sarebbe saltata in aria, insieme con un bel pezzo di crosta terrestre.

Niente di più semplice.

Infiltrazione – sabotaggio – distruzione.

E anche dannatamente letale.

C’era qualcosa che stonava.

Una missione facile, certo. Esisteva un’unica complicazione: c’era qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Filo spinato, ad esempio. E movimenti, tra i tubi, sotto la torre.

Tra loro e la stazione c’era solo sabbia. E sotto la sabbia si poteva nascondere qualsiasi cosa. Da un portafogli sgraffignato ad una signora distratta sulla spiaggia ad un intero campo minato nel deserto. Era una verità che Greg aveva imparato ad accettare. Loro erano solo carne da macello. Il lavoro lo avrebbero fatto i tiratori scelti.

Loro avrebbero solo dovuto raccogliere i pezzi.

O divenire loro i pezzi.

Appostata sopra una duna, Lydia, Kite Due, attendeva l’inizio dei fuochi.

Attraverso le focali del mirino del fucile di precisione il campo di trivellazione sembrava morto. Non scorgeva alcun movimento, niente che indicasse la presenza di una qualche forma di difesa. Ma Lydia sapeva che non poteva essere così.

C’era il filo spinato e la trivella continuava a scavare. L’impianto pareva perfettamente funzionante, non c’era sabbia sulle valvole: qualcuno, nei giorni precedenti, aveva provveduto a spazzarla via. Doveva per forza esserci qualcuno.

C’erano dei dettagli che le sfuggivano.

Loro erano Special Forces, il meglio sulla piazza in fatto di assassinio. Non aveva senso che l’alto comando degli Stati Uniti avesse spedito sette commando nel bel mezzo del deserto solo per far fuori una stazione di trivellazione priva di difensori. Sarebbe stato molto più semplice, molto più razionale e soprattutto molto meno costoso spedire un missile balistico intercontinentale in quel pezzo di deserto. Sì, decisamente molto più facile.

Doveva esserci qualcosa, negli ordini, che non era stato detto.

Perché loro? Perché sette assassini? Chi dovevano assassinare?

Infiltrazione – sabotaggio – distruzione. Non assassinio. I conti non tornavano.

– Kite Due e Tre, vedete niente? – Greg, alla radio.

– Negativo – rispose Lydia.

– Negativo – fece di rimando Al Johnson, Kite Tre, l’altro tiratore.

– Restate in stand-by, ragazzi. Chiudo.

– Capito Lydia, non ti addormentare.

– Dannazione Kite Tre, il codice!

– Quanto mi piaci quando ti alteri, Lydia.

– La sai una cosa, Al?

– Dimmi tutto, bellezza.

– Non sei affatto divertente.

– Non intendevo esserlo, tesoro.

– La sai un’altra cosa, Al?

– È il giorno delle dichiarazioni, oggi?

– Vai al diavolo.

– Tutto pur di compiacerti.

Greg invece non aveva il sospetto che i conti non tornassero.

Ne aveva la certezza.

Già per il fatto che erano stati inviati loro, Special Forces, già per il fatto che gli ordini portavano scritto, su ogni pagina, la dicitura: Livello di classificazione 9. Il massimo della segretezza. Il livello cui pochi eletti avevano accesso. A tutti gli effetti né loro né la loro missione esistevano. Forse neanche quegli ordini esistevano.

Livello di classificazione 9. Non per la distruzione di un pozzo di petrolio. Non aveva senso. Non aveva nessun senso.

Lì, deserto Iracheno, Guerra del Golfo, le incursioni contro i pozzi petroliferi erano all’ordine del giorno. Vedere lunghe fiammate eruttare da pozzi in fiamme era all’ordine del giorno.

Ma un Livello di Classificazione 9 non lo era.

Non lo era affatto.

E soprattutto per questo credeva che fossero lì per lavare i panni sporchi dell’US Army.

Negli ordini non c’era scritto altro. Il resto erano solo supposizioni.

Doveva sapere chi avesse di fronte, prima di muoversi.

Avrebbero atteso il buio.

Poi si sarebbero mossi.

Gli avrebbero dato una carota da addentare.

Il buio venne.

– Kite Due, vedi niente?

– Negativo, Kite Uno.

Greg sospirò. Non c’era motivo per attendere oltre.

– Benissimo. Attacchiamo.

Si mossero.

P.J. Richardson apriva la fila.

Attraverso gli occhiali per la visione notturna le dune apparivano come una confusa distesa di chiazze bianche, ancora calde per l’afa diurna. C’era troppa luminosità residua, i sensori stavano impazzendo. Senza gli occhiali il mondo era una grande chiazza scura. Con gli occhiali una grande chiazza bianca. Splendido miglioramento.

Il sottile reticolo del filo spinato avanzava verso di lui.

Trenta metri, venticinque.

Sembrava lontanissimo.

P.J. Richardson non aveva idea di quanto fosse vicina la sua fine.

La radio crepitò.

– Dammi una buona notizia, Kite Due.

Lydia scrutò nel mirino ad intensificazione d’immagine.

Mi spiace, Kite Uno.

Greg serrò i denti e non replicò. Era il terzo della fila. Dodici metri avanti P.J. era a quindici metri dal reticolo. Sentiva, dietro di lui, l’ansimare roco di Rupert Chambers. Continuò ad avanzare, sperando che la sua idea di fare le esche, non fosse così folle come gli sembrava.

La sabbia scivolava cedevole, sotto i suoi piedi.

Pareva stesse per aprirsi. Pareva volesse inghiottirlo.

Movimento!

Lydia ruotò il fucile, velocemente. Vide solo tenebra.

– Dimmi un po’, Kite Tre, l’hai visto anche tu?

– Se ti riferisci a niente, puoi giurarci, Lydia cara.

– Non sei divertente, Kite Tre.

– Questo l’hai già detto, Lydia.

Una nuova voce. – Piantatela un po’, voi due. -, Greg.

– Ecco, vedi? L’hai fatto arrabbiare!

– Appena avrò il tuo collo a portata di mano, Al, ti… aspetta! – Statica.

– Cosa succede? – Greg.

– Li vedo. Sono tre… no, cinque. Stanno…

– Qui Kite Tre. Li ho anch’io. Pare proprio che… Signore Iddio!

Greg, alla radio. – Cosa?

– Stanno preparando una…

Il rombo della prima esplosione coprì le sue parole.

Greg vide due cose contemporaneamente.

La prima fu un’imponente colonna di fuoco e sabbia che eruttava dal terreno.

La seconda furono le gambe di P.J. Richardson che schizzavano via.

Poi fu l’inferno.

Le fiamme salirono verso i cielo, arrampicandosi in una ripida spirale arancione. Lo spostamento d’aria gli schiaffeggiò il volto, l’improvvisa luce mandò in tilt gli occhiali per la visione notturna. Greg si gettò a terra, d’istinto, mentre una tempesta di shrapnel passava sibilando sopra la sua testa. Vide il torso di P.J. ricadere al suolo, la braccia agitarsi un istante prima che il terreno esplodesse sotto di esso. P.J. Richardson fu cancellato dalla faccia della terra.

Greg si rialzò, disincagliando l’M16 da sotto di sé. Sentì la radio crepitargli nelle orecchie, qualcuno, forse Lydia, forse Al, che gli urlava di stare giù. Non li udì, o forse non li comprese. Un sordo crepitìo sovrastò il ruggito delle fiamme, Greg scorse colonnine di sabbia eruttare dal fondo del deserto e minuscole scintille accendersi davanti, vicino ad un oleodotto.

Il terreno gli esplodeva intorno ai piedi.

Kite Quattro, Samuel Baxter, gli esplose davanti agli occhi.

Miliardi di minuscoli aghi roventi, che lo pungevano al petto.

Sottili filamenti rossi che si protendevano dalla sua schiena.

Barbagli di luce che si accendevano dietro le palpebre.

I proiettili di grosso calibro lo afferrarono per il petto e lo sollevarono da terra mentre getti scuri scaturivano dalla schiena perforata, mandandolo a rotolare lontano, contro una duna, in una nube di sangue vaporizzato. Greg sentì confusamente qualcuno che gridava, alla radio. Qualcuno che non gridava cose sensate. Cose blasfeme, cose malvagie.

Grida di dolore.

– Kite Due e Tre, fuoco!

Lydia ruotò velocemente il fucile. Una testa collimò nel mirino.

Tirò il grilletto tre volte, con rabbia. La testa esplose.

– Qui Kite Due, uno giù.

Greg. – Kite Cinque, dammi un po’ di fuoco.

Rupert Chambers emerse faticosamente dal fumo. Tossì.

Lydia notò che stringeva un grosso tubo metallico in una mano.

Vide Greg strapparsi violentemente gli occhiali per la visione notturna e scagliarli di lato, quindi rialzarsi e mettersi a correre.

– M-79 in batteria e pronto al fuoco.

– Fuoco!

Ci fu uno sbuffo di fumo, quindi il grosso proiettile da 40 mm solcò l’aria prima di schiantarsi a una volta e mezza la velocità del suono contro una duna. Il rombo dell’esplosione parve più forte di mille tuoni. Lydia scorse un uomo iniziare a correre lateralmente, il fucile nelle sue mani che vomitava fuoco contro le Special Forces. Vide la sua gola gonfiarsi ed esplodere in un lungo getto cremisi e l’uomo accasciarsi al suolo.

– Qui Kite Tre, uno giù. Lydia, che fai, dormi?

– Il sonno eterno, idiota.

– Kite Due e Tre, fate tacere quella mitragliatrice! Kite Sei e Sette, sfondiamo!

Greg scattò in avanti, spedendo una rapida sventagliata di proiettili calibro 223 Remington Magnum a schiantarsi contro una valvola. Vide vapore scaturire in un lungo getto bianco e pregò distrattamente che non saltasse tutto in aria. Un altro proiettile da 40 fece eruttare un geyser di polvere cinque metri alla sua destra. Una nube di sabbia polverizzata si levò da terra e s’interpose fra lui e l’oleodotto. Lo spostamento d’aria lo fece barcollare come un ubriaco.

La mitragliatrice tacque, un attimo, poi riprese e sparare.

Qualcosa, che lo colpiva violentemente allo stomaco, facendolo sussultare.

Una boccata di sangue che gli sgorgava dalle labbra.

Dolore, accecante, che gli esplodeva nella mente.

Kite Sette. – Dio, mi ha beccato, mi ha…

Un’esplosione, dietro di lui. Kite Sette tacque. Cristo Santo. Il campo minato. Ci stavano passando in mezzo.

Due detonazioni ravvicinate. Al vide, attraverso il mirino ad intensificazione d’immagine, l’affusto della M-60 a tiro rapido contorcersi, raggruppandosi su se stesso come le spire di un serpente metallico. Altri due colpi verso la camera di sparo e il nastro di proiettili esplose, come un grappolo di castagnole. Gli shrapnel squarciarono il metallo, riducendolo ad un grumo informe. Squarciarono anche il torso dell’uomo dietro di esso.

– Qui Kite Tre. Mitragliatrice giù.

Fuoco, alla sua destra. Greg sentì un proiettile fischiargli vicino all’orecchio. Rotolò a terra, scivolando su una spalla.

Un lungo lampo si accese alla sua sinistra. Greg sparò una raffica prima di rialzarsi e rotolare ancora in avanti, mentre proiettili strappavano fiotti di sabbia dal terreno sotto i suoi piedi. Scorse, con la coda dell’occhio Kite Sei, inginocchiarsi e sparare tre colpi in semiautomatico, all’indirizzo della fiammata.

Un grido, un tonfo, sopra il crepitare degli incendi.

Greg scagliò a terra l’M16 scarico e estrasse dalla cintola un’automatica HK-27 calibro 45 e l’armò. Dove diavolo era il quinto uomo? Raggiunse la mitragliatrice e la scavalcò con un salto, atterrando sul braccio insanguinato del servente morto. Inciampò, cadde.

Gli salvò la vita.

Una lunga raffica di proiettili squarciò l’aria sopra di lui, colpendo Kite Sei alla base del collo e recidendogli di netto il capo. Non un suono, non un grido. Kite Sei franò a terra come un sacco di patate, mentre il moncone vomitava torrenti di sangue.

Avvertì due tonfi soffocati, poi altri due, uno dopo l’altro, a distanza ravvicinata.

Poi non ci fu più tempo per udire niente.

Non ci fu tempo per fare niente.

Greg sparò due colpi a casaccio, cercando di indovinare la direzione degli spari. Il quinto uomo scoprì lui. Proiettili iniziarono a martellare la sabbia, insieme con il secco sgranare di una piccola ma micidiale machine-pistol calibro 9. La sventagliata di colpi disintegrarono la sabbia tutt’intorno a lui, sotto di lui, mentre lampi arancio squarciavano l’oscurità.

Greg rotolò, inseguito dai colpi. Non ce la faccio, non ce la…

Piccoli geyser di sabbia esplosero pochi centimetri dal suo volto, inondandogli la faccia con una tempesta di polvere.

Sentì piccoli e affilati artigli calibro 9 perforargli la giacca della mimetica e strappargli goccioline di sangue. Il fuoco cessò per un istante, mentre continuava a rotolare Greg udì una serie di clic metallici mentre veniva inserito un nuovo caricatore. Greg impugnò l’automatica, cercando di rialzarsi.

Un altro clic, più forte. La machine-pistol che veniva armata.

Greg sollevò il braccio. Molto, troppo lentamente.

La 9 mm sparò solo due colpi.

Una detonazione, roboante, poco distante.

Una tromba di fuoco, un colpo da 40 mm.

Gli spari cessarono di colpo.

– Credo che questi non ci daranno più fastidio.

– Era Kite Cinque.

– Credo anch’io. – Lydia.

– Credo anch’io – scimmiottò Al – Che fai stasera, bambola?

– Piantala, Al.

– Guarda che parlo sul serio.

Euforia scaturiva dalla radio. Era fatta. Lo era davvero.

Ma a che prezzo.

Greg si avvicinò ad uno dei caduti.

– Che ne dici allora di portarmi in un grazioso ristorante francese?

– Siamo di bocca buona, Madame. Non ti basta una passeggiata al chiaro di luna?

S’inginocchiò accanto al cadavere. Vide l’uniforme. La riconobbe.

– Troppo facile, signor mio. Oggi mi sento in…

– Conosco giusto una splendida oasi, duecento miglia da qui…

– Appena dietro l’angolo.

– A un tiro di schioppo.

– E come mi ci porti?

– Va bene a dorso di mulo?

– Non credo mi vada di cavalcarti.

– Ti perdi il meglio.

– È una mia scelta.

– Tutti i gusti sono gusti.

Greg si stropicciò gli occhi. Non poteva crederci.

Davvero erano stati mandati lì per fare pulizie.

Un segreto sporco da cancellare.

Signore Iddio.

Conosceva fin troppo bene quell’uniforme.

Capelli a spazzola, mascella forte, petto ampio e spalle possenti, bicipiti da culturista e lo sguardo del fanatico presente perfino nella morte. Uniforme perfetta, senza una piega, senza una stropicciatura. Greg lo frugò velocemente, trovò un paio di carte chiazzate di sangue. Ordini di trasferimento, consegne di missione. Fissò per un lungo istante la stella bianca stampigliata in cima ad ogni foglio. Fissò le due parole sotto di essa. Dicevano: US Army.

Conosceva fin troppo bene quell’uniforme.

The Few. The Proud.

Semplicemente perché anche lui l’aveva indossata, a suo tempo.

The Marines.

– Kite Cinque, hai finito?

– In questo istante. – La voce di Rupert era calma.

– Finalmente leviamo le tende. Si torna a casa.

– Al.

– Come, mio eroe, e il mio ristorante francese?

– Sarà per un’altra volta, Lydia cara.

– Ti rimangi la tua parola?

– Costi un po’ troppo, per i miei gusti.

– Scusate se v’interrompo, ma da questo istante avete due minuti di tempo per togliervi dai piedi senza diventare una grigliata mista. – Rupert.

– Grazie per avermelo ricordato.

– Lydia.

– Sempre a te l’oscar per il buon gusto.

– Al, immancabile.

– Grigliata mista di soldataccio.

– Chissà di che sa. –

– Vuoi rimanere per scoprirlo?

– Preferisco un ristorante francese.

– Scemo.

Rupert li raggiunse ansimando. – Avete, anzi abbiamo un minuto e quaranta secondi.

– Il mio cronometro preferito. Ti amo, Ruppie.

Greg, autoritario. – Taci un po’, Al.

Al si zittì. Greg sentì Lydia ridacchiare fra sé e sé. Greg si staccò dal gruppo, alzando lo sguardo. Non aveva fatto tacere

Al solo per non sentire più le sue battute idiote (anche per quello, in verità) ma soprattutto perché un nuovo rumore si era inserito nel silenzio del deserto. Qualcosa come un fischio.

Un sibilo sordo. Abbastanza attutito. Ancora lontano.

Ma si avvicinava in fretta.

Lydia lo fissò. – Cosa c’è, Greg?

Un punto scuro comparve in cielo. – Guarda lì.

Lydia guardò. – Sembra un aereo.

Qualcosa non andava.

– Lo è.

Piccole scintille si accesero sotto il muso.

Sì, decisamente qualcosa non andava.

Predatore d’acciaio contro un cielo bianco.

Fairchild Republic A-10 Thunderbolt II.

Aveva delle zanne.

Le sfoderò.

La Gatling vomitava fuoco, sopra di loro.

Traccianti – perforanti – dirompenti, grigliata mista, tanto per usare un po’ di gergo. Proiettili calibro 30 mm, all’uranio impoverito. Cadenza di tiro di quattromila colpi al minuto.

Munizionamento standard anticarro. Se vuoi dare l’ultima passata su qualcosa che è già stato distrutto, mandi un bombardiere pesante, due, diavolo, un intero stormo di bombardieri pesanti. Poco ma sicuro che della zona bombardata non resterà che cenere. Ma non mandi un caccia specificamente anticarro e non gli dai l’ordine di aprire il fuoco con una mitragliatrice a sette canne rotanti.

Solo se vuoi che qualcos’altro venga distrutto.

Qualcosa di più piccolo, più sfuggente.

Qualcosa come un carro armato.

Qualcosa come un piccolo commando.

La raffica di proiettili si aprì la strada attraverso il cielo pallido, abbattendosi in mezzo a loro con la stessa irruenza di un branco di bufali. Greg vide la lunga fiammata bianca dipanarsi come un tentacolo luminoso dalla bocca da fuoco, i traccianti scavare un solco fiammeggiante nello spazio che li separava.

I proiettili scesero lentamente, molto lentamente. Sentì sé stesso strillare alla radio, non sapeva cosa, non gl’importava, sperava fosse qualcosa di sensato. Vide gli altri gettarsi rapidamente di lato, rotolando sulla sabbia, impacciati dall’equipaggiamento.

Qualcosa, nella sua mente, contava. Una voce.

Quaranta secondi prima di diventare grigliata mista.

I proiettili lacerarono il deserto, strappando schizzi di roccia.

Trenta secondi.

Il terreno parve divampare, eruttando verso l’alto.

Venticinque secondi.

Qualcuno non fu abbastanza veloce a scansarsi.

Venti secondi.

Una mano possente, che gli strizzava le reni.

La spina dorsale che veniva compressa da una forza immane.

La sua voce che gridava. Sempre lo stesso monosillabo.

No, no, no, no…

Greg vide i proiettili afferrare Rupert Chambers per le reni e sollevarlo da terra, scaraventandolo via come uno straccio.

Vide le gambe ballare appese ad un brandello di carne e la schiena gonfiarsi ed esplodere in una vivida emulsione rossa.

Lo vide atterrare scompostamente su una duna, la sabbia bianca che si tingeva istantaneamente di rosso. Due occhi sbarrati, che lo fissavano.

Qualcuno che gridava. Forse alla radio, forse nella sua testa.

Ma forse era la stessa cosa.

Dieci secondi.

Il Thunderbolt passò rombando sopra la sua testa come un nero uccello da preda, le due turbine gemelle che urlavano al massimo dei giri, le ali possenti che fendevano l’aria, i timoni separati che marcavano una scura, geometrica U contro il cielo.

L’aereo passò, irrompendo dal cielo come un mastodonte metallico in una foresta. Iniziò a virare, per il secondo passaggio, quello conclusivo. Passò sul campo di trivellazione, radente alla torre.

Punto zero.

La torre di trivellazione scomparve in una colonna di fuoco e metallo fuso e contorto che venivano scagliati verso il cielo da qualche demone dell’inferno. Il terreno tremò scosso da quaranta libbre di C4 che esplodevano simultaneamente, le condotte si gonfiarono e si squarciarono, getti di petrolio sotto pressione schizzarono verso il cielo in spumeggianti geyser neri. L’onda d’urto si propagò in orizzontale, scavando le dune, modificando la geometria del deserto.

La colonna di fuoco si dilatò, fagocitando parte del cielo.

Divorando un piccolo, insignificante uccello di metallo.

Una palla di fuoco brillò, per un istante, sospesa nel cielo.

Sabbia e frammenti metallici ricadevano al suolo come pioggia malefica.

Il fuoco divorò il cielo, lo distrusse.

E quello fu tutto.

Fetida pioggia nera si abbatteva su di loro.

Fall-out radioattivo su anime dannate.

Per un qualche assurdo motivo erano ancora tutti vivi.

Compreso Rupert Chambers.

Sputò una lunga boccata di sangue.

– Coraggio, uomo, togliamoci dai piedi.

La sua stretta era ferrea, intensa.

Greg sentiva qualcosa scivolargli lungo le guance.

– Leviamoci… – tossì. – Leviamoci… da questo schifo di posto.

Sorrideva, mentre lo diceva.

L’HK-27 pesava un milione di tonnellate, nel suo pugno.

– Coraggio, uomo, coraggio…

Sì, coraggio.

Quella volta Greg Chambers dovette farsene parecchio.

Il punto EVAC era dietro la prossima serie di dune.

Greg l’aveva richiesto poco dopo l’esplosione del campo petrolifero. Era stato il suo ultimo gesto cosciente prima di abbandonarsi agli incubi. No, il vuoto non esisteva. Non poteva esistere. Neanche quello lasciato da Rupert. Neanche quello lasciato da tanti compagni morti. Il vuoto era solo uno stato della mente. Il vuoto non esisteva. Bastava rimuoverlo.

Un gesto deciso. E poi non ci sarebbero stati più problemi.

No, il vuoto non doveva esistere.

– Appena rincasati, ti offrirò una cena con i fiocchi.

– Non hai idea di quanto ci creda.

– Hai la mia parola.

– Ti devo ricordare la tua promessa sul ristorante francese?

– Donna di poca fede.

– Visto, che avevo ragione?

– Vedi ristoranti francesi nei dintorni?

– Neanche romantiche oasi.

– Il dorso di mulo non ti andava bene…

– Hai una scusa per tutto.

– Certo.

– Non ti sopporto, Al.

– È per questo che ti amo.

Erano in ritardo. Greg sentiva il ritmico pulsare del rotore di un elicottero. Presto, ancora una duna, sarebbero stati sulla via del ritorno. In volo, verso l’America. Verso casa. Scorgeva un’ombra scura fare capolino da dietro una duna. Greg l’oltrepassò. Si fermò di colpo, osservando lo sgraziato moscone che li stava aspettando. La stella bianca, la scritta USAF erano giuste. Ma tutto il resto era sbagliato. A cominciare dall’elicottero.

Non era un elicottero da trasporto truppe.

McDonnel Douglas AH-64 Apache.

La più devastante macchina per attacco al suolo mai concepita.

C’era qualcos’altro che non andava.

Cinque occhi lo fissavano.

Quelli del pilota. Quelli del navigatore. Quello di una Chain

Gun da 20 mm a tiro rapido.

Lydia e Al gli si affiancarono. Muti, allibiti. Sconvolti quasi quanto lui. Osservarono in silenzio l’Apache che si sollevava lentamente dal suolo, ruotando contemporaneamente verso di loro. Non c’era posto dove andare, non c’era posto dove fuggire. Tutt’intorno c’era il deserto. Il niente. Il vuoto.

Immane piattezza, monotono acciottolìo di granelli di sabbia.

Nessuno parlò, nessuno aprì bocca.

Parlò solo la Chain Gun da 20 mm.

Tonfi attutiti riecheggiavano tra le dune, secchi spari, sordi impatti.

Fiammate baluginavano davanti ai loro occhi.

Ma c’era da aspettarselo. La loro missione non esisteva.

Era un finale più che prevedibile.

Loro non esistevano.

E non sarebbero esistiti più.