I racconti del Premio letterario Energheia

Il fiore de L’Aquila_Giorgia Spurio, Caselle di Maltignano(AP)

_Racconto finalista diciannovesima edizione Premio Energheia 2013. 

 

5 aprile 2009

Elena Ore 10.00

Buon giorno, caro diario, oggi è domenica, potrò riposarmi per quanto gli esami di università si avvicinano.

Mi sono regalata qualche ora di sonno in più, accoccolata tra le coperte del letto.

Mentre Camilla, la mia coinquilina, la sento ripiegare su se stessa, nei suoi pensieri tra l’odore di caffè e del latte.

Si è lasciata ieri sera con il fidanzato. Fanno sempre così, prima si baciano, poi si lasciano. Stasera rifaranno pace.

“Elena?” da dietro la porta, sussurra il mio nome.

Glielo avevo chiesto io di svegliarmi, così che potessi dedicarmi allo studio.

“Sì, sono sveglia!” bofonchio, ancora con gli occhi chiusi, pronta ad assaporare la mattina domenicale.

Le campane dal Duomo si fanno sentire a gran voce, e in punta di piedi mi avvicino alla finestra.

Spalanco le persiane cacciando via le prime api, pronte a trovare ristoro, con – in sottofondo – il tubare dei piccioni che hanno l’umile e onorata missione di riempire le antiche piazze di città.

Da qui posso ammirare i due campanili gemelli, bianchi come le nuvole e austeri, pronti a farsi ammirare per la loro candida figura scintillante.

Mi stiro i muscoli, tirando su le rosee braccia del pigiama a fiori e respiro l’aria di questa città, qual è L’Aquila, che mi ospita.

Corro in cucina e aspiro gli odori che impregnano la stanza vissuta. È un vizio che non riesco a togliermi da quando ero piccola e dormivo nel lettone di nonna e poi correvo da lei, ai fornelli, dove i profumi del “Ciambellone” e del pan di spagna si fondevano con il bianco aroma del latte.

Apro il mio immancabile libro. Era lì, ad attendermi dalla sera precedente. L’avevo posato sulla solita sedia, vicino al frigorifero.

E tra un biscotto e un altro, m’immergo tra i versi di Dante per l’esame sulla “Divina Commedia”.

A volte, penso se realmente in un Inferno potremmo finire, se sia più faticoso accettare il girone assegnatoci, oppure che siano più dolorose l’attesa e l’ansia al Giudizio Universale.

Mi chiedo se sia più terribile lo sguardo deluso di un padre che immagino tra le sopracciglia nere, folte e corrugate di Dio. E fantastico quanto possa filtrarsi l’emozione della paura, nel momento in cui saremo privati di ogni cosa, per patire in eterno la nostra punizione.

Camilla mi distoglie dai pensieri salutandomi e sbattendo la porta.

E di là, alla mia destra, le campane suonano a festa.

 

Marco Ore 12.00

Buon giorno, caro quaderno di viaggio, anche questa domenica ho un forte mal di testa.

“Un’aspirina e passa tutto”, dice sempre Federico.

Ma io mi rendo conto che ieri sera, abbiamo forse un po’ esagerato e ne ho, purtroppo, la prova tra le bottiglie di vino rosso, vuote, lasciate sulle scrivanie.

“Ma bisogna festeggiare i 30 e lode”, dice sempre Mattia.

Non hanno tutti i torti. Un po’ di svago fa bene… ok, quaderno, non mi guardare così, lo so, è inutile inventarmi scuse.

Cambiamo argomento, allora. Essere giudicato da un ammasso di fogli a righe, la domenica, dopo la sbornia del sabato sera, non è tra i miei programmi.

Mi tuffo in doccia.

Sai, ieri sera, solo per un attimo, ho rivisto Elena, in piazza. È così bella…

Che si può dire quando vedi gli occhi verdi di Elena, se non, che è bellissima.

L’ho solo salutata come un ebete, niente di più, mentre Federico e Camilla litigavano per l’ennesima volta.

Non sono riuscito a dirle nulla, mentre lei mi sorrideva.

Non sono riuscito a far nulla, mentre mi tremavano le mani.

Nulla! Mentre lei mi guardava dolcemente, nascondendo lo sguardo tra le ciocche ramate, mosse dal vento. E poi è fuggita via, subito. Via! Svanendo, come le fate delle fiabe che mi leggeva mia madre da piccolo.

L’ho vista solo poche volte, Elena. È solo, forse una fortunata coincidenza che io sappia il suo nome.

È solo una fortunata coincidenza… che io sappia la sua età, la sua facoltà d’Università, i libri che legge o quali copertine le piaccia sentire al tatto dei polpastrelli, in biblioteca.

La spio così, tante volte, senza farmi scorgere. Nascondendomi tra gli scaffali, ammiro, tra gli squarci delle librerie, la sua pelle bianca, come la luna d’estate.

È solo una fortunata coincidenza.

 

Elena Ore 16.00

Salve, diario, siamo ancora qui. Con le finestre chiuse e le pagine del libro aperte. In tuta e con i capelli legati. In pantofole e con gli occhiali da vista, ben posizionati sul naso.

E mangio biscotti al cacao presi dalla dispensa e mi perdo tra il girone dei golosi.

E mangio parole tra i medioevi che non ci appartengono più.

Tra poeti che, all’incontro degli occhi dell’amata avrebbero dipinto d’azzurro ogni muro della città e lo facevano con delicatezza e con tanta altra forza, attraverso i loro versi, tutto per avere il suo saluto.

E sai, diario, saranno cambiati gli abiti, ma l’incontro degli occhi fa tremare ancora la voce.

Ieri sera, in piazza, c’era Marco.

Le guance erano arricchite da una corta barba, dal colore rosso. E i suoi occhi azzurri mi fissavano tanto, che mi traballavano le gambe, tanto che il mio ciao era lieve e si confondeva nell’aria.

Io so dei suoi occhi che mi proteggono in biblioteca. Io sento le sue pupille sulle mie dita quando scelgo i libri, tra le mille enciclopedie.

Io fingo di non accorgermi di lui, abbassando le palpebre e sfiorando, con le ciglia, i suoi soffi impercettibili, nati dalla sua tachicardia e dal respiro trattenuto.

E mi perdo, ricordandomi di lui, dei suoi gesti e del suo sorriso.

“Elena, stasera siamo invitate” mi dice Camilla, mentre sussulto, uscendo dal mio mondo etereo, costruito da idee così fragili da sembrare fatte di cristallo, casomai mi domandassero di quale materiale siano rivestite.

“Dove?” le domando, fingendo di leggere, mentre ho perso il segno, da un pezzo.

“Alla Casa degli Studenti” mi risponde.

“Hai fatto pace con Federico?” le chiedo, sapendo che lui alloggia lì.

“Diciamo di sì – dice, arrossendo e dondolando, leggermente, la testa. – L’ho sentito ora al telefono. E siccome dobbiamo finire di chiarirci, dobbiamo incontrarci” afferma, sorridendo.

Io le rispondo con un cenno di sorriso delle mie labbra e annuisco.

Andare alla Casa degli Studenti, significa poter incontrare Marco.

Significa poter dire qualcosa di più di “ciao”.

 

Marco Ore 19.00

Solo mezz’ora fa, Federico mi ha avvertito che stasera le ragazze mangeranno la pizza con noi.

Se viene la sua amata Camilla, verrà sicuramente anche Elena.

Quindi, quaderno, puoi immaginare. Ho il cuore che sobbalza all’impazzata.

Mi sono visto allo specchio. E ho deciso.

Ho preso la lama e mi sono tolto la barba. Mi sono cambiato i jeans e ho indossato la camicia. Ho rubato il profumo a Federico, quello che lui usa solo per momenti speciali, senza che si accorgesse. Ho chiuso tutto quello che era sul mio letto, nell’armadio.

Spero che a nessuno venga in mente di aprirlo, perché potrebbe scoppiare, sputando schifato tutte le mie maglie.

E attendo le 20.00.

“Marco, qualcuno deve andare a prendere le pizze. Ci vai tu, insieme a Mattia?” la testolina di Federico, completamente coperta dai suoi enormi occhiali da vista, fa capolino dalla mia porta.

Sbuffo e poi gli chiedo: “Per che ora le avete prenotate?”

“Per le otto, ovvio. Così non saranno fredde quando arriveranno le ragazze!” mi afferma, fiero dei suoi calcoli.

Mi arrendo e gli confermo che andrò io in pizzeria.

In realtà, è una specie di festa per tutti i camerati. Quindi saremo più persone, oltre a noi, ad andare a prendere le pizze saremo i soliti cinque: Mattia, Giulio, Salvatore, Andrea ed io. In poche parole, quelli che, sicuramente, assieme alle pizze, non prenderanno bibite, ma solo birre.

A volte penso che ci inviino appositamente.

E scocca il decimo minuto, prima delle 20.00. Non la vedrò arrivare.

Elena sarà già qui quando arriverò, con le braccia occupate dai cartoni delle pizze.

Sarà già qui.

“Forza, Marco, andiamo!” mi urla Mattia, da dietro la porta.

Sospiro, mentre il cielo stellato si apre alla nostra vista.

 

Elena Ore 20.00

Arrivo agitata. Cercando tra i vari sorrisi, quello di Marco.       Ma non lo vedo.

Federico ci viene incontro. Un attimo di esitazione, poi Camilla lo bacia.

“Non vedo Marco” dichiara lei, come se avesse letto il mio pensiero.

“È andato a prendere le pizze, insieme agli altri” ci dice Fede, poi, indicandoci i tavoli, ci invita a sedere: “Intanto accomodatevi”.

Mi guardo attorno. Non c’ero mai stata nella Casa degli Studenti, è veramente vecchia, come dicono i miei amici.

Mi osservo le mani screpolate, come al solito mi dimentico la crema idratante e poi mi sistemo i capelli.

Non sapevo cosa indossare per stasera.

Il tacco mi sembrava esagerato. Allora ho scelto jeans e maglietta attillata. I minuti passano e fisso la porta d’ingresso.

 

Marco Ore 20.20

Le birre in busta, ben legate al braccio destro e i cartoni di pizza accatastati, uno sopra l’altro. Così passeggiavamo salutando le 99 Cannelle alle nostre spalle. Passo dopo passo ricordavo le chiacchiere in pizzeria.

Mentre attendevamo l’uscita delle pizze dal forno a legna, la signora lì, alla cassa, parlava con altri clienti. Tra i vari argomenti, che riguardavano la verdura o l’affettato da assegnare per ogni gusto, in mezzo c’era altro: “Ultimamente ci sono le scosse di terremoto. Le ho sentite, e come no! Mia cara signora bella. Ma qui, a L’Aquila, ci siamo abituati. Siamo forti, però ho mia figlia che si spaventa. Non hai idea, si spaventa tantissimo. E che dobbiamo fare? È la terra che ce li manda… Margherita in uscita!”

Da piccolo ricordo le scosse che venivano dall’epicentro di Foligno e mia sorella, più piccola, ne aveva terribilmente paura. Me ne accorgevo dal suo sguardo fisso verso il vaso che saltellava sul tavolo. Allora io le stringevo le mani. E pian piano le posavo la testolina sul mio petto. E tutto pian piano passava.

Senza accorgermene, arrivo alla Casa degli Studenti. La scorgo! Elena e i suoi occhi smeraldo. Poso tutto sul tavolo. Adocchio il posto vuoto a suo fianco.

“Ciao, Elena! Posso, qui?” le chiedo, togliendomi il giubbino e facendolo scivolare sullo schienale della sedia, marcando, così, il territorio.

Lei mi sorride.

Prendiamo le pizze, stappiamo le birre e lei mi sorride, ancora.

Parliamo, parliamo così tanto, che non avrei mai pensato che quella ragazza potesse piacermi ancora di più. Mi racconta dei suoi esami, e dei libri che legge. Mi racconta dei musei che ha visitato. Mi racconta del pianoforte che è a casa, dai genitori e che lei suona con nostalgia ogni volta che torna, come per salutarlo e per sussurrargli, nota dopo nota, che le è mancato.

Finiscono le pizze e finiscono le birre.

E c’è la musica tra i corridoi e le camere con le porte aperte.

E lei, Elena, mi sorride ancora, ancora una volta.

 

Elena Ore 23.00

Le canzoni e le chitarre si appropriano dei muri della Casa degli Studenti. Marco è lì, vicino a me. Mi ascolta attentamente ed io non pensavo potessimo avere tanti gusti condivisi in fatto di lettura o di musica. Per pochi attimi, le nostre mani si sono sfiorate. Per pochi attimi ho avvertito il brivido che mi ha percorso per tutto il corpo.

Le ragazze cantano e le coppie ballano. Federico e Camilla, all’angolo, finiscono di fare la pace.

Lui l’ammira, mentre è scalza e balla sulla punta dei piedi. Lei lo guarda tra i capelli biondi e crespi che, impetuosi, le scendono lungo le spalle. Si avvicinano, a ritmo della musica, si ritrovano e poi si baciano. E le chitarre continuano, imprevedibili, sempre più veloci.

Marco mi prende la mano. Nota il mio rossore e la mia smorfia di stupore. Subito lo blocco: “No, Marco, io non so ballare”.

E lui mi ammutolisce: “Nemmeno io so ballare” mi dice, trascinandomi verso di lui.

E danziamo, lungo i suoni delle tarante pugliesi. Lungo le canzoni rock intramontabili. Lungo le rive dei fiumi che canta De Andrè.

Lo sento respirare il profumo dei miei ricci e un altro angolo è libero. Poso il capo sulla sua spalla. Ho timore di aprire gli occhi e di incontrare i suoi. Li socchiudo e lo vedo sereno, che mi guarda con meraviglia, come farebbero i bambini, davanti al grandioso mammut al Forte Spagnolo.

Quasi percepisco il suo respiro.

Quasi percepisco le sue labbra.

E apro gli occhi per poter veder riflettere i suoi azzurri e limpidi.

Quasi percepisco il suo desiderio di baciarmi.

Inclino il viso e accarezzo, leggera, la sua guancia.

E lui mi bacia.

 

6 aprile 2009

Marco Ore 01.00

L’ho baciata. Leggera e esile lei, così indifesa, come le fanciulle delle storie che leggevo alla mia sorellina più piccola. Timida e dolce è Elena. E il tocco morbido delle sue labbra, l’avevo inseguito per tutta la sera. Penso di amarla, Quaderno, sarò un pazzo forse, ma penso di amarla.

L’ho appena accompagnata a casa. Ho cercato la sua mano per tutto il tragitto.

L’ho baciata ancora, sotto il porticato del palazzo che la ospita.

Mi son voltato e ho preso – solo in prestito – un fiore, dai vasi maestosi della Piazza del Duomo. Era un ciclamino, spaurito tra le mie mani e l’ho delicatamente posato tra i lunghi capelli di Elena.

Mi guardava stupita, ma era pronta ad accettare qualsiasi cosa da me. Anche quel fiore così piccolo e infreddolito. Si è alzata sulla punta dei suoi esili piedi e si è stretta forte alla mia camicia, per poter baciarmi piano, lentamente,e augurarmi la buonanotte.

E poi è svanita di nuovo, dietro il suo grande portone di legno.

Ed io, quaderno, sì, sarò un pazzo, ma penso di amarla.

 

Elena Ore 02.00

Non riesco a prender sonno. I baci di Marco sono dipinti e impressi tra i miei ricordi. Poche cose ci siamo detti, dopo il primo bacio. Ci bastava intrecciare le dita e ci sentivamo stranamente felici.

Mi bastava sorridergli, per contemplare il luccichio dei suoi occhi.

Si abbassano le ciglia, è vero, caro diario, le mie palpebre pian piano si chiudono stancamente e il soffio leggero di Marco è come se lo sentissi, con me, nella notte, pronto ad alimentare il fuoco nel mio petto.

Non vedo l’ora che sia di nuovo giorno e che io possa, di nuovo, abbracciarlo.

 

Marco Ore 2.30

Ho annientato di chiacchiere il mio caro amico Mattia. Gli ho parlato di lei, senza sosta. L’ho visto cedere, ma lo scuotevo per avere la sua attenzione. Probabilmente, Mattia dormiva con gli occhi aperti, mentre gli raccontavo che avevo appena baciato la ragazza più speciale del mondo.

Quaderno, come devo fare? Se prima non facevo altro che pensare ad Elena, ora la vorrei soltanto stringere forte, tra le mie braccia, e dirle che la proteggerò sempre, da qualsiasi cosa.

Lascio in pace il mio amico. Spalanco la porta della mia camera. Ho troppa fatica per indossare il pigiama. Cado a quattro di spade sul letto e mi abbraccio il cuscino. Fuori le stelle ululano strani sentimenti, ma io, stasera, ne voglio solo uno, l’emozione fortissima di amare e di scegliere di amare la mia Elena.

 

        Ore 03.00

        Sembra che la luna voglia spalancare la bocca per suonare l’allarme, ma le nuvole, nere e di cenere, l’attraversano,

pungendola e imbavagliandola.

        Sembra che il sole sorgerà tardi, quest’oggi.

 

Elena Ore 03.32

Crolla tutto.

Il letto trema. Le pareti, solo ora ci faccio caso: la casa è fatta di muri e di intonaci e tremano come farebbero le mani dell’uomo più potente, sotto il peso del cielo.

Ho sentito il boato ed è crollato il cosmo e l’Universo insieme.

Il peso di quel cielo si è sgretolato sul mio tetto.

Ho pensato che fosse arrivata la fine del mondo, che forse Dio, stufo delle nostre bugie, si è ricordato di noi, punendoci. È forse già arrivato il Giudizio Universale. Ed io che lo immaginavo pittorico e a tratti romantico, come le sfumature che Michelangelo ha regalato alla Cappella Sistina.

Non si ha neanche l’attimo di salutare i più cari. Non si ha il tempo di dire “Ti amo”a chi hai appena conosciuto, ma che lo senti Tuo, fin da sempre, come una parte di te che ritorna e che, difficilmente, vorresti far correre lontano.

Ma il tutto è così improvviso. Lungo e intenso, quanto il tuono, terrificante, quanto il suo fulmine.

Ho urlato. Ho stretto i denti e gli occhi.

E sono precipitata, giù, insieme al tutto che è caduto negli inferi.

Giù.

E l’unica immagine nella mia mente è il sorriso di stasera, il sorriso di Marco.

 

Marco Ore 03.32

Il terremoto!

Chiudo le mani in pugni, cercando di ricordare il calore della mia sorellina, quando l’abbracciavo.

Ho sbarrato le pupille, mentre la vista portava con sé l’immagine del sogno e cioè il colore del ciclamino tra le ciocche di Elena.

Ho aperto così gli occhi, per scorgere, tra la poca luce, il soffitto che mi veniva contro.

Il vaso sul tavolino non smette di saltellare.

Chiudo allora gli occhi, per avere come ultima fotografia, tra le iridi senza peccato, i volti dei miei genitori e quel viso di Elena che mi guardava di nascosto e complice.

Quel vaso sul tavolino non smette più di saltellare.

Poi è l’impatto che lo riversa, come frantumi, sul pavimento ed esso stesso diviene terra.

Ed è come una botta, una botta in testa, poi il nulla.

 

 

Elena Ore 04.00

Silenzio.

Sirene.

Urla.

Mi gira la testa.

Non posso muovermi.

Apro gli occhi e sembra che ancora li ho chiusi.

Sono incastrata nel ventre di una trappola che era la mia casa.

Tra le macerie.

E quando me ne accorgo, voglio solo piangere.

Piangere per il male alle gambe e alle braccia.

Piangere per la paura, per il fatto che non riesco a vedere la luce.

Piangere perché vorrei sentire la voce dei miei genitori, ma sono bloccata qui, nella gola dell’inferno, dove nessuno può sentirmi.

E piango! Forse, esaurendo il mio ultimo ossigeno. Piango!

Vorrei gridare il nome di Marco e tra i pensieri confusi mi domando come possa stare.

Ho paura, caro diario, ti prego chiama qualcuno,

        ti prego, chiama qualcuno.

 

Marco Ore 04.00

Buio.

 

Elena Ore 05.00

Sono svenuta, penso. Almeno non ho sentito dolore.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, dico con voce fievole il Padre Nostro.

Sento delle voci, sento delle sirene.

“Sono qui!” vorrei urlare, ma ciò che esce è solo fiato, senza voce.

“Sono qui!” ho la gola secca e la paura che andranno oltre. Oltre questo cumulo di pietre che mi soffoca.

“Sono qui!” prendo un gran respiro e provo a mandare fuori tutto, la rabbia e la paura, per gridare più forte.

Forse mi hanno sentito.

Mi sembra di sentire l’abbaiare dei cani.

Voci di persone.

“Sono qui!” urlo più che posso.

Le dita ferite pigiano sulle grigie pietre che, poco prima, erano mattoni.

“Sono qui!” urlo, tirando fuori la voce e la polvere che ho nei polmoni.

“Sono qui!” grido, urlo, digrigno.

Vorrei scavare nel vuoto in cui sono stata risucchiata, ma il sangue impregna le piegature dei polpastrelli.

Poi d’improvviso, come un flash, mi chiedo di Camilla.

Io devo sapere come stanno gli altri. Fatemi uscire.

“Sono qui!”

 

Marco Ore 05.00

Buio.

 

Elena Ore 06.00

Ho udito un cane abbaiare, sempre più vicino.

Un rivolo di sangue mi percorre la guancia, mentre mi sento sempre più esausta e le palpebre vibranti sono capaci di tendere inganni e allucinazioni.

All’improvviso scorgo un buco. Tra le pietre, i mattoni, il caos, c’è un cielo che si vede meno nero.

Cerco di girarmi e di allungarmi.

Mi piego e posiziono il ginocchio, senza curarmi se si ferirà.

Cerco di infilarci la mano. Sento l’aria e la muovo.

“Sono qui!”

Calda è la lingua del cane. Ed io piango, ora, per quel tocco magico e di speranza.

Il calore del morbido muso del pastore tedesco, è il mio primo contatto verso la vita, che pensavo di aver perso.

“Veloci, veloci! C’è una persona!”

Li sento, finalmente, si sono accorti di me.

“Via, i massi! Su, ragazzi!”

Non si sono dimenticati di me.

“C’è una persona, qui sotto! Forza ragazzi!”

Tremo, con il timore che la felicità sia qualcosa di troppo grande e il pianto mi scuote.

“È una ragazza! Prendete la barella!”

Li vedo.

È come riacquistare la vista, dopo la cecità.

E ad aprirmi di nuovo al mondo sono i visi degli uomini della Protezione Civile, nelle loro divise verdi, a strisce gialle.

“Ci siamo noi, qui con te, piccola!”

A parlarmi è un signore che può avere l’età di mio padre.

Mi solleva. Mi salva dalle macerie del Tartaro.

Ed io l’abbraccio forte, tra le mie braccia.

Mi fanno sdraiare sulla barella.

Sussulto e non riesco a frenare il singhiozzo.

Non posso domandare nulla, ora, una maschera d’ossigeno mi adorna il volto.

Non posso chiedere, non ancora degli altri e chiudo gli occhi.

 

Marco Ore 06.00

Buio.

 

Elena Ore 10.00

Mi sveglio in ospedale.

Sono sotto osservazione, ma i medici dicono che sto bene.

Ci sono mamma e papà. Appena hanno sentito la scossa, hanno acceso la tv. Hanno visto le immagini del disastro e sono corsi in auto, per venire da me.

Stringo forte le loro mani, tra le lacrime.

La mamma si commuove e tremando, mi accarezza: “Ho pregato tanto. Tanto, amore mio. Durante tutto il viaggio, ho pregato per riabbracciarti, tesoro mio”.

Tendo la guancia alla sua mano. Lei non sa quanto ho desiderato le loro carezze e le loro voci.

Non parlo. Non ho voglia, anche se ho tante domande che girano senza sosta nella mente.

Papà si alza e fa entrare Camilla.

È ben avvolta da una coperta e mi spalanca le sue braccia.

Piange.

Non ho mai visto piangere Camilla a quel modo.

Dal vetro che mi separa dal corridoio, scorgo i volti degli altri ragazzi.

Chi ha un cerotto sul viso e chi una garza, chi il braccio rotto e chi la gamba.

Sono tutti così tristi.

Sono lì, ritti e composti, come i chierichetti nelle processioni.

Federico, Mattia, Andrea, Salvatore, Giulio, Giada, Martina, Sonia, Carla, Valentino, Davide, Sara, Guido, Chiara… e gli altri dove sono?

Forse a letto come me.

“Marco? Come sta Marco?”chiedo, alzando il viso di Camilla.

Ma lei non vuole rispondermi.

“Come sta Marco?”

Lei si proibisce di dirmelo.

Perché? Non sa quanto male potrebbe farmi non saperlo. Potrei impazzire.

“Ti prego,Camilla, dimmelo. Se sai qualcosa, devi dirmelo” riesco a dire, debolmente.

Ma papà la allontana.

“Vi prego, ditemelo, vi scongiuro!”

E guardo la mamma.

Ma nessuno mi parla.

Nessuno.

E mi sento, di nuovo, incastrata in quel buco grigio che mi aveva travolto e portato nelle viscere del pianeta.

 

Elena Ore 11.00

Hanno scelto di lasciarmi sola.

Silenzio.

 

Elena Ore 12.00

L’odore di ospedale mi pervade, sempre più.

E il dubbio, con esso, mi corrode lento.

C’è ancora silenzio.

 

Elena Ore 13.00

Mio padre e mia madre hanno scelto di controllarmi dal corridoio.

Il dubbio, ho paura, che possa diventare certezza.

E le lenzuola verdi si fanno pieghe, da stringere sotto le mani tese e con i muscoli contorti.

 

Elena Ore 14.00

È un medico che viene a farmi visita.

Mi controlla gli occhi, poi si siede vicino a me.

“Non hai nulla di rotto. È quasi un miracolo sai”.

I baffi grigi, fanno da cornice al labbro superiore, pronunciato.

“È stato un terremoto orribile!”

Poi sospira. Mi guarda.

“Innanzitutto, mi presento. Sono il capo reparto, dottor Sebastiano Rivieri”.

Lo fisso.

“Molti di voi sono stati fortunati: siete arrivati in tanti qui, in ospedale, in tanti giovani”.

E mi domando se tra quei fortunati ci fosse stato anche Marco.

“Temo che molti stiano ancora combattendo sotto le macerie” dice, d’improvviso.

E il cuore, quello che ancora mi è rimasto in vita, mi sale in gola.

“E altri, purtroppo, sono arrivati a noi, ma… senza…”

Piano, avvicino la mano e la poso sulla sua.

“Nessuno ha il coraggio di dirmelo. E io ho il diritto di saperlo. Marco De Angelis, è il suo nome. Io devo saperlo! Ditemi se è ancora vivo!”

Inclina la testa, l’abbassa.

Neanche lui ha il coraggio di guardarmi negli occhi.

“È proibito stancare i pazienti. Noi abbiamo il dovere di tutelare la vostra salute. Ma omettendo le verità, a volte, non ci accorgiamo che una malattia più infida, come il dubbio, possa essere più pericolosa e trasformarsi in folle ossessione”.

“Ditemi, per favore!”

Il dottore sobbalza. Non ho avuto un tono freddo, ma sono stata affettuosa. Pronta al peggio, gli ho conferito debolmente: “Per favore!”

Ha preso un bel respiro e con tono pacato mi ha parlato: “Marco non ce l’ha fatta. Hanno ritrovato il suo corpo, esanime”.

È un pugnale che ti taglia a metà. Ti trafigge il cuore, te lo estrae dal seno e poi, senza pietà, lo rimette al suo posto.

Stringo tra le mani le dita del medico.

E abbasso la testa, lì, posandomi come su di un cuscino.

Le labbra di Marco, il bacio di quella stessa notte. I suoi occhi azzurri. Il mio viso sul suo petto, poggiato delicatamente sulla sua spalla. I suoi capelli rossi. La sua camicia bianca alla quale mi sono stretta. Il ciclamino che mi ha regalato. Il suo sorriso. Il ballo improvvisato. I libri che ha letto, la musica che ascoltava.

Quel suo “ciao” in piazza, al quale ho risposto timidamente.

Sussulto e tremo. Sento freddo e mi aggroviglio come un feto.

E di nuovo piango.

 

Elena Ore 17.00

“È permesso?”

Fissavo il muro ed entra una ragazza.

È bellissima. Ha dei bei capelli rossi e gli occhi azzurri belli… come quelli di Marco.

“Noi non ci conosciamo” mi dice.

“Io sono Francesca, la sorella di Marco”.

Trema anche lei. E anche lei ha gli occhi rossi e consumati.

“Ho chiesto a Federico chi è stata l’ultima persona che ha visto mio fratello. Oltre a Mattia, l’altro nome è stato il tuo, Elena!”

Respira affannata.

Io cerco di tirarmi su con i pugni.

“È stato devastante. I miei genitori ed io, saputa la tragedia, siamo corsi qua. Ma… ma mio fratello non era ricoverato in nessun luogo, bensì, era stato direttamente portato all’obitorio…”

“Marco, mi ha baciato stanotte” le dico, senza preamboli, né prefazioni.

“Mio fratello è… era un ragazzo che se si innamorava, avrebbe amato per sempre quella donna”.

“Mi ha regalato un ciclamino” le dico, ancora.

“Tu sei la ragazza di cui mi parlava sempre. Era troppo timido. Ma mi diceva sempre di te e mi chiedeva consigli” mi risponde,  sorridendo.

Non riusciamo a guardarci negli occhi, mentre parliamo.

Sembriamo sconnesse.

Eppure, parliamo della stessa persona.

“Anch’io ero segretamente innamorata di lui” dichiaro.

“Sarà stato felicissimo. Mattia mi ha detto che è andato a dormire, parlando di te”.

Ho il coraggio di prenderle le mani.

“Quando da piccoli c’erano stati i terremoti, lui mi abbracciava forte e tutto passava. Con lui non avevo paura di niente – mi confida. – Avrei voluto essere lì. Stringergli forte le mani e avvisarlo. Avrei voluto essere lì e salvarlo!”

Le lacrime arrivano sempre. E bagnano i sentimenti, oltre a rigare le gote, fino al collo.

Le stringo più forte le mani.

E lei mi guarda.

“In questo modo, con la tua stessa forza di ora, avrei voluto stringere le sue mani. E svegliarlo! E portarlo via!”

Le sorrido tra le lacrime.

“Dobbiamo promettergli che continueremo ad amarlo, in questo modo. E ci prenderemo cura delle sue cose. E che saremo felici per lui. Marco aveva un sorriso bellissimo. L’ho amato per come sorrideva”.

“Anche lui – mi afferma. – Anche lui amava il tuo sorriso!”

“Allora dobbiamo prometterci che sorrideremo per lui. Che insieme a lui sorrideremo, di nuovo”.

Annuisce.

“E Francesca, promettimi che ci saranno tanti ciclamini, quando sarà ora di dirgli arrivederci. Tanti ciclamini!”

Mi sfiora il mento,e poi mi asciuga sulle guance,con le sue dita.

“Te lo prometto!”

 

È una promessa che ha nel petto anche la città di L’Aquila e la sua gente. La promessa è di sorridere, sempre, anche con il freddo, anche davanti alle case distrutte, anche contro l’ira e l’odio del diavolo.

Perché i gironi dell’inferno prendono vita e ci mettono alla prova.

Ma io non ho paura e non ne voglio avere, mai più, perché con me stringo il fiore di ciclamino che Marco mi ha donato dalla Piazza Duomo che L’Aquila aveva caro.