I racconti da sceneggiare, I racconti del Premio letterario Energheia

Storia di un muro_Sara Muscogiuri, San Pancrazio Salentino(BR)

_Miglior racconto da sceneggiare quinta edizione Premio Energheia 1999.

 

Uno

– E perché dovremmo pubblicare la sua storia che, come sa benissimo, non è che sia proprio una storia secondo i normali criteri…

– Lo so –

– E perché i suoi pensieri dovrebbero finire sul nostro giornale?

– (perché ti conviene specularci su!) Perché vi ho chiesto di pubblicarli!

(Adesso mi caccia via!)

– Risposta piuttosto evasiva, non crede?

– (e va bene, stronzo, ora te lo spiego) E’ un regalo.

– Un regalo? (ora mi dice: maleiconchicredediavereachefare, con un’agenzia di pony express, regali a domicilio?)

– Più o meno. E’ un omaggio.

– A una donna?

– Forse. (adesso s’incazza!) E’ una specie di ringraziamento a un volto, a uno sguardo… E’ la foto di un momento, l’immagine di una situazione, simulata, forse… la chiami pure ‘raccolta di pensieri’, se vuole…

– E se tutti ci mandassero ogni giorno le loro ‘raccolte di pensieri’?

– Non tutti hanno la possibilità di crearne l’assassino, a richiesta, né di dialogarci… E poi glielo devo a quello sguardo…

A quello sguardo che aveva dentro di sé il fascino e il buio della profondità degli abissi, e la luce infinita degli immensi spazi che forse non ha mai visto né potrà vedere, se non in un remoto angolo della mente, a quello sguardo che, sebbene perso nel vuoto di un oblío indotto, destinato a vagare fra le nebbie, è stato la luce che le ha attraversate…

 

Due

 

Forse un giorno, senza forse probabilmente… un giorno, inevitabilmente dovrò chinare il capo, chiudere gli occhi e lasciarmi sopraffare… inglobarmi nel giornaliero circolo del mondo, nella sua daily routine: lavoro, famiglia, forse un po’di calcio, come se non ci fosse nient’altro.

Tutto talmente deciso e fisso e regolare. Tutto calcolato.

Immobile, fermo e stabilito. E tutti sottomessi a quest’ordine. Dovrò chinare il capo e, piano, piano, mi sottometterò. Non lo so perché, forse a un certo punto viene naturale, come alzarsi e mangiare… sottomettersi… come se gli ideali e i pensieri all’improvviso fossero spazzati via… come se ogni persona si rassegnasse, rinunciando a ciò che è… giù la testa, zitto e ubbidisci… Non so com’è, non è una cosa che ti alzi la mattina e sei cambiato, è una cosa graduale… Forse i sogni a un certo punto si spengono, spariscono dalla mente come la luce in una stanza, solo che la luce non l’abbiamo spenta, l’abbiamo semplicemente abbassata, gradualmente ne abbiamo diminuito l’intensità… L’abbiamo abbassata in maniera inversamente proporzionale all’età, rendendoti conto, man mano che cresci, che i sogni devono chiudersi nel cassetto, che gli ideali e le grandi aspirazioni devono rimanere legati a certi periodi della esistenza… E poi basta… Forse è una cosa naturale, forse in parte dipende da noi… A un certo punto ti accorgi che sei solo, o quasi, a credere in qualcosa, che il processo di sottomissione inizia prima e ti auguri di rimanere così, che tu abbia la forza di crederci sempre… Però arriva il momento in cui chiudi gli occhi, sei troppo stanco, ti sei dovuto rialzare troppe volte da solo, solo perché eri l’unico… e chini la testa…

E il passato e tutto quello in cui hai creduto ti si parano davanti, li guardi dentro e sai che rimarranno lì per sempre, ma che sono stati, solo voli terminati in cadute, solo lacrime e sangue… e non usciranno più fuori, perché tanto è inutile… e ti volterai con rassegnazione… e rimarranno lì sepolti… Quasi quasi mi ci vedo… sono fermo, in un punto qualsiasi in un momento qualsiasi, non importa… C’ho le mani in tasca, sono rimasto male chissà perché, chissà qual è il motivo ’sta volta, chissà contro quale ingiustizia stavo gridando… non so perché, c’è il vento… sono in mezzo a mille correnti d’aria e foglie e cartacce che mi turbinano intorno…

Sono fermo immobile e tutto intorno a me si muove normalmente… sono fermo… Non ho più voglia di parlare con nessuno, tanto è inutile… chi mi era al fianco continuerà ad esserlo e a pensarla così (anche se non ribadisco), chi non lo era, era semplicemente diverso o non voleva capire… C’ho qualcosa dentro che mi brucia… c’è il vento, e le foglie e le cartacce… Sono fermo, mani in tasca, capo chino, occhi chiusi… tutto è bloccato, anche se tutto si muove normalmente. Sono io che sono bloccato. Dentro me stesso. Non so cosa sto per fare perché non ci penso. Non ho più neanche voglia di pensare… Il traffico caotico tutt’intorno… il vento mi fa da isolante sonoro… le foglie… il silenzio… Silenzio… all’improvviso alzo lo sguardo al cielo: è tutto grigio… allora grido… grido con tutta la forza e l’energia, quella poca che mi è rimasta… grido con la forza di quello in cui avevo creduto e che ora agonizzava dentro il mio cervello… l’ultimo grido dell’eroe in fin di vita… l’ultimo grido degli ideali che si ritirano… si rassegnano… Neanche adesso mi sentono. Eppure sto gridando fortissimo. Ma nessuno mi sente. Neanche l’ultimo grido, quello che aveva in sé tutta la forza delle battaglie perdute, è stato udito. Non c’è niente da fare. Sono ancora là, fermo immobile nel vento, sotto il cielo grigio, tra il caos delle macchine che mi passano accanto indifferenti e il silenzio dell’indifferenza…

E’ strano, si sente molto di più il silenzio che il rumore del traffico, eppure ci sono entrambi, entrambi provengono dall’esterno. Sono immobile, senza forza, con le mani in tasca, il capo chino, guardo a terra. Ho le guance bagnate, gli occhi lucidi. Strano, di solito ai funerali non piango. Però, questo era il mio. Era l’estremo saluto ai miei ideali, era l’addio a una parte di me stesso, era il funerale del ME che ho conosciuto fino a questo momento. Adesso, secondo l’immagine progettata, dovrebbe essere arrivato il momento in cui, dandomi l’estremo saluto, mi sottometto al MONDO. Alla corruzione e all’opportunismo, all’utilitarismo, all’uso indiscriminato delle persone, alle concretizzazioni di odio e indifferenza, all’asservimento e alla spersonalizzazione… Mi ero anche impegnato a raggiungere quello scopo. E, infatti, dopo due minuti ero lo stesso di prima. Lo stesso illuso di sempre. Quello con molti sogni, quello con i piedi per terra, ma la testa è più vicina al cielo, quello che cadere non gli serve a niente, perché poi ci ricade… Non ce la faccio, c’ho provato, ma è inutile, anche in una situazione immaginaria, non ci riesco. Così come parlare è inutile, che tanto non capiranno, a me non serve rimanerci male, che tanto dopo, inevitabilmente, continuo a crederci, ci spero di nuovo. Continuo a pensare che spiegare serva, che forse capiranno… Chissà quale delle 2 posizioni è quella sbagliata, in teoria la 2, però poi tutti stanno da quella parte perché è più semplice, la mia fa solo più male e non si vince niente… Spesso si perde e si è più soli, però si è tra persone vere, spero; di là puoi comprarti tutta la gente che vuoi, però se ti guardi allo specchio, se ti guardi bene, non so se ci vedi qualcosa… forse no, perché non hai più niente da vedere, hai venduto tutto, non c’è, semplicemente, più niente…

 

Tre

 

Dopo 2 ulteriori anni di vita nel nido, il cambiamento… Il trasferimento che rimandavo e rimandavo perché non trovavo casa, quello che la mia 500, vecchio tipo sognava, per arrivare un po’ meno esausta al lavoro, quello che, dopo il periodo accademico, doveva segnare il nuovo volo dal nido e dai piatti della mamma, una nuova situazione di indipendente solitudine. Una nuova casa, più che una nuova vita, stesso lavoro, solo più vicino, stesso tutto, ci guadagnano la mia 500 e le mie ore di sonno, ci perdono i miei polmoni abituati all’aria delle colline, ora impregnati di smog cittadino… capita… E capita anche che vado dalla Miss datrice di appartamento signora sui 60, che mi guarda e mi riguarda, posa gli occhi sul mio lobo pluritraforato, storce il naso e io intanto, mentre il processo di osservazione continua su ogni cm di me, penso che è sempre la stessa canzone, non ho l’aria da bravo ragazzo per bene, ho frequentato l’accademia di belle arti invece del corso di laurea in medicina, e poi quei cerchietti lì, sull’orecchio, e quell’aria assente e strafottente, no, no, guardi, mi dispiace, ma non le posso affittare l’appartamento…

Apre bocca, mi aspetto la solita frase di bonario e innocente congedo e invece avviene il miracolo: “E così lei ha detto di fare l’imbianchino…” “Sì…” “Mi scusi se mi permetto, non avrà mica frequentato le belle arti per ridursi a un mestiere del genere…” (simpatica la vecchietta!) “Be no, ma sa, in qualche modo bisogna pur sopravvivere…” “E la sua arte?” “Ho deciso che per un po’ sarà solo mia… avevo avuto un’offerta, ma ho preferito rimanesse incontaminata, ho rinunciato a esporre la creatività sul banco dei caimani dell’arte, perché non volevo doverla trasformare in base alle loro decisioni… Perché?” “Mah, semplice curiosità…” (strana la nonnina!) Poi mi chiede se prima di trasferirmi, già che ci sono, non potrei ridare una mano di vernice ai muri della casa, sa’, avrebbero bisogno di essere reimbiancati, naturalmente detrarrei dal pagamento del mensile… E allora arriva alle mie labbra l’idea, senza neanche passare dalla mente, fermarsi un attimo allo sportello ragione per chiedere consulenza, per assicurarsi che la domanda fosse opportuna e non compromettesse il contratto. “Senta, invece di imbiancare i muri, non potrei dipingerli, disegnarli? Poi, quando dovrò andarmene, se non vorrà avere un appartamento che sembra una galleria d’arte (bravo Narciso!) imbiancherò di nuovo i muri, a mie spese, promesso. (Adesso si mette a urlare “Aiuto l’assassino coi pennelli” e io rimango senza casa…)

– Va bene.

– Va bene? “Sì”

– Dice davvero? Ne è proprio convinta, sicura, sicura? “Si`!” (Certe nonne, dovrebbero santificarle) Allora ci vediamo giovedì, per la consegna delle chiavi…

– D’accordo, buon giorno.

– ‘giorno.

Se non avessi stentato a crederci, se mi fossi reso conto che era vero, che qualcuno mi aveva davvero dato il permesso d’imbrattare non so quanti muri, come volevo, e di imbrattarli nuovamente, se una mattina invece di blu li avessi voluti rossi, me la sarei abbracciata e le avrei dato un bacio, come alla più moderna delle nonne e alla meno convenzionale delle padrone di casa, come ringraziamento al rispetto che aveva mostrato verso l’arte e come inchino alla fiducia riposta nel più sconosciuto tra gli artisti, che, infatti, fa l’imbianchino. INFATTI.

 

Quattro

 

La mia casa, adesso è davvero mia. Mi assomiglia. Ogni parete riflette una parte di me, un mio stato d’animo… Quei muri sono il canto della creatività, l’immagine della sensibilità che vi ha danzato attraverso… e le ha dato vita… se ti avvicini puoi sentirli quasi respirare… sarà un eccesso di autocompiacimento, ma è come se fossero vivi, ogni volta che li guardo si sono trasformati, è cambiato anche solo un particolare, una sfumatura, ma non sono più come io li ho creati, e la luce li dipinge nuovamente, li colpisce, li accarezza… In uno strano alternarsi di colori cupi e tinte tenui, di immagini agitate e linee morbide, è un oscillare costante tra uno stato di irrequieta calma e eccitante noia e pensieri bassi e sublimi aspirazioni… Sebbene i colori abbiano coperto ogni angolo e animino le stanze semi-vuote, c’è un buco… Un piccolo sgabuzzino, sarà 2 metri per uno, che il mio cervello e le mie mani si rifiutano di trasformare… Nessuna ispirazione, ogni volta che ci entro è come se mi si fosse prosciugata la vena artistica… Ho provato a immaginarlo rosa pesca, o nero, o coperto da una pittura futurista o da un fondale marino, ma nessuna, fra tutte le alternative possibili, mi sembra quella giusta: eppure è solo il muro di un buco di sgabuzzino di cui non so che farmene, che non userò mai, dato l’esiguo spazio che mi serve e il perenne caos in cui vivo… E tutta la casa potrebbe essere un ripostiglio…

 

Cinque

 

Un giorno ti dicono: “ Devi dipingere un muro grigio.” Grigio? Grigio grigio. Sì, grigio, che c’è di strano in un muro grigio? E’ grigio come se fosse bianco o blu o giallo. Però è grigio. E quindi non è la stessa cosa. Perché poi, quelli in fila, erano secchi di vernice grigio ICE, madonna! Non è il grigio temporale cupo, quasi nero, o quasi… Non è il grigio bianco un po’ più scuro, è proprio grigio… Quel grigio chiaro, un po’ più chiaro dell’argento che non luccica, più freddo del venticello gelido che ti sibila sul collo mentre cammini nella nebbia all’alba di una giornata senza sole, il grigio di un tratto di grafite senza sfumature… Non è il grigio che si forma dal bianco e dal nero, che di uno cattura la luce, dell’altro conserva le ombre e le fonde insieme, è un colore finto, che inghiotte ogni sfumatura e la cancella del tutto, come se non ci fosse mai stata… Peggio di tutti gli anonimi muri bianchi che dipingo ogni mattina, perché, se c’è il sole, il bianco abbaglia, se piove, spicca comunque…

Un muro di quel grigio rimane sempre così, piatto nella sua regolare uniformità, sempre uguale… Il grigio che copre e uccide… E poi prova a metterti di fronte e a guardarlo: NIENTE. Non ti torna indietro niente, congela anche i tuoi pensieri… Puoi continuare a guardarlo, difficilmente rimbalzerà qualcosa… Riflessi: zero. Quello era il mio compito, quella mattina, e, più lo guardavo, guardavo l’immagine di come sarebbe stato una volta che tutta la vernice lo avrebbe ricoperto, più mi sentivo un assassino. Una specie di killer assoldato da uno dei tanti poteri in circolazione, vai e uccidi, e le mie vittime tutta la gente che ci sarebbe passata davanti e, magari per caso, il suo sguardo si sarebbe fermato su quel muro. In un attimo non sarebbe esistito più niente: la mente vuota! Svuotata di tutti i pensieri, catturati e inghiottiti dalla densità del grigio… Terrificante!

Stavo per costruire la tomba di ogni luce e stendere il feretro di ogni ombra, consacrare il cimitero di ciò che il grigio ha del bianco e del nero, perché non si sarebbero mai visti, neanche con tutta l’immaginazione del mondo, perché quel grigio avrebbe cancellato ogni cosa. Naturalmente quel muro avrebbe ucciso solo i pensieri di chi si sarebbe fermato a guardarlo, di chi si ferma anche davanti alle cose nella speranza di trovare un segno di quello che sta cercando, di chi prova a guardare un po’ più a fondo, anche un muro può parlare. Chi ci sarebbe passato davanti indifferente non avrebbe subito nessun cambiamento… E forse quel muro stava lì come uno specchio: lo specchio dell’indifferenza di chi va avanti guardando solo la superficie o non guardando neanche perché è più facile muoversi automaticamente… Uomini fantocci, automi senza volto, sagome… grigie… Immagina chi invece sta lì, sul marciapiede di fronte, come ero io in quel momento, con la malinconia e la tristezza che quel muro grigio genera dentro a chi si è fermato a guardare (cosa fai, guardi un muro?) e poi ti giri un momento. E sullo sfondo grigio del muro-congelatore, gli automi senza volto… fiumi di persone che camminano dritte, senza guardarsi intorno, seguendo un percorso già tracciato… E tu guardi il muro, guardi gli automi in fila (camminano tutti come se fossero incanalati e divisi da linee parallele, mai nessuno che cammini in diagonale, o all’indietro). Guardi il muro, guardi gli automi, guardi il muro, guardi gli automi, il muro, gli automi, il muro, gli automi e l’urlo che cresce dentro… Ti viene voglia di urlare, eh? Dio svegliatemi, ditemi che è solo un incubo… Il muro, gli automi, il muro, il grigio, l’indifferenza, il grigio, il grigio il grigio… Aaaaahhhh! Madonna cosa stavo per fare!

 

Sei

 

Ero là, che riflettevo sui miei gesti futuri, sul fatto che, fosse dipeso da me, lo avrei dipinto di celeste, quando la voce di Ermanno mi ha riportato alla realtà: “Ehi Picasso ti svegli? Non devi mica affrescarlo, quel muro, devi solo passarci su una mano di vernice…” La voce della coscienza, o la voce del quasi capo, è uguale… Inutile provare a parlargli del grigio che uccide, con lui puoi parlare solo di vino e donne e di come, porca puttana, ti sfruttino in questo paese. Il vecchio Er è come l’orco delle favole, però è buono… “Agli ordini! Er… cos’è?” “Cos’è cosa?” “Cos’è quello.” “Il posto adatto per quelli come te, se fossi figlio mio ti farei vedere…” “Allora, babbo, cos’è?” “Un manicomio.” 7 colpi al cuore tutti insieme. Un’ulteriore carica di dolore inferta alla mia sensibilità. Era un manicomio, già luogo simbolo dell’egoismo e dell’ipocrisia di una società tollerante e altruista che ti sbatte lì dentro solo perché sei diverso, simbolo del potere che l’uomo perfettamente adeguato e convenzionale ha sull’uomo che pensa che il mondo sia come lui vuole immaginarselo… Era un manicomio e dovevo coprirlo con quello strato di vernice equivalente a 120 anni di smog su un lenzuolo bianco… Ma forse ci stava bene, manco l’avessero deciso apposta, il grigio che uccide i pensieri che vela il muro che imprigiona le menti… Mi sentivo come il giudice che legge la sentenza: “condannato”…

 

Sette

 

Man mano che ingrigivo il muro pensavo a tutte le possibili storie che stavano vivendo dietro quella parete, all’uomo convinto di volare e a quello che stava per suicidarsi, chissà perché, e sul mio capo la pressione di una colonna enorme di tristezza e un crescente senso di nausea, mi rendevano difficile il lavoro, e poi avevo paura di non riuscire a man tenere l’equilibrio sull’impalcatura… Però dovevo dipingere almeno fino a quella finestra e poi ero curioso di vedere se ci avrei trovato altri uffici e stanze vuote… Dipingi e dipingi, ci sono arrivato di fronte, ho sistemato il secchio sulla trave, ho alzato lo sguardo per guardare dentro, però non ho fatto in tempo… sono caduto… Sono precipitato nell’antro profondo dello sguardo che ho incontrato oltre le sbarre e oltre i vetri, ma non era la sensazione di 2 sguardi che s’incontrano… era di più, era oltre… Come se tutto intorno a me si fosse concentrato in quell’iride grigio-blu, come ci fosse stato solo quel momento e quegli occhi a rappresentare l’unico degli spazi possibili, il solo spazio in cui potevo trovarmi…

Non erano i miei occhi che fissavano i suoi, ne ero dentro, ne sono stato risucchiato e non erano 2 occhi, 2 pupille, 2 iridi, era un tutt’uno, un qualcosa di grigio-azzurro in cui stavo nuotando, non qualcosa che stavo fissando, era il vuoto e contemporaneamente lo spazio in cui ero in quell’attimo, il nulla tutt’intorno, come se i miei occhi li tenessi chiusi… E poi, il vuoto sotto i piedi, un senso di vertigine dovuto all’immediato ritorno alla realtà, su un’impalcatura di 12 m. Mi guardo intorno, torno a fissare quegli occhi in cerca dell’attimo precedente che non ritorna, poi la guardo… Guardo il volto a cui l’immensa profondità che mi aveva fatto perdere il senso del tempo e dello spazio, apparteneva…

Una donna, il viso come contratto in una rigidezza senza espressione, un’imperturbabilità naturale, una durezza in cui confluisce la dolcezza, e le due espressioni si annullano, dipingendo immobili i tratti del volto… I capelli leggermente mossi a incorniciare il tutto… Un quadro. Sarebbe potuta sembrarmi un dipinto poggiato su una parete grigia, se non fosse stato per quello sguardo… che rideva, perso dietro chissà quali orizzonti, guardava qualcosa che, se anche mi fossi girato, non avrei visto; che danzava sulla pallida staticità del suo viso, nonostante anch’esso desse l’impressione di essere immobile… Ma ne ero stato catturato e avevo danzato con lui, ero stato spinto e risucchiato dal vortice e l’onda mi aveva sommerso, leggero mi ero mosso dentro di lui come un astronauta nel l’universo… Nonostante fosse fermo su un punto lontano, danzava… Era vivo, risplendeva e brillava di quella strana luce che non vedevo, però potevo avvertirne la forza, ne sentivo il calore… Ho dato un colpetto sul vetro, è trasalita, ma un istante dopo era ritornata nell’immobile posizione di prima: le mani sulle sbarre, il volto rigido, lo sguardo lontano…

 

Otto

 

E poi, mentre tornavo a casa, non riuscivo a togliermi quello sguardo dalla mente… e la situazione: io che dovevo dipingere un muro grigio, il muro di uno squallido manicomio e, dietro le sbarre di una finestra, quegli occhi “magnetici”… Lo sguardo più bello che avessi mai visto, era lo sguardo di una pazza… chissà chi era, qual’era la sua storia, cosa si celava dietro l’imperturbabilità di quel volto… E chissà cosa guardava, in quale angolo di mondo immaginario stava vivendo, chissà quale luce lo illuminava… Sono entrato in casa e, d’istinto, sono andato a chiudermi nel buco di sgabuzzino, non ho acceso la luce e sono rimasto così, seduto sul pavimento, al buio, chiuso in una claustrofobica cella di 2 metri per uno… E di nuovo quello sguardo e la sensazione di esserci dentro, e mi ci stavo fondendo insieme, ed ero lui, e io ero lei… “È come se a volte vedessi il mondo in maniera diversa, come se mi svegliassi all’improvviso e altrettanto subito ricadessi nel solito stato… e in quei momenti, non lo so, è come se lo stato di appannamento, come se la nebbia in cui sono avvolta, si potessero vedere dal di fuori… Come se tornassi ‘normale’, una qualsiasi che entra da fuori e guarda la squallore del mio stato e di chi come me, come se, all’improvviso l’assurdità di questa situazione e tutto quello che c’è intorno, si stagliassero nettamente, come un punto giallo su uno sfondo viola… sono là, davanti ai miei occhi, questa stanza con l’orrore che si porta dentro, con il segreto delle urla che dentro di lei restano soffocate, con la lucidità superiore delle menti che qui vengono rinchiuse, per volere di altri, a causa di un potere che ti prende e ti sbatte fra queste pareti… E ti appaiono davanti le tue guance rigate di lacrime, e le mani sanguinanti che inutilmente sfregano e scuotono le sbarre di queste finestre e il tuo sguardo, che sai benissimo, non sarà più capace di ritornare a guardare un punto fisso, perché troppo abituato a guardare oltre, a perdersi dietro orizzonti lontani, uno sguardo che ormai si posa solo sui luoghi costruiti dalla mente… Uno sguardo che conosce troppo bene i ‘luoghi’ che può guardare: l’immagine di tetti e case e industrie, ciò che è dietro le sbarre di questa finestra…

Uno sguardo che ci prova, che ci ha provato a rimanere fermo sullo sfondo dietro il vetro, uno sguardo che ha provato a convincersi e a convincere che l’unica immagine reale poteva essere solo quella, ma inutilmente… ce n’era sempre un’altra… per quanto potesse obbligarsi a stare fermo, finiva sempre un po’ più in là, dietro l’orizzonte e dietro chissà quanti altri orizzonti infiniti, dietro altre realtà che, se non saranno mai reali come l’immagine dietro le sbarre, saranno comunque migliori… saranno migliori del buco in cui mi hanno sepolta, delle mura che hanno usato per feretro e del lenzuolo d’indifferenza con cui mi hanno coperta… destinata a trascorrere i miei giorni… Miei? Giorni?

Magari potessi parlare ancora di giorni miei, magari potessi decidere cosa fare di 24 ore, perché mie… Non ho più niente, non ho neanche la mia vita, né il potere di decidere di essa… Non ho più un’ora da aspettare, non ho più un tempo che mi scorre accanto, non ho dei giorni da trascorrere in qualche modo, ho solo un modo di trascorrere i giorni: guardare oltre queste mura, provare a non sentire l’effetto di antidepressivi e calmanti, superare i limiti di quelle sbarre, bloccare il passaggio alle grida del silenzio e al silenzio delle grida… non ho più dei giorni… sono stati distrutti, sgretolati a poco a poco, affogati nell’inesorabile passare del tempo e nell’inerme immobilità della parete bianca che ho di fronte… un muro sempre uguale, una parete sempre bianca, una situazione ferma e immobile, nonostante ci fosse un tempo che scorreva.

Adesso è fermo, com’è ferma quella parete, come sono immobili i giorni, come le azioni si ripetono identiche, azione dopo azione… Distruggono tutto, cercano di cancellare ogni cosa, lasciando nella mente solo il vuoto, quasi quel bianco ne sia il riflesso…”

 

Nove

 

All’improvviso, mi sono ‘svegliato’ da quello stato, da quella situazione che non mi apparteneva e in cui, per un po’, ero finito dentro… Ho solo provato a immaginare, chiuso nel mio buco incolore, ed è stato terribile… avere quel poco spazio a disposizione ed essere cosciente del fatto che sarebbe potuto essere sempre e solo quello, per tutto il tempo a venire, se avessi avuto ancora la sensazione di un evolversi… Era terribile solo immaginarlo e allora ho pensato a quello sguardo, a quella donna chiusa in una stanza di manicomio, alla sua mente stretta nella morsa dei sedativi… E allo sguardo che non si sarebbe potuto trovare in nessun altro posto, se non in quello che si è creato perché valga ancora la pena di aprire gli occhi, e di guardare… E subito ho saputo di che colore sarebbe stato quel muro… Grigio. Grigio come il grigio che uccide i pensieri, grigio come il grigio con cui avevo dipinto il manicomio, grigio come la tomba di ogni immaginazione, grigio come il nulla che inghiotte ogni cosa… E sarebbe stato il mio grigio, il grigio del mio sgabuzzino, il grigio lì, in casa mia, il muro di un luogo che sarebbe stato per sempre legato a un momento, a una situazione, a uno sguardo… a una vita… che non mi apparteneva, però si ergeva a rappresentare tutte le storie racchiuse tra quelle mura, uccise dal grigio con cui le avevo coperte…