I racconti del Premio letterario Energheia

Petrolio_Onofrio Arpino, Santeramo(BA)

_Racconto vincitore sesta edizione Premio Energheia 2000.

Aliano.

La strada per Aliano si stacca dalla provinciale per Guardia, al bivio per Gorgoglione e Stigliano, e sale, con continui ritorcimenti, fino al punto più alto di una spalla di creta, per poi precipitare al centro del paese.

Il tempo, bianco fumo e aspro, preannuncia neve, anche se siamo alla metà di aprile. Mara mi accompagna fino all’ingresso dell’edificio, incuriosita quel tanto che sa di fugace dalle targhe di terracotta disseminate sui muri lungo la strada, e mi lascia sgommando verso Alianello. Ha fretta di mollarmi con la mia scelta, ha fretta di dilatare lo spazio fra noi. E intuisco, da qualche parte nella mia tristezza, che quella che vedo fuggire da me verso la “sua” terra promessa sta pensando alla distanza che ci separerà mentre io, che ancora non conosco la dimensione degli addii, sono fermo alla lontananza. Ho scelto la lontananza non per misurare con lucidità ciò che ci separa ma per provarmi in una condizione di privazione, nella mancanza di ciò che si è tenuto fra le braccia.

Di lei mi rimane un rombo di motore insieme alle note amare del profumo di donne fuggenti.

Il direttore dice che la classe aspetta il nuovo maestro, informandomi che il team, per vicissitudini varie, sarà ricostituito al più presto, e mi fa accompagnare dal bidello sull’uscio dell’aula, in fondo a un corridoio pieno del fumo di una stufa a legna.

La porta che si chiude alle mie spalle lascia fuori il mondo che conosco; quello davanti me, nonostante i pochi studi di pedagogia e psicologia, mi è sconosciuto.

Il mio primo incarico di maestro, supplente per un mese di un tale Vizzini, assente per depressione, inizia con una stretta al cuore: guardando i volti dei fanciulli della quarta “A” mi accorgo che uno di loro è down mentre un altro, fermo in un angolo, ha lo sguardo assente e dondola avanti e indietro, in un castigo che nessuno ha voluto.

Mi sento improvvisamente perso e lancio un pensiero a Mara, alla équipe di cui fa parte, alla loro voglia di cose perfette e funzionali, dove non c’è posto per down ed handicap.

«Maestro, da dove venite?» sento chiedere da una ragazzetta dall’aspetto più maturo rispetto al resto della classe.

Si chiama Carmela, vedo dalla piantina incollata sulla finca del registro. All’interno di rettangoli che rappresentano i banchi, ci sono i nomi degli occupanti.

Se non altro la domanda mi dà una mano. «Vengo da Matera e mi chiamo Silvio Turi» rispondo, con un sorriso senza felicità. «Turi è un paese della provincia di Bari, ma sono materano.»

«La Madonna della Bruna!» dice un ragazzetto con un fiocco azzurro sul grembiule blu stinto. E’ Tito, colonna quattro posto tre.

«I Sassi» aggiunge… Andrea. Ha gli occhi che sembrano gonfi per mancanza di sonno.

«Avete trovato il petrolio, a Matera?» chiede Carlo, un ragazzetto che esplode lentiggini.

«Non lo abbiamo ancora trovato, chissà forse in futuro» mi allineo furbescamente con la loro speranza ma in cuor mio spero di no. E’ per il petrolio che sto provando la lontananza da Mara, è per il petrolio che Mara pensa alla distanza come distacco, come abbandono definitivo. Mara ha la maturità dell’avventuriera al soldo di chi fa progetti grandiosi, spregiudicata interprete di un ruolo in carriera che utilizza principi di economia per prendere decisioni affettive mentre io mi sento ancora addosso l’immaturità dell’avventuroso.

«Qui ce l’abbiamo già.» Carlo è soddisfatto, quasi felice.

«Maestro, ci parlate del petrolio?» chiede, improvvisamente Carmela, la prima che mi ha rivolto la parola.

«Il maestro non ve ne aveva parlato?» domando, con altra furbizia, per sapere qualcosa del mio collega.

C’è un coro di no. Ma è il segno del dito portato alla tempia che mi fa capire come ho avuto la supplenza.

I vetri si sono appannati, nevica. I fiocchi errano e si perdono, al di sotto del davanzale di pietra. E’ un fenomeno che desterebbe stupore se non aspettassero una risposta. Aspettano che io, il nuovo maestro, unico maestro del team, dica qualcosa sul petrolio. Vorrei dire loro che nevica anche nel mio cuore ma non mi va di trascinarli in sentimenti che avranno tempo di provare per proprio conto. Dico, invece: «Prima del petrolio c’era la legna e poi il carbone»; e faccio una piccola storia, da piccolo maestro che non sa di scienze, dei passaggi nello sfruttamento delle materie prime e di ciò che ha comportato per l’uomo.

I bambini ascoltano attenti, trascurando le falde di neve che appaiono negli oblò magicamente apertisi nella panna sui vetri. Sono più bianche della luce livida del neon, più bianche dell’aria bianco fumo. A farle volteggiare nell’aula se ne avrebbe una sensazione di aperture estreme, di contiguità non proponibili, dove forse lo stupore per la nuova condizione, immagino, lì per lì, congelerebbe il dondolio di quel minuto ragazzo in fondo all’aula. E un maestro, sprovvisto di un impianto metodologico perché nessuno gliel’ha mai insegnato, potrebbe esercitare nel magismo la sua affannosa arte formativa.

«Maestro, perché il petrolio deve essere nero e la neve bianca?»

Non so rispondere a questa domanda e cerco di cavarmela con spiegazioni che spostano l’attenzione sul processo di produzione dell’uno, sotto terra (e penso all’inferno), e dell’altro, nei cieli (forse il paradiso).

«Se la neve fosse un combustibile saremmo tutti più ricchi» dice Tonio. Ha gli occhi neri neri, come il vincotto.

Questa storia della ricchezza mi offre l’estro per farli riflettere sul fatto che da quando abbiamo il petrolio, come ulteriore fonte di energia, siamo più ricchi di calore per riscaldarci o per far funzionare i nostri strumenti ma non è che abbiamo guadagnato molto in calore umano. La considerazione è di portata generale ma c’è un riferimento personale che non posso rivelare.

Così, dopo una breve differenziazione fra calore da combustibile e calore umano, mi industrio di assegnare un compito, “come può il petrolio aumentare il calore umano”, ristabilendo, almeno nelle buone intenzioni, quell’equilibrio affettivo che nella scuola, esasperatamente attenta alla dimensione del sapere, credo mancante.

Due ore, tra domande, correzioni, aiuti prestati un po’ a tutti. Giacomo, il down, ha la voce impastata dal suo male. Mi sono avvicinato per poterlo aiutare, lasciando l’altro in lista d’attesa, una specie di ingiusta graduatoria che mi fa ripromettere di dedicargli, dopo, più tempo.

Ha già dodici anni, Giacomo, leggo nel rigo accanto al nome. Di seguito, nei righi quadrettati al lato, c’è una avara ma lapidaria diagnosi: “Giacomo Stasi è un bambino affetto da sindrome di down, incompleto nella crescita intellettiva ma con buona sensibilità uditiva, disponibilità affettiva e imitativa.”

Sarebbe stato meglio non averlo letto, tanto non mi ha aperto alcuna prospettiva. Disegna, con tratto incerto, un ragazzo-uomo che tiene un termometro gigante sotto il braccio. Il calore umano, forse, è simile alla febbre. Cerco fuori, attraverso i vetri, un riferimento al mondo reale: un albero di ulivo che presto mostrerà i fiori ma che ora trema per la neve.

“Luigi Dote è un bambino autistico”, non riesco a sottrarmi dal leggere, quasi fossi in crisi di astinenza per un morbo che ha a che fare con le certificazioni patologiche – e rabbrividisco per il cognome – “che ripete facilmente le parole e i suoni, che ama la musica dolce ma non dimostra di gioirne… L’immobilità ha una causa di difficile definizione…” In quel momento penso che a ventiquattro anni non si può essere maestri, che si ha ancora bisogno di essere alunni, e rimuovo definitivamente l’idea che una condizione di stupore e di gioia, come il fioccare della neve sui banchi di un’aula, possa spezzare uno stato di esilio psicologico come quello di Luigi.

La classe che mi è toccata sembra un insieme di classi diverse. Si vuole sfidare il terzo Millennio temporeggiando nel nominare i supplenti, accorpando le scuole, mettendo insieme casi che richiedono una soluzione individuale differenziata, tanto differenziata che bisogna inventarsela sugli inutili flash del registro.

Mi avvicino a Luigi, sfiorandogli la spalla con una mano. Scatta su se stesso come se avesse ricevuto una scossa poi riprende a disegnare, dondolandosi avanti e indietro. Non voglio parlare, preferisco che senta la mia presenza, che in un certo senso si abitui a considerarmi una risorsa disponibile, uno spazio vicino allo spazio in cui tiene chiuso sé stesso, così sistemo il suo borsello dei colori, raccolgo e ordino i fogli sparsi sul banco. Lui continua a disegnare, qualcosa che va organizzandosi in una casa a cui arriva un tubo da sotto terra che forse porta petrolio. Mi fermo per vedere che il camino adesso fuma, che compare una macchina, un uomo con due braccia come pezzi di meccano, senza mani, protese ad avvolgere il corpo legnoso di un bambino. C’è del calore nel disegno, nel camino della casa che fuma.

Qualcuno mi scuote. Carmela ha finito e mi porta il compito, consegnandomelo con un gesto che mi fa pensare alla vergogna. Ciò che leggo, mentre abbandono Luigi, mi rende ancora più triste e infelice.

“ La cosa più bella è che mia sorella finirà di fare la serva. Corre tutto il santo giorno di qua e di là a fare tutti i lavori che mio padre che sta a Policoro e mia madre che sta nei campi non possono fare. Fa da mangiare, cura il maiale, fa la calza, cura il nonno e la nonna, impasta e porta il pane al forno, fa le focacce, rimbocca le coperte, e anche va a servire al padrone dei campi dove lavora mia madre, e quando torna ha sempre gli occhi lucidi e un regalo nuovo.

Coi soldi del petrolio io le darò il calore umano e un cappello e una pelliccia, e le farò passeggiare il corso, con una mano alla borsetta e una mano stretta alla mia mano. Mia sorella non andrà più a servire dal padrone, giuro.”

C’è una storia di violenza che Carmela sa o ha intuito. Come nel caporalato del Foggiano e del Salento. Carmela mi guarda dal banco, con gli “occhi neri che i pianti/d’infinite vigilie/fatto han vuoti”, mi suggerisce Carlo Levi. Forse aspetta che la chiami o che le rivolga qualche domanda. Mi studio di fingermi distratto e dopo un po’ lei pare sollevata e diventa allegra.

M’interrogo fino all’orario di uscita sull’opportunità di dare loro speranze di felicità o avvisi di delusioni. Così, intuitivamente, quando tutti consegnano, narro la storia di Dedalo e Icaro, della necessità di possedere le ali per sognare ma di stare attenti a non azzardare, a non uscire fuori dalla sicurezza data dal buon senso. Vorrei che camminino prima di tentare un qualche volo che li possa far precipitare. E mi accorgo, quando è già tardi, dell’ambiguità della mia comunicazione, del messaggio nascosto che suggerisce, implicitamente, di non denunciare lo stato delle cose. Mi riprometto di parlare con Carmela o con i genitori, appena li avrò conosciuti.

Non basta l’odore del caffè portatomi dal bidello per gentile ospitalità del direttore, nel frattempo tornato alla sede a cui la scuola è accorpata, per allontanare momentaneamente la tristezza. Neanche il pensiero di ritornare a casa ci riesce. L’impotenza urla dentro di me da un punto tanto lontano che ne immagino la voce, ma non ne capisco le parole.

La casa presa in fitto per il tramite di una immobiliare, a cui mio padre si è rivolto, è composta da una camera con soggiorno più il bagno. Voglio rimanerci un mese intero, per ora. Devo studiarmi nel ruolo di maestro, devo esercitarmi nella lontananza da Mara. Sul ripiano della credenza, c’è un numero di “La Voce dei Calanchi”. In prima pagina ci sono parole di speranza: “Presto a casa di Levi”. Aspettano finanziamenti CEE per ristrutturarla e hanno di sotto tanto denaro liquido che potrebbero rifarla d’oro. Lo sfoglio distrattamente e rimango colpito da un articolo che titola: “Petrolio a tutti, lavoro a nessuno”. Il senso è quello di una occasione mancata, un richiamo alla responsabilità di chi “deve”.

Esco. Per una capatina al bar. Ho bisogno di riconoscermi nelle nuove dimensioni dello spazio, di immergermi nel tessuto umano.

La neve se n’è andata in poco tempo, con lo scirocco che sale da Policoro.

Il bar è pieno di gente che chiacchiera e gioca a carte. Mi guardano come a studiarmi. Sanno che sono il nuovo maestro, supplente, che quindi non conto nulla. L’importanza che non vorrei, schivo come sono, me l’attribuisce il padre di Lucia, l’alunna dislessica. Ha fatto segno al barista che pagherà lui il caffè che ho preso e mi chiede se riuscirà mai la figlia a leggere speditamente. Lo informo che è un problema di lettere che ai suoi occhi sembrano uguali, tipo “b” e “d” oppure “f” e “l”, e che ciò è dovuto, in assenza di altre cause, al non aver vissuto, da piccola, lo stadio carponi, quando cioè il bambino si muove come un gatto, ciò che produce una coordinazione incrociata indispensabile per leggere correttamente. Il padre di Lucia è sorpreso, quasi sospettoso, quando gli suggerisco – l’idea non è mia ma di un luminare del settore – di far fare alla figlia esercizi di recupero di questo importante stadio della crescita facendola muovere gattonando, come i felini.

Il barista entra in conversazione dicendomi che lui ha fatto la scuola media presso il Conservatorio di Matera, che poi per la morte del padre ha dovuto far ritorno al paese. Ha una discreta cultura e ci tiene a dirmi che la maggior parte dei trentenni ha la terza media, che non hanno più lo “sconsolato complesso di inferiorità” che avevano al tempo di Levi ma solo la disperazione per la mancanza di lavoro.

«Non pensiamo più che “Cristo si è fermato a Eboli” ma che è arrivato a Viggiano,» prosegue, ironico, «dove ha fatto scoprire il petrolio. Adesso ci guardano con più rispetto e noi siamo tornati a essere cristiani.»

Si riferisce alla frase “Noi non siamo cristiani”, riportata da Levi per averlo sentito tante volte dalla gente di Aliano. Vorrei dire loro che cristiani lo sono sempre stati ma non mi va di curare le ferite degli altri quando sento aperte le mie.

A casa, davanti al camino che fa fumo, ho modo di riflettere sulla “… storia fuori della storia” ma anche sull’ipnosi omologante della TV, sulla promessa intrigante di Internet. Sbircio i compiti per leggere quello che mi stimola di più e piombo nel tragicomico.

“Mio zio è morto nel quarantatre e io non l’ha mai conosciuto”, scrive Piero. “Mia nonna era incinta e abitava a Alianello. La levatrice abitava qui a Aliano. Corri tu che corro io, si mise in viaggio per venire a Aliano. La strada era tortuosa, ripida e brecciolata. Nel tratto più brutto mia nonna partorì per strada e mio zio Angelo morì.

Il calore umano io lo vedo così. Coi soldi del petrolio voglio risolvere il problema delle strade. Metterò un ministro all’altezza dei trasporti e gli dirò: ministro, voglio andare alla val d’Agri, alla Saurina e Alianello in 5 minuti, che dico, 3 o ti licenzio. Mi farai una galleria di plastica trasparente poggiata sui fianchi dei calanchi e una funivia magnetica che prende le macchine e le porta su e giù. In 3 minuti o ti licenzio. Punto e basta.”

Mi sembra di vedere una soluzione tecnologica da cartone animato ma Piero era partito da un bisogno e aveva tentato di risolverlo, trasformando i soldi in calore umano. Forse era questa l’interpretazione giusta, forse così bisognava trattare i nostri politici perenni.

L’indomani porto i ragazzi in giro per le botteghe degli artigiani.

La voce si sparge in un baleno e le madri di Giacomo e di Luigi accorrono a prenderseli perché, mi dicono, non possono andare in giro.

Inutile fingere: mi sento sollevato.

Tutto il paese, che “si snodava come un verme attorno a un’unica strada in forte discesa”, è ancora lì. C’è ancora Aliano di Sopra e Aliano di Sotto, unite da quell’unica strada che si slarga in due piazzette, e che sembra finire nel precipizio della Fossa del Bersagliere. C’è ancora il fabbro, adattatosi a lavorare l’anticorodal, con cui cambia i connotati alle vecchie case di tufo. C’è ancora il cestaio ma è in crisi perché la plastica impera e i cesti si usano ormai solo per abbellimento. Per strada, parliamo dei nuovi lavori che il petrolio potrebbe favorire e al ritorno facciamo un compito.

Piero scrive che farà lo spaccista.

A me il petrolio non mi interessa come petrolio, tanto io sempre lo spaccista devo fare. Mio zio, a Rimini, fa il bagnino della stazione balneare. Affitta l’ombrellone e le sedie, dà le bibite e i gelati e ci guadagna da vivere.

Io non voglio fare lo stesso mestiere del venditore e dell’affittatore ma non voglio lasciare mia madre da sola nello spaccio che abbiamo. Mio padre dice che ha già preso tutte le fregature della vita. Così ha pensato che a noi il petrolio non interessa ma che interessa agli altri. La gente sarà curiosa di vedere le pompe e tutto il resto. Lui allora con pochi soldi può comprare un pezzo di calanco vecchio, proprio di fronte ai pozzi, scavare una terrazza e fare una specie di piazzolla da panorama. Servirebbe anche qualche cannocchiale per guardare e i tavolini per sedersi. E io devo fare: bibite, gelati, merendine, patatine, caffè, te, cappuccini, cornetti, panini, col prosciutto, colla soppressata, focaccine, pizzette, spremute, caramelle, leccalecca, salcicciotti, aranciate, spraite, orzate, ammazzacaffè, ebbastaaaaaaaa…

Mi fa sorridere, alzando di un tono il mio umore ma poi si affaccia alla porta la mamma di Carmela, convocata per mezzo del bidello, e l’umore sprofonda a quote bassissime.

Usciamo nel corridoio e le mostro il compito. Lei lo legge poi mi assicura che il padrone è buono e non è come penso io. E’ così determinata che faccio finta di crederle. Va via che pare sollevata e forse lo sono anch’io.

Dopo un pranzo leggero a base di piselli surgelati, cipolla rosolata e pepe, scelgo un altro compito. E’ di Mimmo, quello con la voglia su un orecchio.

“Da grande voglio fare il petroliere. Non è un mestiere da tutti e per tutti. Da tutti perché ci vuole un certo fiuto, e io l’odore del petrolio, quando tira dall’Agri, lo sento.

Per tutti perché non tutti possono diventare petrolieri.

Mia nonna Prudenzia, perché ne ho due tutte belle e scoppiano di salute, dice che da tutti i paesi passava un uomo con un mulo con una botticella, non di vino, non di olio, non di candeggina. Era di petrolio. Lo vendeva con un misurino, lire due, e serviva ad accendere i lumi. Non si sa da dove veniva e da dove lo prendeva.

Da lontano però. Bari forse.

Però io dico che quell’uomo l’aveva trovato qui, scavando con la zappa, e non lo diceva a nessuno.

Io invece comprerò un’autocisterna e girerò per i paesi. A quanto costa la corrente, lo venderò sfuso o in lattine di plastica e il mio prezzo sarà più basso degli altri. E se un altro petroliere lo vende a lire 1000 io a 990.

Sarà un nuovo secolo dei lumi.”

Per quelle incredibili associazioni che solo un ragazzo può fare, l’illuminismo sarebbe ritornato come neoilluminismo, grazie ai lumi a petrolio.

Al tramonto, per un inaspettato scollamento della suola, esco a cercare un calzolaio. Anch’io mi sento così: scollato da ciò che mi è necessario.

Il sole cala oltre i burroni e le valli, verso Sant’Arcangelo. Non c’è traccia dei contadini descritti da Levi, così come dei loro padroni.

Non c’è più differenza nei vestiti: vestono uguali, come nelle città. La televisione propone, il mercato applica, l’uomo si adegua.

Il calzolaio è un omino secco, duro come il cuoio che lavora. Mette la scarpa sulla pianta e inchioda la tomaia alla suola. Il rumore è tipico di ogni calzolaio provetto: una battuta per sistemare il chiodo, una per infilarlo a metà, le successive tre per perfezionare il lavoro. Su una mensola campeggiano i libri di Albino Pierro e Rocco Scotellaro. Vedendo il mio sguardo indugiare, si preoccupa di informarmi, con orgoglio, che sebbene abbia la quinta elementare sa apprezzare la poesia.

«Anche lei per il petrolio?» domanda, con fare curioso. Non gli piace il liquido nero e si sente sollevato quando gli dico che per me è lo stesso. «Stai a vedere che se faranno la bistecca dal petrolio saremo i primi ad assaggiarla» aggiunge. E’ sarcasmo, duro. «Qui siamo cavie naturali perché in noi non c’è niente di premeditato, di progettato; siamo inintenzionali, come la venuta di questo petrolio.»

Chiedo della farmacia – la gastrite mi brucia quando le cose non mi vanno bene, lo stomaco è il mio organo bersaglio – e mi avvisa, allegro, che se cerco supposte non le troverò perché, avendolo sempre preso in quel posto, non gli va di farlo per loro scelta.

Il farmacista ha la stessa disponibilità dell’inquirente. Le preoccupazioni per il mio stomaco nascondono la curiosità per il nuovo arrivato, compreso la mia origine, la mia adattabilità al cambiamento d’aria e così via.

Mi trattengo un po’ perché tutto sommato posso essere io a utilizzarlo per ottenere delle informazioni. Non ci sono nevrosi eclatanti o particolari ma il petrolio è una miccia, confessa il farmacista, una speranza che a venir meno farebbe esplodere le nevrosi covate per tanti anni. I cambiamenti, dice, qui non avvengono per innovazione ma per consumazione.

Poiché le uscite vanno avanti da un mese e sono malviste, concordo con i ragazzi di incontrarci il pomeriggio – è ormai maggio e fa più caldo del previsto, quasi da estate – fuori della casa di Levi, rimproverandomi di non essere riuscito a far nulla per Giacomo e Luigi tranne che di far sentire loro tiepide carezze. Giacomo perde i righi e gli allineamenti e non distingue il quadrato dal rettangolo. Luigi fa rapidamente le addizioni e sottrazioni ma disegna sopra ai numeri le note di una musica che solo lui conosce.

Nella casa di Levi ci sono strumenti della quotidianità contadina e i quadri che lui ha dipinto ma occorre un buon restauro per valorizzarla.

Dopo averla visitata, ci appoggiamo al muretto dove lui è sicuramente stato affacciato alla brezza che viene dal mare lungo la Val d’Agri. “… l’ombra avvolge i monti viola e neri che stringono d’ognintorno l’orizzonte. Brillano le prime stelle, scintillano di là dall’Agri i lumi di Sant’Arcangelo…

Ora i campi di orzo fra i calanchi si accendono di piccole luci.

A volte le lucciole sciamano con i capricci della brezza, a volte s’involano a curiosare fino al muretto. Racconto loro che da bambino rinchiudevo le lucciole in un bicchiere per farne un lampioncino con cui illuminare un castello di cartone, e questo ricordo mi riporta a Mara, alla sua voglia di rinchiudere i piccoli fuochi del petrolio in una fucina che fabbrica monete.

Stiamo tutti lì, a guardare, stretti tra noi per il miglioramento della nostra relazione comunicativa e affettiva. Da dietro un muro, che era stato di recinzione di un piccolo orto, esce un uomo che mi guarda quasi con minaccia. Si crede il padrone del luogo e intuisco, non senza sorprendermi, che deve essere stato così nei tempi passati.

I ragazzi sanno, per sentito dire, di un grande scrittore confinato che ha scritto un libro su di loro e l’indomani racconto in generale il romanzo “Cristo si è fermato a Eboli”, e parlo dei personaggi, poi chiedo loro di fare un compito che parli del petrolio e del libro.

“Cristo si è fermato a Eboli per modo di dire. Cristo è Cristo e sta in cielo, in terra e dappertutto. Il dottor Carlo Levi voleva dire che si è dimenticato di noi, invece no, lui non si dimentica di nessuno.

Levi è venuto, ha preso casa su a Collina e ha detto: Signori, non c’è solo il prete e la mammana, ci sono anch’io, medico ma non lo voglio fare. Mio nonno ce l’aveva con lui perché di tutti noi ha detto delle cose.

Ma Cristo smentisce tutti.

Per fare il petrolio mica ci vuole un giorno! Il maestro ha detto milioni di anni. Lui invece, facendo il conto da quando è venuto Levi, neanche settant’anni. Mia nonna dice che è un altro miracolo di Cana.

L’acqua delle dighe, che non ci arricchisce, Cristo la trasforma zitto zitto in petrolio.

Il petrolio però ci deve fare più buoni, altrimenti Cristo si arrabbia e con un antimiracolo di Cana ce lo trasforma in acqua.”

Il giorno dopo, approfittando del tempo splendido e contro il rimprovero muto del bidello che pensa che la scuola è fatta, per passarla dietro i banchi, scendiamo giù alla fiumara, portando con noi Giacomo e Luigi prima che le madri vengano a prenderseli.

Si scopre la flora locale, la piccola fauna che ci vive vicino, un albero di ciliegie inarrivabile. I ragazzi fanno barchette di carta e le affidano al rivolo d’acqua. Le guardiamo scomparire e ci viene in mente di affidare alle barchette dei messaggi. I ragazzi li scrivono prontamente, poggiandosi l’uno sulle spalle dell’altro, poi li staccano da sé stessi con un rito che somiglia a un addio. Giacomo batte la mani felice, Luigi batte il ritmo con un tempo da musica techno.

Li sollecito a domandarsi dove va a finire l’acqua del rivolo e si parla di dighe e di infiltrazioni.

«Maestro, io ho paura» dice Piero, serio. «Noi abbiamo troppe dighe, come a Gannano, a Pertusillo. Se l’acqua filtra giù come un colino ce lo annacqua tutto e addio.»

Si riferisce al petrolio, naturalmente, e io non so più cosa farne delle barchette di carta che conservo per farle scivolare sull’acqua durante le piogge dei temporali.

Tito si è portato due fette di pancarré con dentro uno strato di soppressata. Me la offre con un gesto e ne prendo un pezzo. Sa di antichi sapori, è davvero buona. Tito, rubicondo, spiega a tutti che la soppressata deve stare oppressa con dei pesi, dentro una camicia di forza.

«Per questo,» scherza Mario, «noi facciamo le soppressate: perché siamo stati sempre oppressi e soppressati da tutti.»

E’ una battutaccia che mette buon umore, e si scherniscono l’un l’altro. Ma anche il petrolio annacquato non è male. E stringo le mani di Giacomo, alla mia sinistra, e di Luigi, alla mia destra. D’un tratto sbuca Matteo con la camicia sbottonata e gonfia. Alla vista delle ciliegie dell’albero inarrivabile, i ragazzi gli si lanciano addosso ma il primo pensiero è di portarne a Giacomo e a Luigi. Guardo da un’altra parte per non mostrare i miei occhi lucidi.

Di ritorno a scuola si parla dei paesi che fiancheggiano la Val d’Agri.

Pongo alla loro attenzione che il petrolio alimenta le speranze di tutti, che anche agli altri paesi spetterebbe la loro parte.

«Per me ci sarà una guerra tra gli alianesi e i paesi vicini» dice Mimmo, preoccupato. «Sono tutti saddamisti e cominceranno a dire: il petrolio è mio e faccio ciò che dico io, ti spacco la faccia, ti spacco il culo, se lo tocchi ti taglio le mani, e ci invaderanno per prendersi tutto il petrolio. Se non siamo pronti faremo come l’Arabia.»

«Però», aggiunge Gianni, che fa spesso gesti e suoni da cartoni animati, «non dobbiamo scendere nel Sauro a fare la guerra altrimenti facciamo la fine dei bersaglieri che furono uccisi dai briganti di Borjes.

Dobbiamo stare qui e aspettare l’inverno, come i russi e Napoleone. E qui li possiamo crepare.»

Mi faccio spiegare la storia dei briganti e dei bersaglieri. E’ vera.

Gliel’ha raccontata la maestra che tarda a tornare a causa di un incidente d’auto.

Anche maggio è finito. Mara non si è fatta sentire. Sono esausto.

Proverò a cercarla a Matera. Dopo mi aspettano le fasi finali dell’anno scolastico, naturalmente senza team.

Tornando a casa, porto con me alcuni temi come se portassi un libro di culto. Le luci che si profilano lungo la fascia d’orizzonte stretta e lunga, dietro cui è annidata Matera, mi danno quel conforto che solo un luogo familiare può dare. E per divertita associazione assegno a questa prospettiva di neoilluminismo la possibilità che accenda i lumi della mia ragione.

Piazza V. Veneto, Matera.

Mara è irreperibile e lumi non se ne sono visti. Ho saputo che sta nel Texas, in missione. Non la rivedrò più: addio.

Ho scelto piazza V. Veneto perché ci sono gli spettatori giusti, quelli della ricreazione serale, ed è un buon pulpito per il mio talk show sul petrolio. Salgo sullo scatolo che ho portato con me e comincio a parlare.

Mi rivolgo a tutti e a Mara ma è come parlare solo a me stesso, eterno debuttante di una vita che mi cambia sempre il copione.

«A casa mia aspettiamo un bambino. Mia madre vuole chiamarlo Marco, come il nonno. Mio padre Pasquale perché è suo fratello.

Io no. Io voglio chiamarlo Petrolio. Lo so che neanche don Pierino vorrà, e vatteli a sentire i nonni e parenti. A me mi piace ed è un bel nome moderno. Anche storico.

Il maestro ci ha spiegato “più unico che raro”, che significa che di trovare si trova ma non c’è nessun altro come lui. Petrolio sarà un nome così.

Che casa ricca saremo e io voglio fare lo sceicco.

Mia madre mi dirà: vai a prendere Petrolio dalla scuola; non lo fare andare ai calanchi; portalo a giocare fuori dalle scatole.

Sarà un bambino speciale. Lo chiameranno per tutta la Val d’Agri:

Petrolio di qua, Petrolio di là, ma lui ubbidirà solo a me, lo sceicco.

L’altro giorno però mia madre ha avuto le perdite. E’ venuto il medico che ha detto: minaccia di aborto! E io ho avuto paura di perdere Petrolio.»

Alcuni anziani, a poca distanza da me, mi guardano di lato e ridono tra loro, scambiandosi cenni di gomitate. Un rombo di motore si allontana, suggerendomi di fuggire, di interrompere la confessione-comizio.

Sono deciso, vado avanti.

«C’è un sorriso sulle tue labbra, Mara» riprendo. «Ridi pure quanto vuoi, hai il mio permesso. Beaumarchais aveva ragione a sostenere che bisogna affrettarsi a ridere di tutto per non essere costretti a piangerne.

Sono grandi le aspettative di questo mio alunno, al punto che diventano parte di sé, della propria famiglia. Ma sono anche innocenti, come le altre cose che voglio dirti. Una innocenza che noi non avremo più. L’abbiamo persa quella volta a Metaponto. L’unione e la separazione, un giorno d’amore poi il litigio. Volevi per me un altro lavoro e forse un altro destino. Magari di petroliere. Ho scelto invece di fare il maestro, anonimo, squattrinato, sfiancato dalla tensione emotiva che occorre con i bambini.

Non ho bisogno di dirti che sono ancora in piazza V. Veneto. Come l’altra volta. Dove mi hai lasciato. Sto qui perché non la sento neutrale questa piazza. Sono forse neutrali i palazzi che da essa traggono nutrimento? Neutrali le luci al sodio che si spennellano sulle cornici aggettanti o s’intrufolano negli spazi architettonici? E le basole, le basole che si susseguono accostate, poggiate sulle grotte dei Sassi, quante volte le abbiamo calpestate assieme? Incredibile quanti scalpellini devono averci lavorato. Sono arricciate, increspate, secondo una volontà precisa e un disegno coscienzioso. Chissà che non si possa fare lo stesso con la vita.

Mi avevano invitato a fare bisboccia ma non mi sento di essere leggero, chiacchiere svenevoli da paraculi, imbecillaggine trafugata da goliardia, no. Questa sera voglio stare con te. L’arte di librarmi sulle cose non mi appartiene più. Sospeso, forse, mi pare più esatto. Perché dopo posso precipitare. L’azione non mi mette angoscia come potrebbe sembrare. Corrisponde alla parola fine ed è liberatoria come un procedimento di falsificazione… Ricordi Popper? Falsificarsi è più utile che dimostrarsi. Falsificandosi, si abbandona qualcosa, per sempre. Poi, se si vuole, se ne inizia una nuova.

E’ questo che voglio fare con te. Se mi riesce.

Tu hai sempre parlato con parole, lucide tracce di attese, brani di sogni hollivoodiani da “Gigante”. Bastava pronunciarle per porre in atto un’aspettativa. Bastava collocarle in un contesto per tracciare un percorso che doveva realizzarsi.

Che ci faceva quel bambino, a Metaponto, i genitori sotto l’ombrellone a leggere, con i granelli di sabbia che asportava? Scavava, scavava, scavava, ma non li compattava per farne castelli di fiaba.

“Vuoi fare la diga del Pertusillo?”, chiedesti, col sorriso della zia che saggia l’intelletto del nipote. E la tua soddisfazione alla sua risposta:

“No, voglio trovare il petrolio.” Anche tu l’avevi cercato a lungo. Il petrolio lo hai trovato. Il tuo lavoro è ormai lì, con i petrolieri delle compagnie che operano in Val d’Agri. Contenta tanto da tagliare corto su ogni mia obiezione. Dicesti che ero come la radio di bordo di De André e Bubola: una sfera di cristallo che dice, che il vento si farà lupo, il mare si farà sciacallo. Ma tu, tu che ti senti realizzata quando metti il computer sulle ginocchia e col modem-fax voli fino a Dallas, dimmi: da dove verranno i nuovi sceicchi che andranno su e giù con le grandi cadillac cornute e cromate, berranno long drinks e cocktails, con al seguito uno stuolo di puttane e faccendieri? Credi che verranno dalla Val d’Agri? Credi che ce la farà Giacomo a diventare sceicco nonostante avrà dato al fratello nome Petrolio? Potrà la scuola cambiare da così a così, come spera Matteo?

“Non ci sarà più la stufa a legna del bosco vicino alla cattedra ma ci sarà vicino a ogni banco.

Il bidello sarà vestito con una divisa e un cappello e non ci sarà più lo strofinaccio e la scopa consumata. Ci sarà l’aspirapolvere, l’armadietto nuovo, e tante altre cose che funzionano. Ci saranno gli esperti per stare con Giacomo e con Luigi perché il maestro o pensa a noi o pensa a loro.

Il maestro sarà felice. Ci darà tutti i giorni le brioscie e i cornetti alla cioccolata per farci studiare col computer e sarà più buono perché ora ci dice che dobbiamo studiare per guadagnare ma domani potremo guadagnare senza studiare che è la felicità dei bambini e dei maestri.”

Ed Eugenio, che ci suggerisce la sua soluzione, avrà mai una qualche prospettiva?

«Con il petrolio non potranno diventare tutti uguali. Ci saranno i più ricchi e i meno ricchi e questa è una scala come la disuguaglianza della miseria. I prezzi saranno adatti alla ricchezza media e ci saranno quelli che diventeranno più ricchi di prima e quelli che rimarranno più miseri di prima.

Ci sarebbe una soluzione. A ogni famiglia bisognerebbe dare un pozzetto di petrolio come quando dopo le lotte contadine la Riforma Fondiaria dette le terre ai contadini.

Le compagnie sarebbero costrette a comprare e ad accordarsi con i proprietari del petrolio. Le 7 sorelle diranno che ci vuole una politica comune. No diremo, non è sufficiente per portarlo all’estero, è per i nostri bisogni. Poi diranno che ci vuole un responsabile nazionale. No risponderemo, non c’è più un ministro dell’agricoltura e tutti si danno da fare per salvare i propri interessi.

Ecco come potremo essere uguali.»

Qualcuno, tra i tanti che ora mi circondano, attratti dall’inaspettato spettacolo, mi applaude. Il pozzetto di petrolio gli sta bene.

«Un pozzetto di petrolio a ogni famiglia è come una fetta di pane a ciascuno, un principio di giustizia sociale che sta da vicino con la pace. C’è anche chi lancia un allarme, pensando alla troppa comodità che arriverà insieme alla ricchezza.

“Il maestro ci ha letto la fiaba della principessa del pisello, se non ricordo male di Andersene. Dunque, a questa principessa la comodità faceva male perché dormiva in un letto tanto morbido e comodo che perfino un pisello sotto decine di cuscini le dava fastidio.

Prima non c’erano i piselli surgelati, c’erano solo freschi e secchi e il pisello della principessa era secco. Questo significa la morale che ci sarà sempre una cosa che darà fastidio alla nostra comodità, anche il petrolio. La comodità è bella ma non troppo.”

“Noi siamo come i Pellerossa” mi ha scritto Pietro, “ma la nostra terra è la Basilicata, la Lucania. Il presidente della nostra regione è come il capo indiano Capriolo Zoppo e le industrie del petrolio sono come il gran capo di Washington che nel 1854 voleva comprare la terra dei Pellerossa. Il presidente della regione deve dire alle industrie del petrolio le stesse parole che scrisse Capriolo Zoppo al gran capo di Washington nel 1854. Gli scrisse queste belle parole che il maestro ci ha fatto scrivere sul quaderno: la linfa che scorre negli alberi conserva il ricordo dei lucani.

Se ti venderemo la terra, devi ricordarti che è sacra e che ogni riflesso nell’acqua chiara dei laghi parla di eventi e di memorie della vita del mio popolo. Se ti venderemo la nostra terra devi ricordarti che l’aria è preziosa per noi, che è il respiro di ogni essere vivente”.

Vengono fantasmi in questa piazza. A bere alla polla d’acqua della fontana, lo sai. Quante volte abbiamo passeggiato assieme a loro. Mi piace come, dopo essersi dissetati, censiscono i passi e gli sguardi dei passanti. Mi piace come registrano parole e appuntano sogni. Qualcuno di essi, ambasciatore, te li porterà.

Questa sera, Mara, sto qui per te, a raccontarti innocenti miti, sospiri declinabili solo con la grammatica della purezza. Ma i pescatori, a mare, tu lo sai, accendono abat-jour e i pesci vengono a galla, alla fiera dei sogni.

Mi giunge, lo sento distintamente, l’eco del tuo addio. Mi giunge con il vento, quel vento che si fermò in questa piazza e, dopo aver raccolto il fiato in uno svolazzo di brezza, fiottò tra i tuoi capelli svelando la lacrima della tua decisione: era un addio mentre io proponevo un arrivederci.

Addio, Mara. Addio dal debuttante senza copione che odia la scienza degli addii. Lascia accesa la mia radio di bordo, scoperta la mia sfera di cristallo: quando il vento si farà lupo, il mare si farà sciacallo, tu non sottoscriverai proposizioni di fede sulla pergamena delle menzogne, tu non tradirai le aspettative dei ragazzi. Nessuno può farlo.»

Aliano.

A un certo punto, quando è chiaro che ho finito, tra la gente che è rimasta ad ascoltarmi, qualcuno mi tocca i pantaloni e mi propone con la mano che oscilla sul polso: “checcazzo dici?”, ma il ritorno ad Aliano è magico lo stesso. Mi sento svuotato e allo stesso tempo pulito, con la voglia di fare lo stesso ad Aliano e negli altri paesi della Val d’Agri.

I calanchi non sono monumenti alla resistenza umana ma pinnacoli fatati che nascondono tesori da dissotterrare. E poi porto con me un dono a Luigi, i concerti per violino dall’Estro Armonico di Antonio Vivaldi.

L’ascolto non so quante volte attraverso la cuffia del walkman, rimanendo incantato e immobile, come spero rimarrà lui.