I racconti del Premio letterario Energheia

Sono solo parole_Marta Sgarra, Melfi(PZ)

_Racconto finalista diciottesima edizione Premio Energheia 2012.

 

 

Silenzio. Questo è ciò che mi ha accompagnata in questi ultimi tre anni.

Nel tragitto che va da casa a scuola c’è sempre stato silenzio, al massimo qualche avvertimento tipo: “Il verde è scattato” o “fa freddo stamattina”.

Mio padre è sempre stato un uomo dalle mille risorse, impegnato nel suo lavoro quasi tutto il giorno; quand’ero bambina mi ha fatto vedere mille posti, mi ha portata sempre con sé in qualunque avventura.

Poi sono fatta grande e ho cominciato ad avere una sorta di avversione nei suoi confronti, senza motivo… una sorta di preavviso.

È da lui che ho preso la mia irrefrenabile voglia di vivere e la mia passione per il pianoforte; mi ha trasmesso tanto, lo devo ammettere, ma ora come ora fra noi non è rimasto più nulla.

Tutta la nostra complicità, le nostre giornate passate davanti al piano a cercare di comporre qualcosa e le corse in bicicletta in estate sono ormai andate perdute.

Quel giorno lo ricordo come fosse ieri. Nevicava quel giorno e la prima cosa che feci fu correre a casa di Giorgia, vestiti inzuppati e non solo.

Lei mi accolse con la sua solita eccitazione dandomi un bacio leggero sulle labbra, il nostro segno di affetto, e mi chiese: “Amò, cos’hai?” ed io le risposi. “Niente, mi fai una cioccolata calda?”. “Certo, tesoro”.

Poi giocammo alla Wii per tutta la sera, al nostro gioco preferito,“Just Dance” vinsi superandola di gran lunga.

Lei appese il muso per un po’, ma la consolai abbracciandola; poi mi chiese di nuovo cosa fosse successo ma non le risposi.

Gliel’avrei comunque detto in un modo o nell’altro.

Giorgia è la mia migliore amica, ci conosciamo da quando andavamo all’asilo. Le nostre mamme dovevano sopportare i pianti e le urla quando dovevano separarci. Non ricordo nemmeno un compleanno dove lei non ci fosse; mi è sempre stata accanto e io sono stata sempre accanto a lei.

In tutte le nostre esperienze, le nostre prime volte eravamo l’una accanto all’altra e non ci siamo mai separate.

È una parte fondamentale della mia vita e sinceramente non so se sarei sopravvissuta senza il suo appoggio, i suoi consigli e le infinite chiamate negli orari più assurdi.

Ora io e Giò abbiamo diciannove anni e quest’anno affronteremo insieme gli esami di maturità, con l’ansia addosso, come è sempre stato per tutto.

I prof ci parlano sempre di esami, esami, esami ed io sinceramente ogni giorno che passa mi sento sempre più angosciata; per me la scuola è importante, è un modo per realizzarmi, ma è anche il principale motivo del mio stress.

Fin da bambina mia madre mi ha educata allo studio e alla disciplina ma con il passare degli anni le mie qualità sono volate via, un po’l’adolescenza, un po’la storia di papà e tutto il resto…

Comunque, riesco a mantenere una media decente, cerco di impegnarmi giorno dopo giorno e supero le difficoltà senza troppi problemi; quando sono troppo stanca mi siedo al pianoforte e suono fino a che mi sento meglio. È un po’il mio modo di sfogarmi e scaricare la tensione.

Qualche giorno più in là riuscii ad uscire finalmente dalla mia stanza, dove mi ero barricata per tutto il tempo tenendomi in contatto solo con Giorgia e Francesco, il mio ragazzo.

Feci una passeggiata con Billa, la cagnolina più bella del mondo che vive con me da dieci anni, e la portai al parco dietro casa dove di solito corre come una pazza e gioca finchè non la chiamo per tornare a casa. È una cagnolina molto ubbidiente in fin dei conti e mi piace stare con lei.

C’erano le vacanze di Natale e faceva un freddo cane, non riuscivo nemmeno a tenere stretto il guinzaglio e sentivo il naso ghiacciato. I miei pensieri però erano ancora attivi e giravano sempre intorno allo stesso punto.

Quell’immagine mi tormentava incessantemente e se provavo a scacciarla, tornava di nuovo, come se il mio cervello avesse automaticamente deciso che non c’era cosa più importante di quella.

Nello stesso tempo sentivo la testa totalmente annebbiata e a volte avevo paura anche di poter perdere i sensi e cadere a terra.

Per distrarmi guardai Billa gironzolare nel prato innevato.

Dopo tanti anni nel mio paese era nevicato molto, tanto da coprire strade, palazzi e macchine.

Non avevo mai visto una cosa del genere e i primi giorni, chiusa nella mia stanza osservavo la neve scendere fitta, a fiocchi sempre più grandi pensando che fosse un miracolo.

Ma il miracolo non era la neve, era quello di cui avevo bisogno. Qualcuno con cui parlare, con cui sfogarmi per dire tutto ciò che sentivo.

Ci avevo provato con Francesco quel giorno, ma le parole mi si erano tagliate in gola, mi limitai a dirgli che mi sentivo stanca e volevo chiudere il telefono. Lui mi assecondò senza dire nulla, come se avesse capito, ma in realtà non aveva capito un bel niente, infatti litigammo per tutto il giorno seguente.

Mi disse che non volevo uscire da giorni senza una ragione precisa e che il mio comportamento non aveva giustificazioni.

Io non potevo far altro che acconsentire o a volte cercare di giustificarmi inventando scuse assurde. Aveva ragione ed io ne ero consapevole, ma non potevo comportarmi altrimenti.

Il mio cervello me lo impediva. Ero incatenata, e non avevo modo di liberarmi.        Ero schiava di me stessa, di mio padre.

Ma lui questo non avrebbe potuto immaginarlo. Perché nessuno sapeva, nessuno a parte me.

Per tutto il giorno rimasi nuovamente chiusa nella mia stanza o al massimo salivo sul terrazzo per fumare una sigaretta.

Ormai avevo il vizio da mesi e non riuscivo a smettere nemmeno col pensiero.

Verso le due e mezza del pomeriggio mamma bussò alla porta della mia camera, mi alzai di scatto dal letto e mentre lei entrava io cercai di cancellare il segno delle lacrime sul viso. Impossibile perché da sempre quando piango la pelle si fa a chiazze rossastre che vanno via solo dopo mezz’ora.

Mi disse: “Cosa è successo, Vale?”, “Niente mamma, sono stanca”. “Ma se non hai fatto niente da stamattina!”

“Ma tu credi di sapere sempre tutto, non è vero?” Urlai. “Chi ti dice che non ho studiato tutto il tempo? Lo sai che non voglio che mi disturbi e soprattutto non voglio che ti intrometti nelle mie cose!”

Vidi la faccia di mia madre diventare paonazza, sarebbe scoppiata ad urlare come al solito. Ma quella volta non le avrei dato conto, come d’altronde facevo da anni.

Mia madre ha sempre avuto il vizio di urlare troppo e con il passare degli anni ho imparato a non ascoltarla, a far finta di niente e pensare ai fatti miei sulle sue urla.

Nonostante questo però è il mio modello. Ha sempre cercato di darmi fiducia nonostante i miei mille sbagli e si è sempre dimostrata una mamma comprensiva e disponibile.

Dopo la sua sfuriata uscì dalla mia stanza sbattendo la porta e io sentii il cuore a pezzi, l’avevo aggredita senza un motivo, anzi dato quello che avevo scoperto avrei dovuto starle vicino, proteggerla da tutto il male che c’era alle sue spalle, ma avrei dovuto aspettare che il mio dolore si colmasse prima di poter affrontare qualcuno. Tra me e me sussurrai: “Scusa, Sofia”.

Ero solita chiamarla così, anche se ogni tanto si arrabbiava perché voleva essere chiamata mamma come facevano tutte le figlie del mondo, ma poi le passava perché sapeva che le dimostravo affetto comunque, anche chiamandola per nome.

Mi misi a letto e mi alzai quattro ore dopo sentendo gli squilli insistenti del citofono. Dopo cinque minuti buoni riuscii ad alzarmi dal letto e andare a rispondere, ma nessuno rispose.

Allora mi affacciai al balcone e vidi la macchina di Francesco, la Ypsilon nera con cui mi ha portata in mille luoghi: al mare, al maneggio dei cavalli, al ristorante cinese appena fuori città, al multisala e nei prati verdi delle campagne in estate.

Francesco è stato il mio primo amore, il primo che mi ha fatto tremare il cuore. Ci incontrammo casualmente ad una festa dove mi versò un cocktail rosso sul vestitino bianco, la mia prima reazione fu quella di urlare ma lui immediatamente mi chiese scusa e cercò di ripulirmi; io però ero più concentrata a guardare i suoi occhi verde mare che preoccuparmi per il disastro. Mi piacque subito e credo fu la stessa cosa per lui.

Infatti alla fine della festa mi raggiunse e mi chiese di nuovo scusa per il vestito. “Questo è il mio numero” disse attaccando una sorta di post-it sulla mia borsa di pelle lucida. “Se ti va chiamami, vorrei farmi perdonare per bene” e scappò via dopo avermi fatto l’occhiolino.

Due giorni dopo lo chiamai e la sera stessa uscimmo insieme; mi portò in un luogo pieno di alberi e cespugli e inizialmente pensai che volesse ammazzarmi ma poi mi fece vedere la luna piena circondata da migliaia di stelle e mi diede un bacio all’improvviso.

È sempre stato un ragazzo dolce, sensibile e divertente; il nostro rapporto è sempre stato pacifico, non abbiamo litigato spesso e quando lo facevamo era certamente per qualcosa di sciocco.

Lo chiamai a voce alta e lui immediatamente uscì dalla macchina aprendo velocemente lo sportello e richiudendolo nello stesso modo.

Da sopra il balcone lessi il suo sguardo, occhi verde scuro arrabbiati ma anche dispiaciuti. Lo conoscevo troppo bene per sbagliarmi.

Mi disse cupo: “Scendi che parliamo”.

Non me lo feci ripetere due volte, in quelle situazioni mi faceva persino paura.

Parlammo a lungo quella sera, mi disse che non avrebbe voluto per nulla al mondo rovinare il nostro rapporto, ma che io mi ero comportata male in quei giorni e non avrebbe potuto accettarlo.

Gli dissi che lo amavo e gli chiesi scusa tante volte, ma non gli dissi il motivo per cui mi ero comportata così.

Per un attimo lo dimenticai, feci finta di avere i problemi che avevano tutte le ragazze della mia età e liberai la mia mente da quel pensiero ossessivo. Gli saltai addosso e lo

strinsi forte; mai prima di quel momento mi ero sentita così bene tra le sue braccia.

Un calore improvviso invase il mio corpo e mi resi conto che avevo davanti a me l’unico vero uomo della mia vita.

Nei giorni seguenti trascorse tutto tranquillo, avevo lo spirito giusto per fare gli acquisti di Natale e così vagai sola per il paese in cerca di regali.

Entrai in un negozio di intimo e comprai un completino rosso per Giorgia, poi un maglioncino azzurro per Francesco, un libro di Wilbur Smith per mamma e ordinai un mazzo di rose rosse da spedire alla mia amata nonna. Pensai anche ad un regalo per papà, ma non mi venne in mente nulla.

D’altronde lui avrebbe dovuto fare un regalo a me ma in quel momento non volevo pensarci, per giorni avevo vissuto chiusa nella mia angoscia e solo obbligando me stessa a svegliarmi da quell’oblio avevo trovato uno spiraglio di luce.

No, decisi che quell’anno non avrei regalato nulla a mio padre, in fin dei conti non se lo meritava e non se ne sarebbe accorto che non c’era alcun regalo per lui, è troppo impegnato nelle sue cose per pensare a questo.

Tornai a casa con il cappellino pieno di neve e il naso ghiacciato come al solito, fu un sollievo per me stendermi accanto al camino con Billa in braccio.

In quel momento mi chiamò Giò, risposi al secondo squillo: “Tesoooroo, ho una proposta da farti” come al solito non aspettava di sentire la mia voce, ma dava per scontato che rispondessi sempre io al telefono.

“Sentiamo”. “Tu e io, cenetta al ristorante e poi bar… che ne dici?”. “Ma così, durante la settimana?”. “Siamo in vacanza! Dai forza non essere passiva, ti sento proprio giù in questi giorni e a dire la verità non ti vedo da giorni!” E accentuò quest’ultima frase come se volesse farmi sentire in colpa; era vero in fin dei conti, non la vedevo da giorni ed essendo abituate a vederci tutti i giorni era davvero troppo.

Ma sì, una cenetta ci stava. Le risposi di darmi almeno mezz’ora per prepararmi e sarei passata per casa sua.

Mi feci una doccia veloce e cominciai a vestirmi: vestitino nero corto con collant scuri e stivali alti fino al ginocchio, poi mi truccai leggera e misi la schiuma tra i capelli. Perfetta. Mi mancava solo la borsa, presi chiavi, sigarette e portafoglio e misi tutto dentro.

Ero già uscita di casa quando mi accorsi che non avevo preso i soldi, tornai a casa e trovai mia madre intenta a cucinare, mio padre seduto a guardare la tv.

Chiesi ad alta voce: “Ho bisogno di soldi, devo uscire con Giorgia” Mia madre non rispose, questo non era mai stato affar suo, mio padre si girò e mi guardò fissa per un po’.

“Quanto ti serve?” Il cuore mi batteva forte e lo stomaco si arrotolava su se stesso.

Sembra strano ma da quel giorno non gli avevo più rivolto la parola, sebbene lo vedessi nella mia stessa casa, tutti i giorni seguenti avevo fatto finta che lui non ci fosse, al massimo gli dicevo il buongiorno. E nemmeno lui se n’era preoccupato più di tanto.

In quel momento invece avrei dovuto rivolgergli la parola e avrebbe voluto anche spiegazioni, ne ero certa.

“Almeno venti”. Si alzò dal divano e uscì il suo portafoglio fuori dalla tasca dei pantaloni, mi pose in mano una banconota e mi guardò ancora. Mi dava fastidio, tremendamente.

“È necessario che tu metta questi vestitini corti anche d’inverno? Il tuo ragazzo non è geloso?”

Cercai di mantenere la calma e risposi dopo aver contato fino a dieci: “Non devo andare da nessuna parte in particolare e non mi vedrà nessuno, quindi non c’è motivo di essere gelosi”

Mi guardò un po’storto ma mi lascio uscire liberamente. Per strada il mio cuore continuava a battere, sentivo che i nervi volevano uscire fuori dalla testa, dalle orecchie, dalla bocca.

Ero tutto un fremito e non riuscivo a calmarmi.

Ci mancava solo la sua gelosia del cavolo. Tutto quello che mi stava accadendo non aveva senso, la sua gelosia non aveva senso. Non doveva esser affar suo come mi vestivo, dove andavo o con chi uscivo. Non doveva essere così, non era nella sua natura.

Lo odiavo, lo odiavo tremendamente e avrei preferito mille volte che se fosse andato via di casa piuttosto che vedere la sua faccia in giro, solo per farmi irritare.

Il cuore mi tremò e cominciarono ad uscire fiumi di lacrime dai miei occhi senza che io lo volessi.

Presi un fazzoletto dalla borsa e mi asciugai, per scaricare i nervi accesi una sigaretta, anche se ero per strada e qualcuno avrebbe potuto vedermi e dirlo ai miei non mi importava.

Alla fine della sigaretta i miei nervi si erano saldati e anche i miei occhi non lacrimavano più. Arrivai a casa di Giò e lei scese immediatamente.

La vidi dopo giorni durante i quali l’avevo sentita solo al telefono, bella più che mai, con un cappottino beige e gli stivali di camoscio. Le corsi incontro e la abbracciai.

Lei reagì un po’ stupita al mio abbraccio ma subito dopo lo fece anche lei, mentre ridendo forte mi chiese: “Che ti prende, hai bisogno di coccole?” In quel momento avrei voluto rispondere che sì, avevo bisogno di affetto ma mi limitai a fare un cenno con il capo e sussurrarle: “Mi sei mancata”.

Lei sorrise e mi diede un bacio sulla fronte. Intanto scese sua madre e ci mettemmo entrambe nella Delta, ci accompagnò fino al ristorante e ci fece promettere che saremmo tornate presto a casa.

Il ristorante non era dei migliori, la musica era lenta e il locale abbastanza vuoto ma perlomeno si mangiava bene. A tavola non parlammo molto, ogni tanto Giò mi guardava come se mi volesse chiedere qualcosa ma io abbassavo lo sguardo e la evitavo.

Arrendendosi poi passò a parlarmi di Leo, il suo nuovo ragazzo; era molto contenta di stare con lui e lo capivo dai suoi occhi.

Mi disse che in quei giorni in cui non ero stata con lei erano cambiate molte cose fra di loro, erano persino riusciti a dirsi ti amo.

Ero molto contenta per lei, ma la mia felicità non riusciva a trasparire né dai miei occhi, né da nessun’altra parte; avrei voluto sorriderle a trentadue denti e abbracciarla forte, ma sembrava che la mia mente me lo impedisse.

Comunque si accontentò del mio: “Sono contenta per te” e non disse nient’altro.

Pagammo il conto e uscimmo fuori dal locale, ci incamminammo verso il bar. Durante il tragitto, Giorgia riuscì a farmi ridere come una pazza perché mi raccontò le figure che aveva fatto nei primi tempi davanti a Leo.

“Stavamo camminando per strada e io avevo indosso quelle scarpe scamosciate nere, col tacco di undici centimetri, per scherzare gli dissi, ora vuoi vedere che vado a centro strada e mi faccio mettere sotto? Scendendo dal marciapiede persi l’equilibrio e caddi col sedere per terra e la testa in direzione della strada. Leo si mise ad urlare come un pazzo, perché proprio in quel momento stava passando una macchina per la strada e per fortuna che rallentò in tempo, altrimenti ti saresti ritrovata un’amica con la testa spiaccicata come E.T.”.

“Oppure un altro giorno eravamo nella macchina e Leo aveva portato uno spumante per festeggiare non ricordo cosa, appena ho aperto lo spumante è caduto sporcando tutti i sedili e lui quasi quasi si voleva mettere a piangere perché aveva appena lavato la macchina.

Come se non bastasse una volta, bevuto lo spumante passammo sui sedili di dietro per non sporcarci i vestiti e mentre mi stava dando un bacio sulla bocca sai cosa è successo? Mi è scappato un rutto! Tutte quelle bollicine mi avevano fatto male e ancora arrossisco oggi se penso a quante risate si è fatto! Cioè ma ti rendi conto?”

“Avrà capito già da ora che non sei la solita ragazza precisina ed elegante ma che ogni tanto sai uscire anche il maschiaccio che c’è in te!”

“Ma io non sono un maschiaccio” ribattè, “Oh io dico di sì! Ti conosco da sedici anni e lo sei”.

“Vabbè vabbè faccio finta di non aver sentito, altrimenti ti ci butto anche a te con la testa in mezzo alla strada!”

Ridendo arrivammo davanti alla porta del bar, c’era molta gente e da fuori si sentiva la musica a palla.

Entrammo facendoci spazio tra la folla e tenendoci per mano, arrivammo al bancone e ordinammo due cocktail alla fragola; riuscimmo a trovare un tavolino dove sederci.

Intanto Vasco cantava “Ti prendo e ti porto via” e io e Giò cominciammo a ballare da sedute, come due sceme e guardandoci scoppiammo a ridere perché stavamo facendo le stesse mosse senza rendercene conto.

Passammo ad un altro cocktail alla fragola e infine un bicchierino di amaro, uscimmo fuori ridendo senza motivo, sicuramente colpa dell’alcool.

Ci incamminammo sulla strada quando all’improvviso Giò si mise ad urlare esageratamente: “La mia borsa!”

E senza dire nulla cominciò a correre verso il locale, io la seguii a passo lento e quando entrai dentro la vidi affannarsi perché non riusciva più a trovarla.

Le andai vicino e le dissi che probabilmente l’aveva lasciata al bancone quando era andata a pagare; mentre mi dirigevo in quella direzione vidi un uomo sulla trentina che portava in mano la borsa di Giò.

Lo seguii fin fuori la porta e quando potei parlare liberamente senza che la musica forte sovrastasse la mia voce gli dissi: “Ehi, quella è la borsa della mia amica!”

Lui mi guardò fisso e alzò il sopracciglio, dopo un po’ mi disse: “Ah ecco, vi stavo cercando” e mi porse la borsa.

Le nostre mani si incrociarono e io provai come una sensazione di fastidio poi alzai lo sguardo e lo guardai negli occhi.

Capelli neri e lunghi, occhi scuri e corporatura magra. Indossava un pantalone beige e un giubbino nero. Quello stesso giubbino nero.

In un attimo rividi quella scena nella mia mente, sbattei forte gli occhi ed emisi un profondo sospiro, un sospiro pieno di paura e di odio.

Nel frattempo arrivò Giò che si riprese la sua borsa dicendo: “Eccoti finalmente tesoro, giuro che non ti abbandonerò mai più!”

L’alcool aveva fatto palesemente il suo effetto anche perché poi Giò abbracciò forte la borsa a se e cominciò a baciarla.

L’uomo mi guardò di nuovo negli occhi e mi disse:” Non sembra che la tua amica si senta bene, vuoi che vi dia un passaggio?”

I miei occhi si riempirono di rabbia, lo sentivo dal caos che provavo nel mio cervello e che sembrava volesse uscire dalle orecchie.

“Non di certo abbiamo bisogno di te! La mia amica sa cavarsela da sola”, urlai con tutta la rabbia che avevo dentro.

L’uomo mi guardò con la faccia ancora più estraniata e mi disse che avrei dovuto portare rispetto alle persone più grandi di me che in fin dei conti volevano solo essere gentili.

Giò ci guardava increduli non capendo quello che stesse succedendo ed io scoppiai di nuovo ad urlare contro di lui.

Sentivo il corpo che tremava tutto, le lacrime che si trattenevano a scendere e un groppo alla gola che mi faceva malissimo.

Gli dissi che era una persona spregevole, che doveva farsi i fatti suoi e lasciare che gli altri vivessero la loro vita senza mai intromettersi.

Se ne andò allibito, forse non capendo il motivo di tutta quella rabbia.

Intanto Giò aveva chiamato Leo che era arrivato con la macchina e mi disse di salire con lei, le forze mi avevano abbandonata e cominciai a piangere a dirotto senza mostrare una minima alterazione del viso, come se il mio corpo sentisse il naturale bisogno di piangere.

Da quel momento in poi ricordo solo che urlai contro Leo e Giò e dissi loro che sarei tornata a casa da sola perché ero abbastanza grande per farlo.

Dopo aver insistito parecchie volte se ne andarono ed io entrai nel bar di nuovo. Ero senza soldi ma avevo voglia di dimenticare.

Non mi era mai capitato di ubriacarmi davvero prima di quel momento ma quella sera evidentemente successe perché non ricordo nulla di quello che feci, chi mi pagò da bere e  come feci a tornare a casa.

Ricordo solo che il mattino seguente avevo un mal di testa tremendo e in casa c’era un’aria strana, tipo il giorno del tuo compleanno o il giorno di Natale e di Pasqua, quando ti senti più felice senza un motivo preciso.

Mamma stava preparando il sugo, papà non era in casa fortunatamente e Billa giocava con le palline dell’albero; erano le dieci e mezzo del mattino e non mi sembrava troppo tardi per fare colazione.

Presi una tazza, una tovaglietta i miei biscotti, riscaldai il latte e cominciai a mangiare. Dopo dieci minuti mia madre non mi aveva ancora rivolto la parola, non mi aveva neanche sgridata per non averle detto buongiorno.

Le chiesi: “Where is the problem?”. “Lo vuoi sapere il vero problema?” Urlò come non aveva mai fatto “è che a sedici anni torni alle due di notte ubriaca fradicia facendoti accompagnare da uno sconosciuto così grande che potrebbe essere tuo padre!”

Il mio cuore fece mille salti in avanti e altri mille indietro, la testa cominciò a ronzarmi come un alveare impazzito e cercai di fare mente locale di quello che poteva essere successo.

No. Non poteva essere lui. Mia madre continuava ad urlare, ma non le davo molto ascolto. Mi alzai dalla sedia e mi diressi nello specchio in salotto, mi guardai gli occhi, avevo pianto.

Improvvisamente mia madre mi venne vicino, mi abbracciò da dietro e riflessi nello specchio di fronte a noi vidi i suoi occhi, mi accorsi del suo viso che prima non avevo notato.

Cominciò ad urlare, forte, come una di quelle pazze che si vedono nei film rinchiuse in un manicomio per aver ucciso il loro figlio. Intanto si stringeva a me, ai miei fianchi, si aggrappava come se stesse per scivolare. Mi fece quasi male e d’istinto mi girai per abbracciarla, non l’avevo mai vista in quelle condizioni e non riuscivo a capire cosa le facesse così male.

Stemmo in quel modo per cinque minuti buoni, improvvisamente nella mia mente si fece chiaro il motivo per cui piangeva.

“Mamma, mamma perché piangi?”. Urlò ancora più forte e le ripetei la domanda, il cuore mi batteva talmente forte che le gambe non ressero più.

Caddi per terra e lei mi seguì. Cominciai ad urlare anch’io, senza che mi avesse detto nulla capii cosa era successo, perché mio padre non era in casa e c’era quell’aria strana.

Dopo un po’ci sedemmo entrambe a tavola e senza dire niente mi sbuccio una mela, sapeva che mi piacevano.

Di tanto in tanto le usciva una lacrima e io non potevo fare a meno di piangere con lei. Mi venne vicino e mi strinse le mani, sembrava più tranquilla, infatti mi fece la domanda che da tempo mi aspettavo: “Dimmi come lo hai saputo”.

La mia mente ripercorse quei momenti, tornò di nuovo in quel giorno di inizio dicembre, dove per caso ho scoperto ciò che mi avrebbe cambiato la vita per sempre.

Quel giorno nevicava e prima di fare il mio solito giro mensile dei negozi mi accorsi che mi mancavano dei soldi, avrei voluto prendere dei quaderni che mi servivano per la scuola e un paio di orecchini dei quali mi ero innamorata.

Andai all’ufficio di mio padre per chiedergliene un po’.

Non mi è mai piaciuto il suo ufficio, troppo grigio e scuro, le tendine bianche scorrevoli e le sedie girevoli rosse non intonate con i tavoli blu elettrico. Mio padre era un contabile dall’età di diciotto anni.

Gli era sempre piaciuto il suo lavoro e in tutto quel tempo non se ne era mai lamentato. Arrivai davanti al bancone della segretaria dell’ufficio, una donna bionda tinta con un tailleur troppo elegante per i miei gusti; mi disse che papà era uscito a fare una commissione, ma che avrei potuto aspettarlo lì.

Decisi di fare un giro del palazzo, in fin dei conti la neve mi piaceva anche se detestavo il freddo.

Uscii dalla porta principale e cominciai ad incamminarmi verso la strada, c’erano poche persone quel giorno, andai verso un bar e cominciai le mie spese con un cornetto alla crema e succo alla pesca e mango, il mio preferito.

Poi guardai qualche vetrina sulla stessa strada, vidi un vestito stupendo, rosso fuoco con abbinate un paio di decollète nere e rosse, centoventi euro, davvero troppo per le mie tasche.

Mi rassegnai al fatto che non avrei mai potuto avere roba simile, a meno che non avrei sposato un uomo ricco, cosa molto improbabile perché li ho sempre odiati. Francesco era un ragazzo semplice, veniva da una famiglia modesta come la mia e sinceramente andavo fiera di ciò.

Continuai a camminare per i negozi finchè guardando l’orologio non mi accorsi che era l’ora di tornare indietro.

Ripercorsi tutta la strada e tornai in ufficio; l’ascensore era bloccato ed ero molto scocciata di dover fare tre piani a piedi.

Al secondo piano mi fermai a guardare attraverso una piccola finestrella di una stanza adibita forse a sgabuzzino.

Riconobbi mio padre, aveva indosso la sua solita camicia bianca e guardava dritto davanti a sé.

Probabilmente sta parlando con qualcuno, mi dissi, ma perché dovrebbe farlo in uno sgabuzzino?

Lui non mi vide e fu meglio così, subito dopo mi accorsi che con lui c’era un uomo, si era avvicinato lentamente a papà, guardandolo con la testa piegata.

Nel giro di una decina di secondi mio padre e quest’uomo erano abbracciati, cominciai a sentire una strana sensazione invadere tutte le parti del mio corpo.

Subito dopo si baciarono… sbarrai gli occhi e trattenni il respiro, la stessa sensazione ora era diventata un bruciore, un qualcosa che mi corrodeva corpo e anima.

D’istinto mi nascosi la testa tra le mani, come per non voler vedere. Cominciai a piangere senza essermi resa realmente conto di quanto stesse accadendo.

Mio padre era omosessuale e per di più tradiva mia madre.

Si dice che quando vedi la tua vita scorrerti davanti agli occhi stai morendo, io vedevo i miei ricordi da bambina, le mille gita in famiglia e le passeggiate fatte per strada con una mano a mio padre e una a mia madre, forse in quel momento era arrivata la fine, la morte di mio padre e anche la mia.

Corsi via piangendo con il cuore a mille; la casa di Giò non era lontana ma a me sembrò un percorso eterno, senza fine.

Piansi per tutto il tempo e pensai a come sarebbe cambiata la mia vita, a quanto avrei sofferto.

Arrivai sotto il suo portone senza fiato, aspettai prima di suonare al citofono per riprendere a respirare, maledette sigarette.

A mamma non tralasciai nemmeno un particolare, ascoltando il mio racconto non poteva fare a meno di piangere e tenersi il viso tra le mani, le accarezzai dolcemente la mano e le dissi: “Ora ci siamo io e te e sai che non ti abbandonerei per niente al mondo”.

“Grazie piccola mia”.

Sono passati tre anni da quel giorno ed oggi sono seduta nell’aula di attesa del tribunale per testimoniare a una delle tante udienze.

Per le prime due settimane è rimasto a casa, non rivolgendo la parola né a me, né a mamma, a tavola c’era un silenzio imbarazzante e di notte lui dormiva sul divano.

Dopo se n’è andato di casa ed ha vissuto a casa di sua madre e sua sorella.

In tutto questo tempo ho rivisto mio padre solo nei fine settimana e tutte le mattine quando mi accompagnava a scuola.

Il nostro rapporto si è lasciato trasportare dall’imbarazzo e dal nervosismo e non abbiamo mai parlato a lungo; gli raccontavo quello che facevo a scuola e al massimo qualche novità con Francesco.

Della sua vita privata non abbiamo nemmeno mai accennato, credo che continui a stare con quello lì e sinceramente non me ne importa.

Tra un po’entrerò in aula e sarò costretta a vedere la faccia sconsolata di mia madre e quella pensierosa di mio padre per l’ennesima volta.

Ho perso la maggior parte della pazienza e spero che tutta questa storia finisca subito, spero che arrivino al divorzio e io possa continuare a vivere in pace.

Ho passato tanti giorni chiusi a piangere nella mia stanza, col pensiero che tutto quello che stesse accadendo fosse colpa mia perché se non mi fossi ubriacata quella sera non avrei mai rivelato la verità, mia madre mi veniva a consolare ogni volta, come se a lei la cosa non toccasse più di tanto.

Io credo che semplicemente ci ha fatto l’abitudine e sentire parlare di quell’argomento non la turbi come prima, anche se sotto sotto ci soffre ancora, ci metterei la mano sul fuoco.

Davanti a me passa il giudice, ormai è diventato mio amico e mi saluta con la mano, mi dice che manca ancora un po’all’inizio.

Allora decido di sentire il mio i-Pod, accendo e metto casuale… dopo aver sentito i Coldplay, capita la nuova canzone di Noemi “Sono solo parole”.

È la prima volta che la sento nella versione cantata da lei perché ovviamente la preferisco cantata da Fabrizio Moro che è il mio cantane preferito.

La musica mi invade tutta e mi sento come sotto il getto dell’acqua calda, per la prima volta mi concentro sulle parole:

         Avere l’impressione di restare sempre al punto di partenza

         e chiudere la porta per lasciare il mondo fuori dalla stanza,

         considerare che sei la ragione per cui io vivo questo è o non

         è amore?

         Cercare un equilibrio che svanisce ogni volta che parliamo

         e fingersi felici di una vita che non è come vogliamo e poi

         lasciare che la nostalgia passi da sola e prenderti le mani e

         dirti ancora:

         Sono solo parole…

 

Improvvisamente mi viene in mente lui… mio padre. Non è questo quello che sento? La sensazione che provo è la stessa del primo giorno ed inevitabilmente mi chiudo in camera per sfogarmi.

Tra me e lui non c’è dialogo, ma come dice la canzone cerchiamo un equilibrio che non c’è.

È incredibile… vado avanti.

         Sperare che domani arrivi in fretta e che svanisca ogni

         pensiero.

         Lasciare che lo scorrere del tempo renda tutto un po’ più

         chiaro, perché la nostra vita in fondo non è nient’altro che

         un attimo eterno. Tra me e te sono solo parole.

         E ora penso che il tempo che ho passato con te ha cambiato

         per sempre ogni parte di me.

         Tu sei stanco di tutto e io non so cosa dire, non troviamo

         il motivo neanche per litigare.

         Siamo troppo distanti, distanti tra noi, ma le sento un

         po’mie le paure che hai.

         Vorrei stringerti forte e dirti che non è niente, posso solo

         ripeterti ancora sono solo parole.

 

Anch’io spero che il mio domani arrivi in fretta e che riesca a dimenticare tutto il dolore che sento.

D’improvviso vedo che mio padre sta entrando dalla porta, metto in pausa la musica e lo guardo arrivarmi incontro.

Quando mi è di fronte mi saluta e io lo guardo negli occhi; mi viene in mente quel giorno quando per la prima volta dopo che se ne andò di casa cercò di parlarmi in macchina e ricordo che mi disse: “Spero che fra me e te non cambi niente

Valentina, per niente al mondo vorrei perdere mia figlia, so che quello che ha fatto non ha giustificazioni ma credimi non ho mai avuto intenzione di ferire né te né la mamma” poi mi prese la mano e ma la baciò “spero anche che un giorno riuscirai a perdonarmi”; a quel punto scesi di scatto dalla macchina e corsi verso scuola.

Quel giorno non ascoltai bene le sue parole ma in quel momento, con la musica di sottofondo e quelle parole che sembra portino il nome mio e di mio padre capisco.

Capisco che forse non è cosi come ho voluto pensarlo io, capisco che è mio padre e che effettivamente il tempo che ho passato con lui fino a quel momento, ha segnato la mia vita.

Non è nient’altro che mio padre e se siamo così distanti ora e non abbiamo niente da dirci è colpa mia.

Avrei dovuto capire, avrei dovuto immaginare che anche lui forse ha avuto paura ed ha sofferto ed io, come una sciocca, ho trovato il tempo solo di odiarlo.

Ho sbagliato mentre credevo che a sbagliare fosse stato solo lui.

Lontano da tutti i problemi, le lacrime e le bugie lui era sempre mio padre e io sempre sua figlia.

Un fitta calda mi invade il cuore e mi fa venire i brividi; di fronte a me un paio di occhi identici ai miei mi fissano e aspettano qualcosa, una risposta, un sorriso, un perdono.

In quel momento so di averlo fatto, di esser riuscita a dargli ciò che lui desiderava. Sorrido contenta di me stessa e mi alzo, lui piega la testa di lato non capendo e io mi avvicino sempre di più, gli arrivo davanti e gli circondo il collo con le braccia; sento un fremito e dopo pochi secondi anche lui mi abbraccia forte e mi sento finalmente protetta, come desideravo.

Tutti i pensieri sono svaniti e tra le lacrime trovo soltanto il fiato di dirgli: “Non andartene mai più”.