I racconti da sceneggiare, I racconti del Premio letterario Energheia

L’assassina_Giulia Zanarone, Borgosesia(VC)

_Miglior racconto da sceneggiare_ex aequo_sedicesima edizione Premio Energheia 2010.

Apro gli occhi.

Rimango accecata, li socchiudo. In pochi secondi le immagini prendono forma. Le onde del mare si schiantano contro le rocce, un suono di battaglia al loro scontro; gocce d’acqua volano in aria, prima di ricongiungersi alla propria origine. In un’altra zona l’acqua non incontra ostacoli, viaggia tranquilla, spingendosi il più possibile verso la spiaggia, ma poi torna indietro, pronta a ricaricarsi e spingersi oltre; una schiuma chiara, pulita, rimane isolata al ritirarsi delle acque, assorbita dalla sabbia.

L’aria fresca accarezza il mio corpo, il Sole gli regala calore.

Chiudo gli occhi, ascolto il mare, il vento; comunicano, mi parlano.

Lascio scivolare il velo che ricopriva il mio corpo, rimango con il costume. La sabbia farinosa accarezza il fondo dei miei piedi al mio passaggio. Tocco l’acqua con le dita. È fredda.

Mi bagno fino alle caviglie, poi mi fermo, chiudo gli occhi, alzo lo sguardo verso il Sole, sorrido.

– Aiuto! -. Spalanco gli occhi, un uomo davanti a me sta affogando. L’adrenalina invade il mio corpo, mi lancio in acqua senza badare quanto sia gelata. Tengo la testa alzata per non perderlo di vista.

– Aiuto -, la sua ultima supplica prima di sprofondare.

Continuo a nuotare, non penso, agisco.

Arrivo al punto e mi immergo; è buio, profondo. Riemergo, continuo a cercare, non lo trovo. Dolori al torace mi fanno risalire, non avevo più ossigeno.

Mi guardo intorno, solo acqua.

Sulla spiaggia vedo un’ombra. Sfinita mi avvicino, un uomo. Mi trascino sulla sabbia. L’uomo che prima annegava era ora lì davanti a me. Mi avvicino, non respira. Eseguo due insufflazioni, premo sul torace quindici volte. Niente. Continuo, non mi fermo. Le braccia dolenti, i giramenti di testa.

Uno, due, tre… niente.

Guardo il suo viso, è cambiato. Il suo volto è famigliare, Mike. Pallido, gli occhi terrorizzati fissi su di me.

Spalanco gli occhi. Un incubo. Mi accortoccio su me stessa, vorrei piangere, ma non ho più lacrime.

Perché devo essere tormentata in questo modo? Forse è giusto. Sì, lo è.

Mi alzo. Apro l’acqua e mi infilo sotto. Fredda come il ghiaccio. Mi siedo per terra aspettando che l’acqua mi spogli dal tormento, mi depuri. Ma esso si è infiltrato in profondità, diventando parte di me.

Mi asciugo, mi vesto, niente colazione.

Sono le sei del mattino, prendo la bici, mi dirigo al lavoro.

In mezz’ora eccola lì davanti a me, la mia vita, il mio incubo.

Prendo le chiavi e apro la porta. Accendo le luci dell’intero impianto. Mi vesto. Mi guardo allo specchio, bianca la mia pelle, rosso il costume.

– Buongiorno.

Sobbalzai. Una mano candida come la neve si adagia sulla mia spalla. Una ragazza mi sorride.

– Ciao Anna.

Si scosta i capelli rossi dal viso: – Ti ho spaventata?

– Ero sopra pensiero, tutto qui; ti aspetto sul bordo vasca.

– Ok.

Entro con le scarpe, apro la porta. Aspiro l’odore di cloro, del chiuso, accolgo il calore e l’afa come una benedizione. I vetri sono appannati, sulla superficie dell’acqua si appoggiano teloni blu di plastica.

– Come mai oggi siamo così mattinieri?-, mi chiese mentre tirava su i capelli con un fiocco.

– Vengo sempre a quest’ora, quindi se fai apertura con me ti ci devi abituare – la mia voce era calma, non si intravedeva la scocciatura nell’averla al mio fianco. Anna ha appena superato l’esame di assistente bagnante, un’altra sedicenne che crede che sia un gioco. Ora sta completando la sua preparazione; deve svolgere almeno trenta ore di tirocinio prima di poter trovare lavoro.

Entro nella stanza seguita da lei, giro le manovelle, schiaccio il bottone. Il tetto si apre.

– Osserva bene il tabellone -, le spiego. – Ciò che ti interessa sono queste piccole leve che devi attivare, dopo di che apri il tetto in due modi: come vedi con il bottone che ho premuto io il tetto si apre da solo fino in fondo, quest’altro invece devi tenerlo premuto fin quanto vuoi che si apra.

– Sì, me lo avevano spiegato.

– Quindi hai già fatto apertura con qualcun altro?

– Solo un paio di volte -, sorrido, almeno evito spiegazioni noiose.

Apro le porte che portano all’esterno. L’aria mattiniera d’estate colpisce il mio corpo, abituatolo al calore del piano vasca.

– Prendimi la manovella che c’è in infermeria.

Mi avvicino al bordo vasca. Mi distendo per prendere il telo di una corsia, lego il lato alla macchina, mi passa la manovella, la inserisco e inizio a girare. Il telo si muovo veloce, un rumore di frusciare. La fatica si fa sentire, i muscoli delle braccia sono tirati. L’estremità del telo si avvicina sempre di più, l’acqua è libera di mostrare la sua bellezza. Giro, giro…

Ecco la fine. Lo lego con una corda e lascio andare. Ora mi mancano gli altri cinque.

Trasporto la macchina in seconda corsia. Passo la manovella ad Anna

– Ora prova tu.

Incerta nei movimenti, ma carica, ripete la mia sequenza.

Le sue braccia tremano dallo sforzo.

– È pesante!

Tirata su prende un bel respiro, aveva davvero sforzato.

– Ora l’altro.

– Mi fa male il braccio.

– Devi allenarlo, altrimenti come farai quando sarai da sola?

Annuisce e senza lamentarsi tira su il terzo telo. Il suo braccio tremava per lo sforzo.

– Lascia, faccio io gli ultimi tre.

All’ultimo trattengo il fiato, le braccia sono deboli, il telo troppo pesante. In questi momenti sento la pace; lo sforzo, il dolore fisico sono compagni leali.

– Hai fato colazione? -, le chiedo rimettendo in ordine l’attrezzatura

– No.

– Vai pure a farla.

– Ma dobbiamo…

– Apri il bar e prendi qualcosa, intanto faccio io il test chimico.

Scrolla le spalle, ma accetta di buon grado la proposta.

Mi avvicino alla postazione del bagnino. Prendo le tre provette e le riempio dell’acqua della piscina.

Inizio il test. Prendo la prima pastiglia, la spingo all’interno della provetta senza toccarla, per evitare di variare i calcoli. La schiaccio e mischio, l’acqua diventa rosa. Pulisco la provetta la inserisco nella macchina. Cloro libero 1,4; regolare.

Controllo il cloro totale, l’acido isocianurico, il PH; tutto regolare.

Risciacquo le provette con la massima cura, senza mischiare i tappi.

Scendo in sala macchine e apro le pompe per i filtri, riguardo la sequenza scritta sul foglio; una manovra sbagliata e potrei danneggiare l’impianto di filtraggio. Intanto mi dedico alla pulizia del fondo della piscina; prendo l’aspirafango e il tubo flessibile che collego ad uno dei bocchettoni della vasca, in modo tale da far affluire l’acqua nei filtri. Inizio a pulire, allungando l’asta per la parte più centrale; è un lavoro noioso e lungo, devo stare attenta a ogni piccola particella di sporcizia sul fondo. In quel momento spunta Anna: – Scusami, ci ho messo un pò.

– Non importa.

Appoggio l’aspirafango e prendo il barile di plastica con il disinfettante.

– Mentre finisco con la pulizia del fondo, tu pensi a disinfettare il pavimento ok?

Senza aspettare una risposta glielo carico sulle spalle.

– Sai come si fa? -, le domando.

– Con una mano pompo con questa leva e con l’altra distribuisco attraverso il tubo il liquido.

Annuisco e torno al mio compito. Spesso alzo gli occhi per controllare, fa fatica a muovere il braccio in modo da rendere veloce l’operazione.

Finito il mio compito la raggiungo, ha già disinfettato metà bordo vasca.

– Lascia, continuo io.

Non si è ancora lamentata, ma percepisco la sua difficoltà

– Il tubo deve essere mosso solo con il polso, il braccio deve rimanere immobile -, le spiego mentre mi carco il barile sulle spalle.

Con una mano inizio a pompare e con l’altra lo distribuisco su tutto il resto del piano vasca e negli spogliatoi.

– La pompa è dura -, afferma imbarazzata

– Lo so, ma deve avvenire in modo continuo, altrimenti il liquido non esce.

– Devo disinfettare la vaschetta lavapiedi e le docce?

– Ci penso io, tu sei libera fino alle nove.

Voglio allontanarla, stare da sola. Capisce, scrolla le spalle, si allontana.

Finisco il lavoro in silenzio.

Ecco, ora ho finito. Mi asciugo le gocce di sudore. Guardo l’ora, le otto. Tra un ora aprirò la piscina.

Guardo l’acqua, mi chiama. Senza pensarci mi tuffo. Mi concentro sul freddo che colpisce il mio corpo, la sensazione di non respirare; tocco il fondo con le dita, scorrono lente su ogni piastrella.

Risalgo, riempio i polmoni d’aria.

– Allora sei pronta per il lavoro?

– Certo -, avevo dormito tre ore, era già tanto se gli rispondevo.

– Allora vai a mettere a posto gli sdrai, io vado a fare acquagym, appena finisci raggiungimi che tieni d’occhio la piscina.

– Certo capo! -, lo presi in giro. Mario aveva più esperienza di me, si credeva chissà chi.

Mi allontanai dal piano vasca. Tolsi le ciabatte e lasciai che l’erba mi procurasse un certo solletico, forse mi sarei svegliata.

Mi venne da piangere, ma quanti sdrai! A che cosa serviva metterli in ordine se poi ognuno li spostava come voleva?

Sbuffai, venivo pagata per un lavoro inutile.

Iniziai a metterli a posto.

– Scusi, posso prendere questi sdrai?

Mi girai, un ragazzo mi sorrideva indicandone qualcuno che avevo appena messo a posto. Appunto.

– Certo, sono ancora tutti liberi.

– Grazie -. Aveva gli occhi verdi, limpidi come l’acqua; i capelli marroni e scompigliati, segno del suo carattere.

Continuai a mettere a posto gli sdrai. Non potevo perdere tempo a fantasticare.

– Ehi ciao! -, i miei amici. – Che fai?

– Metto a posto gli sdrai; devono essere in fila così.

– Ma perché metti a posto qualcosa che poi ognuno sposta come vuole?

– Me lo chiedo anch’io… -, risposi seccata.

-Vieni a bere al bar con noi?

Mi giro a guardarli. – Tranquilla, chi vuoi che se ne accorga degli sdrai?

Giusto, cosa sarebbe cambiato?

– Mi scusi, ha delle ciabatte di riserva? -, la signora è sulla porta, in attesa di una risposta

– Certo, vado a vedere -, le risposi. Dovrei sorridere, ma non ne sono più in grado. Osservo la vasca; molta gente sta nuotando, spero che nessuno anneghi mentre sono via. Cammino veloce verso la porta degli attrezzi. Prendo le prime due ciabatte che mi capitano in mano e torno dalla signora.

– Grazie.

– Si figuri -. Osservo tutta la vasca, nessuna ombra nell’acqua.

Tiro un sospiro di sollievo.

Odio questa situazione. Per risparmiare ormai le piscine pagano solo un bagnino per volta. Se una persona muore mentre sono a controllare la caldaia vengo condannata per omicidio.

Mi giro verso i bambini che attendevano – Bene piccoli, andiamo a nuotare un pò? Forza, tutti a fare la doccia e poi in acqua!

I volti di quei sei bambini si illuminano e corrono verso le docce.

– Non si corre! -, urlo dietro.

Escono tutti felici e insieme ci dirigiamo verso la corsia vuota. Circondo i loro corpicini con il salvagente di spugna e mi calo in acqua. Uno a uno li accompagno nell’acqua fredda.

Loro si muovono tutti divertiti e quando entrano completamente tirano in su il collo, per non bagnarsi la faccia. Hanno tutti otto anni, tranne Fabio che ne ha sei. È lì sul bordo vasca con un dito in bocca, timido come solo lui sa essere.

– Fabio, entra in acqua… -, provo a persuaderlo – Ci sono io a tenerti.

Dopo diversi via vai si avvicina e si fa calare in acqua. Si aggrappa con la paura di affogare. Mi appoggio a un bastone di pugna e cerco gli altri.

– Marco, Stefania, tornate qua! -, i due, allontanati dagli altri, tornano con la testa abbassata. Adoro i bambini, ma non voglio che gli accada niente, anche se sono troppo dura; nessuno deve morire per colpa mia.

Sono in pochi ed è abbastanza semplice tenerli. I genitori osservano dal vetro i loro bambini che nuotano felici.

Uno di loro si aggrappa al mio braccio per giocare, ma Fabio lo spinge via con una mano.

– Mia -, e torna a circondarmi il collo

– Su Fabietto, non essere così possessivo.

Mi guardo intorno, tutti stanno bene. Li conto, non si sa mai. Uno, due, tre… ventitre persone, oltre al mio gruppo.

– Forza bimbi, iniziamo la lezione.

– Avete visto ieri sera Mario?

– Sì, era ubriaco perso.

– Ecco perché oggi non c’è.- intervengo divertita. – L’avete visto ballare sul cubo?

– Sì, non averlo mai notato!

– Mai visto un ballo così osceno.

Bevo un altro sorso della mia Sprite. Stefano mi porge la sua birra – Ne vuoi un sorso?

– No, meglio di no.

– Che vuoi che faccia un sorso.

Ma sì. Presi il bicchiere e lo avvicinai alle labbra.

– Sigaretta?

– Sai che non fumo, lo sai che ti uccide?

Un urlo mi fece sobbalzare. Corsi verso il piano vasca.

Una donna indicava una figura che si dimenava in acqua.

Dov’era Carlo?

Una scossa di adrenalina mi attraversò il corpo. Senza pensarci oltre mi tuffai in acqua. L’impatto fu così freddo da schiacciarmi i polmoni e farmi uscire tutta l’aria. Tenni d’occhio l’uomo che si divincolava, ignorando il bruciore agli occhi.

– Si calmi, ora l’aiuto io, ma deve stare calmo! -, continuò a divincolarsi. Scesi in profondità e, preso per le caviglie, lo girai con forza per poi risalire, fino ad afferrarlo per le ascelle.

L’uomo si girò di scatto e mi circondò le spalle. Sott’acqua cercai di divincolarmi, ma la sua presa era possente. Ero senza aria, sentii l’adrenalina crescermi. Mi spinsi più in profondità, scivolando dalla sua presa, mi allontanai di qualche metro e lo guardai divincolarsi. Non potevo salvarlo, non in quello stato.

Continuava a divincolarsi in acqua, cercando di rimanere a galla. Se mi fossi avvicinata mi avrebbe affogato. Era dura aspettare, ma la paura di essere assalita mi costringeva a star ferma a guardarlo.

– Mio Dio, lo salvi! Urlò la donna; ero paralizzata da quell’immagine, come una farfalla nella ragnatela di un ragno.

Dovevo aspettare che si placasse, che non avesse più la forza di divincolarsi.

Aspettai, aspettai ancora. Il suo corpo iniziò a muoversi a mala pena; ancora un pò, pensai.

La gente mi urlava contro, ma io non la sentivo, l’unico suono era il battito del mio cuore.

– Anna, fai il test chimico, intanto vado a pranzo, poi andrai tu -. Le ordinai.

– Certo -, mi sorrise.

La guardo, solare, piena di vita, felice del lavoro… come ogni nuovo arrivato, stupida come lo ero io, senza capire la vera responsabilità del suo lavoro.

Vado al bar, prendo un’ insalata, dell’acqua e una barretta di cioccolato.

Esco e fumo una sigaretta. A ogni tirata contorco la faccia in una smorfia. Odio il fumo, eppure non ne posso fare a meno.

Aspiro fino in fondo, intossicando bene i polmoni.

Rientro e vedo Anna con lo sguardo rivolto al cellulare.

– Hai fatto il controllo?

Alza lo guardo – Sì, tutto in ordine.

– Cosa fai?

– Mando un messaggio

– Va bene, ma stai attenta che non accada nulla intorno a te.

– Va bene, va bene…

– Scusi… -, una signora si appoggia al bordo vasca

– Dica.

– Ma è normale che brucino gli occhi senza occhialini?

– Sì signora, è in una piscina.

– Questo sì, ma mi prude anche il naso.

Mi viene un dubbio.

– Hai fatto il test del PH? -, chiedo ad Anna

– Certo è risultato 8,7.

Mi giro verso la signora – Non si preoccupi, ora aggiustiamo subito.

Non sembra molto convinta, ma inizia a nuotare.

– Anna, puoi mettere giù il cellulare?

– Sì, un secondo…

– Subito.

Lo mise subito via, la mia voce era fredda come il ghiaccio

– Prima di venire al lavoro dovresti imparare come si fa.

– Non ti seguo.- era sconvolta

– Il PH è superiore alla norma… -, le spiego – La legge prevede fino al 8,5, ma i valori consigliati non superano il 7,6.

– Scusa ho sbagliato… -, è arrossì

– Non devi più farlo. Non basta dire di aver sbagliato.

Questo è un lavoro e se tu fai un errore sei fuori. Solo perché hai superato l’esame questo non significa che sei in grado di essere assistente bagnante. Molte persone dipendono da te e tu non puoi stare tutto il giorno a messaggiare con le amiche.

Sono stata chiara? La mia voce era calma, ma dentro di me esplodeva una tempesta.

– Ok, non sbaglierò più -, era impaurita, ma almeno avrebbe fatto più attenzione.

Presi il “PH minus” e lo buttai in acqua.

– Salvatelo!

Era immobile.

Mi immersi, vidi un ombra e, preso per un braccio, lo trascinai in superficie. Riaffiorai con i polmoni completamente svuotati. Lo presi per le ascelle, allungai le braccia e, a pancia in su, nuotai a gambe a rana. Qualcuno mi toccò la spalla. I miei muscoli si irrigidirono, per un attimo mollai il ragazzo.

– Ti aiuto… -, era Mario che prese il ragazzo. Salii sul bordo, me lo passò per distenderlo sul piano vasca.

– No no! -, una ragazza si avvicinò per abbracciarlo, l’allontanai.

– Chiami il 118.

Piangeva – Io…

– Se non lo chiama morirà!-, le urlò Mario.

Divenne pallida, ma annuì e corse via.

Gli inclinai la testa e avvicinai l’orecchio alla bocca tenendo d’occhio il torace; non aspettai i dieci secondi – Non respira.

Premetti le mie labbra contro le sue; soffia decisa per due volte.

Mario iniziò le quindici compressioni toraciche. Il tempo sembrò fermarsi, un secondo sembrava una vita intera, ogni battito di ciglia un’eternità. Non ascoltavo le urla della gente, la mia mente era spenta. La rianimazione continuò meccanicamente, ci cambiammo di posto e iniziai le compressioni. Il ragazzo non rispondeva, restava immobile, bianco, spento.

Non poteva finire così, non poteva morire… iniziai a piangere, ma continuai, non mi fermavo.

Qualcuno mi prese per le spalle e mi scostò. Mi liberai dalla presa e continuai le insufflazioni, non doveva morire.

Quattro mani mi allontanarono, ma mi divincolai. Mario mi prese il viso tra le braccia.

– Calmati.

– No! Dobbiamo salvarlo!

– Ci pensiamo noi ora -, disse qualcuno.

– Presto, portiamolo sull’ambulanza!

– Accendete le cariche!

Mario mi abbracciò – É’ finita.

– Si sente bene? -, chiese Anna mentre mi aiutava ad alzare una signora che appena svenuta si era risvegliata.

– Certo, è stato solo un calo di pressione… -, ci assicurò.

– Chiamo il 118 -, presi il cellulare.

– No… -, si oppose. – Sto bene, non ce n’è bisogno.

– Ora, non vorrei che mi svenisse un’altra volta… -, insistetti

– Sto bene.- rispose seccata

– Se non vuole che lo chiami mi deve firmare alcuni fogli dove afferma che è stata lei a non volerlo chiamare.

– Va bene.

Presi alcuni fogli dalla scrivania e le passai la penna – Ecco, firmi qui, qui e qui.- Le indicai con il dito. Firmò e se ne tornò negli spogliatoi.

– Come mai ha dovuto firmare questi fogli? Non bastava dirlo a voce?

Per la prima volta le sorrisi – Le persone sono strane Anna.

Noi abbiamo il compito di salvarle, proteggerle e di chiamare il 118. Quella signora potrebbe uscire dalla piscina e svenire.

Se muore potrei essere incolpata per omicidio, se qualcuno testimonia che era svenuta in piscina e io non ho fatto il mio dovere. Infine, se sopravvive, potrebbe denunciarci perché non avevamo chiamato il pronto soccorso.

– Ma è stata lei a non volerlo! -, era incredula.

– Sì, ma la sua parola vale più della mia. In questo modo può chiedere risarcimento alla piscina.

– Non è giusto.

– Il mondo non è giusto -, affermai. – Hai presente la presa di liberazione con cui gli giri indietro il mignolo? – annuisce.

– Anche in quel caso, se sopravvive, può denunciarti se gli rompi il dito, allo stesso modo se le rompi una costola mentre fai la rianimazione a una persona.

– Sono persone che lasceresti annegare… -, affermò Anna.

– Così ti becchi la colpa di omicidio colposo, forse è meglio la denuncia per il dito.

– Quanto pagano all’ora?- chiese interessata.

– Di solito il bagnino circa sei euro all’ora, mentre chi insegna due o tre euro in più.

– Ma è pochissimo!

– Cosa è pochissimo? -, Stefania si avvicinò a noi.

– Ciao… -, le dissi, poi mi rivolsi ad Anna. – Ho finito il mio turno, vado a casa.

– Aspetti, le vado a prendere la roba – e corse via.

Stefania si avvicinò a me: – É la prima con cui vai così d’accordo.

– Le ho fatto una bella lavata di capo.

Alzò gli occhi al cielo: – Cosa ha fatto?

– Continuava a messaggiare, intanto aveva sbagliato il PH, era troppo alto.

– Sono cose che capitano…

La fulminai. – Non devono capitare, non si può sbagliare quando si tratta di vite!

– Fumi ancora?

– Sono affari miei.

– A che ore sei arrivata?

– Sei e un quarto.

Si mise di fronte a me: – Sei troppo dura con te stessa.

– Lo sono poco -, il mio sguardo era rivolto ai natatori

– E guardami quando ti parlo!

– Sono ancora in servizio.

– Sono passati dieci anni… -, la sua voce era piena di compassione.

– Già, adesso Mike avrebbe ventisei anni come me.

– Non è stata colpa tua, ero presente hai fatto tutto il possibile.

Cosa stavate facendo voi bagnanti? – ci chiese il poliziotto.

– Io ero andato a controllare la zona caldaie, c’erano dei problemi -, rispose Mario

– E lei? -, sentii una stretta al cuore.

– Lei era a mettere a posto le sdraio, l’avevo mandata io perché è una alle prime armi, quando sono arrivato lo stava portando in salvo -, mi difese Mario

– Signorina… -, continuò il poliziotto. – Una donna afferma che lei lo ha lasciato intenzionalmente annegare, come mi può spiegare ciò?

Presi un respiro profondo: – Avevo provato salvarlo, ma era così agitato che si aggrappò e mi ha quasi annegato.

– Così ha lasciato che annegasse… -, concluse.

Sbattei le mani sul tavolo: – Ho aspettato che si calmasse agente!

– Prima la nostra vita, è una regola importante che viene insegnata a tutti noi, lei ha agito come le hanno insegnato -, spiegò Mario.

Mi lasciarono andare, mentre Mario rimase a rispondere alle accuse. Lui era in servizio, a nessuno importava che era intento ad aggiustare un reparto della piscina.

Dovevo essere io al suo posto. Ero a bere con gli amici, ero stanca per essere andata in discoteca, avevo atteso troppo prima di salvarlo.

Io lo avevo ucciso.

Non saluto nessuno, esco dalla porta dell’inferno che mi ricorderà per sempre di essere un’assassina.