I racconti del Premio letterario Energheia

Ore 19.40 – 23.40 circa_Rossella Apollinare, Castellaneta(TA)

_Racconto finalista terza edizione Premio Energheia 1996.

 

“I collegamenti neutri erano uno dei suoi pensieri più ricorrenti: gli spezzoni di tempo e distanza necessari a preparare e collegare tra loro i rari momenti, le rare situazioni interessanti della vita”

(Andrea de Carlo, “Due di Due”)

 

“… Sommersi da immondizie musicali…”

Ore 19,40, Battiato allo stereo. “Giubbe rosse” e “Up patriots to arms”.

La luce penetrava nella stanza ed era densa, gialla, palpabile.

Schiacciava come cosa concreta. Picchiava sui vetri della finestra una pioggia lenta e annoiata.

Fuori un cielo dalle nubi fitte e chiare era impenetrabile.

Pesante. Di piombo, giallo anche il cielo. Solo mezz’ora prima, il sole aveva brillato prepotente e adesso si oscurava, melenso.

Variabilità celeste. Movimenti. Incostanza.

Tobasco sedeva nella sua camera. Fermo come al solito: sguardo fisso, immerso chissà dove, certo no nello spazio davanti a sé.

Non concepiva la MUTABILITÀ.

Era coerente.

Tobasco era di una coerenza parossistica. Aborriva il situazionismo, la mobilità, i voltabandiera, i mutamenti, quelli programmati. Sdegnava gli opportunisti e tutta quella gente che quando passava per strada, triste lo guardava, gli si avvicinava, sfoderava un sorriso trentadue denti appena lavati e poi ritornava seria, più triste di prima.

“Patetico tutto questo” pensava “Troppi movimenti bruschi, falsi, non riesco a seguirla la gente, no davvero.”

E’ così che Tobasco era considerato dai coetanei una sorta di bestia rara: veniva più osservato che avvicinato.

I suoi proff., crema dell’ignoranza scolastica, i giudici falliti della massa studentesca, lo additavano come “caso clinico”.

In effetti, Tobasco non rientrava nei canoni generali dei comportamenti, perciò risultava “indefinibile”, perciò pericoloso, perciò incuteva un certo timore, un certo smarrimento.

Molti si sentivano a disagio in sua presenza, li spaventava il suo modo di guardare indiscreto, di parlare e provocare, di ironizzare. Pareva cattivo talvolta.

Sua sorella Clelia non riusciva a comprenderlo. Più di una volta aveva pianto, indispettita da quel fratello che si era preso tutto lo spazio.

“… Lo sai che il desiderio della mano, impulso di condanna…

… Na, nana, na…”

“Tobasco, spegni quella lagna, Niky dorme.”

Urlò la madre Berta nelle orecchie di Tobasco.

Poi parlando a sé stessa meccanicamente: “Ma perché non ascolta quello che tutti gli altri imbecilli della sua età ascoltano?”

Lei, la madre Berta, spesso si domandava dove avesse potuto sbagliare facendo venir su un figlio così strano.

Forse era nato sotto un cavolo.

Tobasco si alzò, accostò la sedia, si mosse immaginando la ridda di pensieri della madre Berta in questo momento; immaginando la ridda di pensieri della sorella Clelia in questo momento; immaginando il casino che avrebbe potuto generare facendo cadere in corridoio il vaso grande, quello azzurro e bianco…

Stava per generare una situazione e rompere quegli orrendi equlibri… “CRASH”

Aveva generato una situazione, là. “Ua, ua, ua.”

Rumori. Parole. Parole. Parole.

“Tobasco sei una condanna, la mia condanna o…” Stereo acceso. Passi rapidi in corridoio. Madre Berta compare, scompare in camera di Niky.

Cocci per terra. Puzza di latte bollito. Ancora quella luce gialla.

Domenica. Ore 20.15.

Tobasco, sguardo fermo già fuori per strada senza salutare.

Non più rumori domestici, ora rumori esterni, familiari lo stesso.

La sera era dubbiosa e umida e calava sulla città. Tobasco camminava, le mani in tasca.

Le voci di un coro scivolavano angeliche dalla finestra di una parrocchia.

Tobasco pensò che se fosse stato uno di quei suoni così dolci e tranquilli sarebbe rabbrividito o si sarebbe distorto senz’altro al contatto della sozza strada e dell’aria.

Immaginò un mostro dalle fauci spalancate, retaggio mnemonico di qualche cartone animato giapponese, e ancora, pensò: “L’indifferenza della chiesa è un mostro. Il suo vivere nei paradisi terresti dalle belle strutture, mentre fuori le vie s’infangano per le lacrime della gente è mostruoso …”

“A cosa pensi, così assorto Sastri?”

“A Dio” Secco Tobasco

“Dunque?…” Imperterrito l’altro.

“Dunque, penso che oggi, nel 2000, Dio sia andato in vacanza come tutti i suoi preti, vescovi e papa in Cadore. Dio mi confonde le idee.

Accetterei tutto, come in realtà faccio senza fiatare, senza lamenti, solo con somma rabbia. Accetto rapine, stupri, assassinii, bambini che… se ci penso mi pulsa il sangue in testa.

Ecco accetto tutto, vede? Ma se penso che potrebbe esistere un’entità superiore, misericordiosa, magnanima bla, bla, bla, bé mi scusi, ma non è umano far finta di niente e se Dio non fosse morto, per orrore di Nietzsce, prof, lo ucciderei io…”

Tobasco disse queste cose con foga, occhi lucidi, pugni chiusi. Parlava al prof. di matematica che forse non aveva afferrato del tutto il senso del discorso eretico di quell’alunno dallo sguardo fermo. E come al solito si perse in conclusioni di tipo scolastico. Pensò che se Sastri si fosse impegnato di più, certo avrebbe avuto un futuro importante, che se avesse avuto delle basi più solide alle medie forse avrebbe… giudizio positivo, o quasi.

Voto: 6+

Questo, più o meno, è lo schema mentale di ogni prof “normale”, questi i pensieri del prof di matematica a colloquio con Tobasco Sastri, incontrato lungo via della Pace, a 200 metri da casa sua.

“Quanti anni hai, Sastri?” Chiese il prof.

“Quasi 18.”

“Non ti pare un po’ prematuro inoltrarti in discorsi così cavillosi ?”

“Sì, certo… è proprio un prof, lei.”

Il prof finse di non averlo udito e propose:

“Perché non provi a normalizzarti?” Sguardo di Tobasco prima stupito, poi inquieto.

“Sì, perché non provi a calarti nella società, a normalizzarti fin in fondo? Tu sei un ribelle, anzi no, non proprio, sei un…, non saprei definirti, tutto ciò che fai, ha a che fare con lo spirito, con la mente, sei così insofferente. I ribelli di oggi invece sono così prevedibili e scopiazzati… ”

“Prof, io so di essere un diverso. So di non c’entrare poi molto col mondo, con la realtà, non trovo neppure io una definizione o una categoria in cui rientrare.” Avrebbe voluto dirgli Tobasco con lo sguardo.

“Sastri, non allarmarti, forse ho toccato un tasto importante.” Sussurrò.

Un sospiro.

“Bè, s’è fatto tardi, vado a casa.”

Il prof si allontanò e arruffò teneramente i capelli di Tobasco, che come al solito lo lasciò andar via senza salutare, indispettito da quel gesto e da quelle parole, dette quasi profeticamente.

“Un tipo così non può smantellarmi le certezze proprio adesso”. Disse a sé stesso.

Osservando Tobasco da lontano, si sarebbe pensato a lui come ad un RAZIONALE.

In realtà, era un “baccante”, un istintivo , antisocratico, antiplatonico, anticristiano, anche se non lo sapeva.

“Il senso della vita” rifletteva “è dare libero sfogo all’essere, senza infliggere al corpo e allo spirito limitazioni ulteriori a quelle già assorbite durante l’infanzia.”

Un giorno, disse al parroco: “Noi esseri umani non potremo mai essere veri cristiani, assomigliare a Cristo. Cristo ERA, noi invece dovremmo DIVENTARE, perciò mutare natura, snaturarci ecco, per diventare divini, diventare ciò che nel nostro codice genetico non è segnato.”

In seguito il parroco decise di iniziare con lui, per il suo bene, un lungo cammino di fede.

Tobasco boicottò tutti gli incontri.

“Non mi serve”, ripeteva alla madre Berta quando insisteva perché si recasse da don Amelio.

Il Tobasco che aborriva i mutamenti programmati di personalità, non avrebbe mai pensato di “normalizzarsi”, cambiare.

Il prof gobbo e misurato però, aveva mosso un dispositivo interno e mentre camminava, mani in tasca, serata umida e nuvolosa, Tobasco disse a mezza voce: “Catapultarsi nell’opposto. Guardare in faccia l’altra faccia della medaglia.”

Avrebbe potuto viverci, capire i sistemi della massa incostante, incurante, indifferente, vincolata, pronta a snaturalizzarsi, perennemente sconfitta in questo procedimento e pertanto frustrata.

Chissà se gli sarebbe piaciuto.

Ma perché vacillava tutto intorno a lui, ora?

Tutto quello che prima era stato fermo, sì perché adesso tremava?

“CATAPULTARSI NELL’OPPOSTO”

Ci avrebbe provato. Decise.

Immerso nel suo mondo di idee sformate, come ogni sera a quest’ora, imboccò via Mandorli, svoltò alla prima traversa a sinistra, bevve un sorso d’acqua alla fontana, proseguì per altri cento passi e si fermò di colpo.

Altea stava senz’altro scendendo. Poté immaginarlo dalla luce che si era appena accesa nella scalinata.

Aprì il portone, chiuse il portone. S’incamminò.

Incontrò Tobasco, lo sfiorò.

“Ciao” Disse Altea.

“Altea…” Sussurrò lui come se avesse voluto proseguire “Sì ?” Domandò guardandolo “Che c’è ?”

Silenzio. Luci. Clacson. Serrande che si abbassavano.

Dopo: “Non deve esserci necessariamente un motivo o una spiegazione o un senso alle parole, alle situazioni…”

Lei lo ascoltò. Sembrò pensare un po’ a ciò che aveva udito.

Non capì. “I soliti argomenti” Lo rimproverò.

Lo guardò ancora, lo salutò ancora e precisò:

“Non seguirmi.”

Tobasco la vide allontanarsi e la seguì, come al solito.

Un venditore ambulante di rose, probabilmente un messicano, da pochi metri aveva assistito a tutta la scena. Suppose che Tobasco ed Altea stessero insieme e che avessero litigato. Perciò inseguì Tobasco, speranzoso lo fermò. Richiamò Altea. Generò una situazione, la seconda della sera.

“Comprate una rosa per lei?” Quasi gridò nelle orecchie di Tobasco indicando Altea.

Lui alzò lo sguardo come se stesse meditando il da farsi, lo riabbassò e disse: “Se ne hai di quelle che hanno radici piantate nella terra, le compro.”

Silenzio.

“Bé, ne hai?” Incalzò Tobasco.

“No, ma…” Balbettò il messicano convinto di non aver afferrato del tutto il senso della frase in italiano.

“Non compero cose morte”, chiuse Tobasco.

Il messicano che aveva generato una situazione si allontanò pensando ancora a quel ragazzo dallo sguardo così fisso, inkazzato. La situazione generata non era destinata a sfumare a questo punto.

Altea, in effetti, offesa per non aver ricevuto la rosa che qualsiasi idiota le avrebbe regalata, osservò Tobasco con un’espressione stupita, le sopracciglia aggrottate, le labbra decisamente assottigliate dal dispetto, non disse una parola pronta a ripartire.

Lui comprese.

Capì che avrebbe dovuto regalarle quella maledetta rosa.

Primo faticoso passo nel mondo della normalità regolato dalle norme del galateo. In fretta richiamò il messicano. Si scusò per lo “scherzo idiota” e comperò una rosa rosso-bordeaux fasciata in un involucro di plastica trasparente, soffocante-involucro-plastica-trasparente.

“È per te” Sussurrò ad Altea toccandole i capelli.

Il messicano tornò sui suoi passi.

“Non la voglio.” Tobasco rimase interdetto. Sospirò. Reclinò il capo a sinistra e gettò la rosa. Che senso aveva quel gesto?

Che senso aveva cambiare? Perché? Per chi avrebbe dovuto farlo?

“L’ho fatto per te, solo per farti piacere.”

“Lo so. Ma da te avrei ricevuto con più piacere un albero di banane, perché l’avresti potuto fare solo tu. Solo tu, che certo non ti confondi con gli altri con il tuo modo bizzarro di essere.”

“Non mi hai apprezzato mai per quello che ero, mi hai sempre snobbato, perché questa volta invece?…”

“Bò, non saprei, forse è quest’aria strana.”

“Ho pensato di cambiare, di catapultarmi nel tuo mondo.”

“Di quale universo parli? Vedi è difficile seguirti.”

“Parlo del tuo, del vostro mondo, di chi è così tanto diverso da me, che ha il telefonino, la fuoriserie a 18 anni…”

“Ti sei sempre ghettizzato”, proferì Altea in quell’aria strana.

“Sono nato ghettizzato e da voi son sempre stato ghettizzato, guardato come un reietto. Sono una mente alternativa.”

Altea era stanca dei soliti discorsi di chi si fa vittima di sistemi di giudizio opposti che avrebbero dovuto essere abbattuti con rabbia. Lei voleva spazio per tutti.

“Tu, parli di due mondi che non esistono, che sono pseudo-pianeti. Tobasco, il tuo discorso sa di marcio, svegliati, leva quei dannati paraocchi e guardati intorno, non esistono divisioni. Dove li vedi i muri? Dov’è che finisce lo spazio per noi, e quello per voi?” Una luna chiarissima, pallidissima, pareva una vergine nell’abisso. Altea riprese con più calma:

“La vedi la Luna?”

“SI”, poco convinto Tobasco.

“Ok, l’esempio sa forse un po’ di messaggio pubblicitario, ma la luna è l’unico punto oggettivo che qui veda. Bene, da lì su, pensi che lei veda palizzate? Kazzo le palizzate in questa città ci sono solo nelle teste dei cittadini.”

Tobasco guardò incantato la luna.

“Bisognerebbe tollerarci, questa potrebbe essere l’idea alternativa del 2000. Cosa si è fatto finora? Si è combattuto, ci si è scissi, sempre e in qualsiasi luogo della terra. E povera terra, sempre divisa a sangue in clan, fazioni, partiti, regioni… Secondo quale criterio, secondo te? Il criterio è logico: i dannati ‘noi’,‘voi’. Io non mi sento una di ‘noi’ come hai detto tu. E io non ti considero uno di ‘voi’…” STOP VERGOGNA. Tobasco si vergognò per la prima volta.

“Dimenticate tutte le vostre fottute certezze”, ripeteva meccanicamente. Immaginò allora di gridare questa frase in una piazza che brulicava di persone tutte uguali: tutte avevano la sua faccia. Tutte erano

malate dello stesso male: lati, vescovi e papa in Cadore. i esseri umani alle ragioni degli altri e amplificava la loro voce, così che ognuno gridava, urlava i propri “io penso.” L’aria era strana. A Tobasco sembrò

di aver immaginato una stanza dell’inferno. Tobasco comprese bene il discorso di Altea.

Nel frattempo i due si erano seduti su di un gradino in una strada secondaria.

“Salve Tobasco, cosa ci fai da queste parti?”

“Rifletto con Altea.”

Il ragazzo era un amico di Tobasco, li salutò e sparì in fretta all’angolo sotto lo sguardo di quei due. Il suo procedere in lontananza passo dopo passo fece venir in mente una cosa a Tobasco.

“Sai che questa sera mi son meravigliato di una situazione a cui non avevo mai fatto caso, ma che forse si perpetra da anni?”

“E si tratterebbe?” Curiosa Altea.

“Venivo a casa tua e ho per alcuni attimi desiderato inspiegabilmente di sentire i miei passi sull’asfalto. Non ci sono riuscito. E sai anche? Non son riuscito neppure a sentire il mio respiro. La realtà del traffico mi è caduta a peso morto sulle spalle e mi son sentito una vittima di sistema, di un sistema che non si può accettare.”

Tobasco si piegò su sé stesso e si stringeva stretto, stretto, gli occhi profondi e tristi. Disse: “Mi fa schifo questo pianeta, dove a vivere sono le macchine. Dove la strada appartiene alle macchine, dove i parcheggi appartengono alle macchine.

Un essere umano in questa città è costretto ad attraversare la via su soli 2 metri di strisce bianche in terra. Troppo acciaio!! Mi fa spavento…” Altea pensò: “Gli angeli del cielo piangono per tutto questo.”

“Forse le macchine hanno tanta fortuna”, riprese Tobasco “perché sono rassicuranti. Hanno una forma. E si sa che quello che si può toccare, tutto quello che sia ben delineato, che abbia contorni e margini definiti e che inoltre sia anche abbastanza spazioso per entrarci, susciti sicurezza.

Pensa alle case, pensa alla TV, pensa al forno a microonde: tutto ha forma. Il mio è un mondo di idee sformate, non seguono una logica. E’ come il discorso di questa sera qui fra noi due. Vedi: filo preciso … Ecco in che cosa consiste la mia diversità. Gli altri di tutto questo non si curano, si lasciano vivere dai programmi, perciò dagli altri, da quelli che formulano i programmi e sanno bene il fatto loro.”

“Non è questa la tua diversità. Questa è la tua normalità.”

“…” Curioso Tobasco.

“Ciò che noi aborriamo con tanta intensità è ‘sovrastruttura’, non ha nulla a che fare col mondo. E’ ordine, è forma, è sistema. Questa semmai è la diversità. Sul mondo, invece danza il CAOS, il caos è la condizione naturale del pianeta terra. E io e te siamo i sacerdoti del caos. Siamo io e te i normali. Lo so io, lo sai tu, lo sa Nietzsche, è scritto nella storia. La natura è insofferente alle catene dei sistemi, non li conosce…” 22.30; puzza di gas di scarico. Una luna addubbiata. In un cielo addubbiato.

“Ah” Gridò Altea squarciando il silenzio.

“Ma è solo una falena.”

“Per me è sempre un verme, staccalo dai capelli, presto” Balbettò lei.

“Ci sono persone che sono più vermi dei vermi” Proferì Tobasco togliendole dai capelli due ali scure.

“ Ma è morta” Notò abbastanza inorridita Altea.

“Ci sono dei vivi che sono più morti dei morti reali, eppure non ti fanno lo stesso effetto, perché?”

La serata si inoltrava trafiggendo il tempo con le parole. Altea pareva assorta. Stette in silenzio per alcuni minuti e poi disse: “Perché, allora, non facciamo in modo che questi cadaveri che ci circondano si sveglino? Facciamo in modo che la rivoluzione inizi. Si parla tanto di ‘Rivoluzione silente’ che marcia sul 2000, lenta ma inesorabile. Non la sente nessuno, o quasi, facciamo in modo che faccia rumore, un rumore infernale.”

Occhi illuminati, lucidi. Fervevano i pensieri e un’aggressività incontrollabile a poco a poco stava riscaldandosi. Si incamminarono verso la periferia. Lì la città era ancora più tumultuosa, era ancora più indifferente.

“Nessuno potrà mai sospettare di noi, siamo i cretini a detta del mondo.” Rassicurò Tobasco.

Altea sussurrò di rimando: “Vedremo cosa combinano i cretini se li stringe l’acciaio…” Acciaio, carrozzerie, fabbriche, case, scuole: tutto d’acciaio, venato d’acciaio, violentato dall’acciaio. Basta adesso. Lo decisero loro. Dare fuoco all’acciaieria fuori città. Un passo sarebbe stato nella rivoluzione, un messaggio.

Prima la benzina. Poi il fiammifero. Poi il fuoco. Poi lo scoppio delle caldaie. Poi il fumo. I pompieri. Immaginavano tutto su quei due. La situazione, la III della sera, della notte, presto sarebbe stata generata, ed era una strage. Un clima surreale, fece baccano in quell’aria strana. Pensieri inquieti. Una sensazione di impersonalità prese quei due e li fece sudare a freddo.

“ Altea…” Disse Tobasco.

“ Sì?” Pronunciò lei da lontano.

“ Torniamo a casa ‘ché ho troppa paura di ferire qualcuno che passa.”

 

STOP

Ore 23.40 circa “Ciao Altea, a Domani.”

Tobasco, mani in tasca, verso casa fischiava un motivo di Battiato:

“Sommersi da immondizie…” e pensò che c’erano già abbastanza rottami per il mondo e già abbastanza indifferenza al fragore delle bombe.