I racconti del Premio letterario Energheia

L’errore di Darwin_Tommaso Panza, Matera

_Racconto finalista prima edizione Premio Energheia 1994.

 

 

Mi sono sempre ritenuto un giornalista mediocre, provinciale, annoiato dal mio lavoro, del resto, il miglio complimento che ho ricevuto è stato quello del mio redattore capo: “Massimo Ravalli lei non è poi peggiore di tanti altri”. Ecco perché l’invito a cena da parte di uno scienziato di fama mondiale era giunto come un fulmine a ciel sereno: forse era l’occasione che aspettavo da tanto tempo.

Decisi subito di partire per Velletri, dove il professor Galimberti aveva creato, pressoché dal nulla, un centro di ricerca sull’evoluzione della Vita sulla Terra. Sì, proprio lui, il modesto assistente universitario che dieci anni addietro era riuscito a soffiare i finanziamenti del Fondo Mondiale per la Ricerca a tedeschi ed ai giapponesi, i quali, da allora, non hanno fatto altro che ostacolarlo in tutti i modi, legali e non.

In viaggio cercai invano la spiegazione del perché la scelta fosse caduta su di me e questo fu il primo dubbio a sparire quando giunsi al centro: i giornalisti più in vista erano anche i più controllati e Galimberti non poteva rischiare.

Quell’uomo parlava e sembrava mi leggesse nel pensiero, non c’era bisogno che ponesi domande.

Cenammo discutendo del Centro ma, istintivamente sentivo che il vero motivo del mio invito non era quell’intervista informale ma asettica, che avrebbe dovuto illustrare al grande pubblico le finalità del centro di ricerca; tuttavia tenni per me queste considerazioni. Galimberti riservò a fine serata la sorpresa: il giorno seguente avrei dovuto raggiungerlo a New York con un falso passaporto argentino. La cosa mi stimolava. Alle quattro del mattino seguente mi consegnarono il passaporto e “l’occidente” per il viaggio a New York. Una hostess, durante il volo, oltre ad un sorriso mi porse un appunto con il nome di un residence: ci arrivai facilmente. Nonostante la conoscessi bene, ogni volta la Grande Mela riusciva a regalarmi emozioni forti. In una delle tante e anonime villette a schiera di Rhode Island dovevo incontrare Galimberti, lo trovai solo, fra un mucchio di scartoffie. Ora aveva un aspetto più rispondente al mio stereotipo di scienziato, era sicuramente più rilassato rispetto al nostro ultimo incontro. Senza guardarmi iniziò a parlare e andò subito al sodo, da uomo pratico quale era.

“Ravalli, credo lei sappia che dai tempi di Darwin si parla di evoluzione, di selezione naturale, ma sempre a senso unico, perché l’uomo ha sempre creduto nella propria onnipotenza”.

Non capivo.

E lui: “Sì, ha ragione, poche ore di conversazione non possono stravolgere milioni di anni di storia e per di più il suo modo di vedere la realtà, ma cercherò di essere il più elementare possibile”.

Fui molto sollevato dalle ultime parole.

“Da dieci anni conduco studi sulle forme di vita primigenie, essenzialmente protozoi fossilizzati, effettuando, con l’aiuto del computer centrale di Velletri, miliardi di comparazioni fra gli stadi di sviluppo delle prime forme di vita e quelli delle attuali.    È sconvolgente, sa? Fra le centinaia di migliaia di specie che ho esaminato ce n’è una sola che da 600 milioni di anni continua a subire un’evoluzione costante, matematica. Mi spiego meglio. Tutte le attuali forme di vita sulla Terra hanno in comune alcuni elementi atti alla conservazione dell’intero ecosistema, e faccia attenzione! Non alla conservazione della sola specie, questo è ovvio, ma alla conservazione dell’intera biosfera. Ho individuato in tre parametri queste caratteristiche: 1°) la tendenza a non modificare in modo incisivo l’ambiente circostante; 2°) la tendenza a nutrirsi e a riprodursi; 3°) la totale utilizzazione delle cellule cerebrali per raggiungere soltanto i suddetti obiettivi. Soltanto una specie di celenterati, che ho individuato nel Giurassico, evolvendosi si è sempre distinta da tutte le altre. I dati che ho a disposizione indicano una continua “violazione” di quei tre parametri. A questo punto le rivelo il nome dell’assassino: il risultato ultimo dell’evoluzione di quel celenterato è “l’Homo Sapiens Sapiens”.

Guardandomi, capì che ero ancora in una cortina di nebbia e così continuò: “Si rende conto che quello che fino ad ora abbiamo creduto sviluppo, progresso, è soltanto il risultato di una strana anomalia, che ci portiamo dietro da centinaia di milioni di anni? Ciò che è più grave è che apparteniamo all’unica specie che va nel senso opposto a quello in cui vanno tutte le altre. Creiamo, distruggiamo, manipoliamo, siamo giunti a farlo persino col nostro corredo genetico. Nutrirsi e riprodursi sono ormai attività marginali fatte regredire a meri automatismi e che, comunque, occupano ben poco spazio nella nostra vita e nella nostra mens. Quanto alle nostre cellule cerebrali, le utilizziamo per pensare, per studiare, per auto-condizionarci, per creare un mondo interiore che speso non ci soddisfa, al pari di quello esterno che noi stessi abbiamo stravolto. Basterebbe soltanto abbandonarsi alla natura, seguire il suo ritmo senza pretendere nemmeno di classificarla! Da quel celenterato anomalo in poi, una specie si è creduta, prima inconsciamente, poi quasi sempre con arroganza, superiore a tutte le altre: onnipotente!! Ma si è trattato soltanto di una involuzione: l’unico esempio di involuzione di una specie vivente sulla Terra.

Vuole un esempio? Da centinaia di migliaia di anni gli squali comunicano tra di loro allo stesso modo, ho dedotto ciò dalla loro morfologia che è rimasta invariata nel tempo. L’uomo, invece, ha inventato mezzi sempre più complessi utilizzando una parte del proprio cervello per studiare quei mezzi e sottraendo quella parte del cervello al suo “naturale” impiego. Qual è il risultato a livello globale? Immensi consumi di energia, ulteriori modificazioni in peggio dell’ambiente, finto progresso: quello che all’uomo sembra progresso è, in realtà, solo un forte scompenso nell’ecosistema. Questo è solo un banale esempio che, tuttavia, le può far capire che apparteniamo all’unica specie capace di un’involuzione continua. Fa parte di questa involuzione, ed anzi la alimenta, l’illusione di credere che quello che l’uomo fa, migliora la propria vita. Ciò nel breve periodo e limitatamente alla razza umana, è in parte vero; ma è vero cambiando punto di vista, è guardando alla totalità delle cose che si capisce di andare controcorrente, di fare una innaturale corsa verso la distruzione totale. Lo so, la conclusione del mio discorso, semplificazione di dieci anni di studi, può sconvolgerla, anche perché anch’io ho seguito l’istinto della mia specie: l’uso innaturale del cervello; ma, mi creda, nei confronti di tutto il creato l’uomo costituisce un’innaturale eccezione, sicuramente è il germe della distruzione!”

Ero allibito. Forse avevo assistito al tilt di un famoso scienziato, non potevo ammettere un capovolgimento della realtà: l’uomo, risultato della involuzione e del regresso di un celenterato!!

Dovevo, però, ammettere che non tutto ciò che noi consideriamo razionale ed evoluto trova una collocazione nel sistema generale delle cose. Ed ho pensato poi a quello che fa il mio gatto: è talmente “integrato” nel sistema Natura che il suo comportamento non pretende nemmeno una spiegazione, siamo noi a pretenderla, forzandola con i nostri schemi. E se fosse vero, oltre che provato scientificamente, il “teorema” di Galimberti? In fondo, la ragione per la quale ci sentiamo diversi da tutte le altre forme di vita potrebbe essere proprio quella: noi siamo regrediti a modificatori dell’ambiente, a pensatori, a scienziati, e loro no, sono rimaste semplici esseri viventi. Erano questi i pensieri che mi balenavano nella mente durante il viaggio di ritorno a Roma. Le parole di Galimberti continuavano a generare come dei cerchi concentrici nello stagno della mia coscienza di appartenente alla razza umana.

Tuttavia, di una cosa ero assolutamente certo: per la prima volta, rendevano la mia mediocrità una dote positiva, rispetto alla super-efficienza di alcuni miei colleghi: sarebbe bastato guardare le cose dal punto di vista del professore, per considerarmi uno dei meno involuti, fra gli esseri umani.