I racconti del Premio letterario Energheia

Mammolo_Raffaele Manna, Lucera(FG)

_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia 1999.

 

Mammolo che fa le erbe: l’erba raperina, l’erba cimicina, l’erba benedetta e l’eufrasia che fa bene quando va il sangue agli occhi. Ogni mattina scende per le curve del paese con la vecchia tracolla che gli ballonzola sul sedere. Magro come un’acciuga nei pantaloni larghi a bandiera, viene giù spedito per la rotabile asfaltata.

L’erba brusca, l’erba cipressina, l’erba cornacchia per il catarro e l’erba di San Pietro per la diarrea.

Mammolo va a testa bassa, le mani in tasca, senza guardarsi attorno.

Un po’ come certi cani di campagna, che trotterellano a muso chino e sembrano aggirarsi a casaccio, e che invece, tra naso orecchie e coda, hanno come un periscopio che li conduce al posto giusto, senza parere.

Così lui: i posti giusti li sa bene. Di erba croce ce n’è quanta ne vuoi lungo il margine della strada, e la quatrinella sta giù, nel fosso col rigagnolo, sotto al dirupo. Per l’erba nocca, se occorre un purgante, bisogna invece arrampicarsi sopra al paese, in montagna. E il capelvenere, a essere fortunato, lo trovi solo nel punto più umido e più scuro del bosco, con quelle foglioline come tante farfalle posate immobili nella penombra.

Fatte a sciroppo, disciolgono la tosse in petto.

Mammolo lavora col coltello, svelto e leggero, a piccoli affondi nel terreno. Poi tira su la pianticella con tutte le radici, la scrolla e ci soffia sopra con forza, prima di riporla nella tracolla. Ha unghie nere di terra e un biancore come di nebbia dentro, nella testa.

Trovato il posto di un’erba, non toglie mai tutte le piantine, ma sempre ne lascia qualcuna. Così alla volta successiva ne troverà ancora, ché quelle alla prima pioggia figliano di nuovo.

Tutte le mattine Mammolo che fa le erbe va lungo la strada che scende dal paese. Ogni tanto sparisce in un campo o in qualche macchia di incolto, a un gomito della strada.

L’erba gironda è per i vecchi, a impiastro sui reumatismi, e va bene anche per le punture delle vespe. Eccola dove si nasconde: nell’intrico del fico selvatico, tra quei rami glabri e un po’ sconci che si dilatano bassi a terra. Invece la cicoria, che brucia i vermi dello stomaco, cresce tra le ginestre avvampate, sulla costa ripida che frana. E al canneto, alla piccola pozza, sguazza l’erba betonica. Cotta nel vino, placa ulcere e piaghe.

Coltello, energica soffiata sopra e giù nella tracolla. Poco dopo ecco Mammolo che sbuca di nuovo, sulla strada asfaltata, un po’ più sotto, verso valle. A quell’ora non vi passa nessuno. Solo ogni tanto un’auto o a volte un ringhiante treruote contadino, col volpino che abbaia dietro, scalmanato. Per qualche attimo, allora, si sperde l’aria tranquilla della campagna coi ronzii leggeri e i richiami degli uccelli.

Mai che Mammolo si volti a guardare chi passa. Anzi, lui mette lo sguardo fisso su qualcosa dall’altra parte, in un campo, come per un interesse improvviso, e fa quel suo sorriso tirato, non sai dire se timido o ironico, che lascia ogni volta sorpreso chi non lo conosce.

Così, se un forestiero si ferma con l’auto per un’informazione, lui prosegue muto, avvampato, con quella smorfia che lascia sconcertati.

Mammolo che fa le erbe si vergogna. Di tutti. Forestieri e paesani.

«Mammolo!» gli fanno i ragazzi del paese, seduti tra il bar e il distributore di fronte.

La sera, quando lui rientra, come fare a non passarci in mezzo?

«Mammolo!» lo chiamano, tutti insieme.

Quelli stanno sempre in gruppo, hanno bicchieri e sigarette, si lanciano alti richiami e insulti gagliardi. Poi, d’improvviso, scoppiano a ridere, stravaccati sulle sedie. Parlano di donne e sanno la vita come si fa.

«Mammolo! Hai fatto le erbe?» E’ il coro di quasi tutte le sere, vedendolo arrivare. Lui lo capisce già da lontano, dal loro trattenuto silenzio di complice preparazione.

«Mammolo! Hai fatto le erbe?» E quelli giù a ridere.

Mammolo passa, avvampa, è in mezzo. Non sa dove guardare, e mette quella smorfia tirata di sorriso doloroso, come una ferita sul volto.

Loro stanno insieme, manate sulle spalle e tanto da dire, tanto da ridere.

Non come lui: solo e con quella nebbia bianca che gli affonda la testa.

Lui si sente bene soltanto lì all’aperto: in campagna e senza nessuno.

Nessuno che lo guardi, che lo fermi, che gli faccia domande.

Passa un’auto, con qualche fischio di gomma in curva. Passa il treruote sgranando marce e scoppi convulsi, col volpino dietro che abbaia.

Poi torna la pace, si rifà il silenzio. In quel silenzio Mammolo fa le erbe. Un silenzio che formicola di bisbigli, roselline selvatiche e fiori di mandorlo a grappoli su rami ancora neri. Che pullula di umori dolciastri, di pollini vaganti e di vespe ubriache. Un silenzio che fa tutt’uno col biancore di nebbia della sua testa.

Ed ecco che allora quel ronzio sottile del silenzio di fuori si fa lo stesso di quello di dentro: si richiamano, si riconoscono, si accordano, per diventare lo stesso dolce sussurro d’accompagnamento.

E’ come se il dentro della testa si aprisse al fuori, eliminando ogni muro, ogni limite di separazione.

E’ lo stesso vento leggero della campagna che passa dentro la testa, come sopra l’asfalto della strada. Adesso qualunque rumore più forte, un rumore umano ad esempio, sarebbe impossibile da sopportare, come una bomba che scoppiasse nel cervello.

Ecco perché, quando sente la prima corriera del mattino arrancare rabbiosamente verso il paese, Mammolo lascia la strada ed entra nei campi.

«Eccolo lì!» disse una mattina, vedendolo, l’autista della corriera.

«Almeno potrebbe prendere la corsa della sera, per risparmiarsi la salita del ritorno.»

«Mammolo che fa le erbe!» fece divertito l’impiegato postale sbirciando dal finestrino.

«Ma non è stato sempre così!» precisò dal suo posto la maestra anziana di fuori paese.

Oh, sì: a scuola non c’era mai andato, e sempre tanto timido da nascondersi nelle scarpe! Ma aveva fatto per anni il garzone al distributore di benzina: riparava le gomme e si arrangiava con le auto scassate e i treruote dei contadini. Poi un giorno era passato un grosso camion mai visto, uno snodato che scendeva a stento per le curve strette sotto al paese. Lui, Mammolo, aveva fatto da battistrada: correva a fermare le macchine che salivano nella direzione contraria.

Fu così che partì per Milano, con il grande camion.

Quando tornò, un anno dopo, era cambiato: un po’ scemo, un po’ incantato. Non più gomme, non più motori. Non tratta più nessuno, non saluta. Fa le erbe e basta.

Passa via la corriera rabbiosa, col suo fumo arrogante, per le curve in salita. Mammolo esce da dietro al sambuco e riprende l’asfalto un poco più a valle.

C’è un’auto ferma, e una donna con le braccia incrociate sta di schiena allo sportello. L’auto ha una gomma a terra e la donna ha una camicia di seta leggera e occhi dolci, supplichevoli.

Ecco Mammolo cambiare la ruota: è muto, rosso in viso, ma senza il solito sorriso tirato.

L’erba di San Giovanni ha foglie curiose: le guardi in controluce e sembrano bucherellate. E i fiori gialli, a schiacciarli – Mammolo adesso li batte tra due pietre – diventano rossi come il sangue. La donna è attenta: guarda le foglie, poi i fiori.

L’erba ventaglina nelle notti umide caccia linfa nelle sue foglie a imbuto.

La donna si china e vi bagna la punta di un dito.

Mammolo prosegue. Lei gli va dietro con un po’ di fatica e le scarpette leggere affondano nella terra.

L’erba vescica acchiappa gli insetti di scatto con le cento borsette. E l’erba zolfina ha un profumo di miele e fa quagliare il latte per il formaggio.

Mammolo che fa le erbe quella sera è lì, a una delle fermate a richiesta con la tabella arrugginita. Fa segno alla corriera, per il ritorno. L’erba trinità ha fiori timidi che si richiudono la sera e se piove. Ma quando fiorisce, i petali raddoppiano a vista d’occhio. Mammolo sale con la sua tracolla e tutti si voltano.

«Buonasera» dice, prima di sedersi a uno degli ultimi posti in fondo.