I racconti del Premio letterario Energheia

I giostrai_Alessandra Casaltoli, Livorno

_Racconto finalista tredicesima edizione Premio Energheia 2007.

 

Vent’anni fa. C’era una fiera nel mio rione, ogni tredici di giugno. Mi ci portavano nonna e zia. Prendevano i soldi dal barattolo dei risparmi per comprare la biancheria da un ambulante napoletano che, per attirare più clienti, teneva un microfono sostenuto da un collare rigido davanti alla bocca così da poter muovere tutte e due le braccia, sventolare le tovaglie, le federe e i copriletto e urlare i suoi richiami dialettali.

A quel banco tutti si fermavano, curiosi, perché vederlo commerciare, era un vero show: “Diecimila, forza donne! Cotone fino, pettinato e ritorto, due lenzuola e due federe. Forza donne, chi offre quindici ci regalo la tovaglietta da tè pittata a mano, e ‘jamme! La signora bruna s’è accattata ‘u lenzuoletto.

Forza donne per la tovaglia da dodici tonda, quadra o rettangolare, si parte da cinquemilalire, donne, cinque. Nisciun’ s’accatt’, no? Allora diecimila donne e due asciughini, e brava signo’…”. Il napoletano basso e grasso aveva un collo largo che si gonfiava quando strillava ‘jamme! o donne! Era sempre zuppo di sudore, dalla punta dei capelli ricciuti e neri un po’ lunghi dietro al collo, alla gora sotto le ascelle, sul petto e la faccia lucida, paonazza, la voce rauca, sforzata. Nonna e zia ogni anno compravano un oggetto: asciugamani, lenzuola, una tovaglia e quando arrivavamo a casa mettevano tutto a posto in un baule, dopo aver toccato con religiosa attenzione i tessuti, aver controllato le rifiniture assieme a due o tre vicine che accorrevano per l’occasione a dare un’occhiata un po’ per curiosità, un po’ per condividere certe cose importanti come la crescita di quel corredo che anche se mio io non potevo assolutamente toccare. L’altra sosta obbligata era la chiesa.

Una chiesa alta e luminosa, con le colonne, grigie, di cemento armato. Sembrava un capannone, una fabbrica e forse è così che dovrebbero essere tutte le chiese: disadorne, comuni, povere.

La statuetta di gesso di Sant’Antonio era di lato, con il giglio in mano e altri gigli veri e freschi fatti mettere dal parroco.

Mi davano cinquanta lire, accendevo il lumino e aspettavo che nonna e zia avessero finito di bisbigliare preghiere in una lingua misteriosa che non capivo. Illudendomi che sarebbero rimaste immerse nella loro devozione senza accorgersi che entravo ed uscivo dai confessionali, o che accendevo ceri e lumini senza fare l’offerta, correvo a scivoloni sul pavimento di travertino rosa, lucido e liscio cha era un peccato davvero non farlo con tutto quello spazio vuoto e pulito. Zia mi riacchiappava subito, mi guardava dura, senza dire una parola. Lei e mia nonna erano convinte che più la visita durava, più era probabile che il santo udisse le preghiere, quindi io dovevo stare buona un bel pezzo.

Questa era l’ultima tappa, poi finalmente mi toccavano le giostre. Più di tutte, mi piacevano le macchinine da scontro.

Quella giostra si fermava a Livorno tre mesi, dall’apertura del luna-park fino alla fine della fiera e in quei tre mesi i due figli del giostraio, un maschio e una femmina, gemelli, frequentavano le scuole della mia zona. Un anno capitarono proprio in classe mia. Si chiamavano Marta e Marco. Lei, grassa, goffa, con un sorriso perenne un po’ da ebete; lui più normale nell’aspetto, piuttosto scuro di carnagione, ma parimenti ingenuo e inconsapevole. Facevamo la prima media, nessuno in classe se li filava per nulla e nemmeno loro due d’altra parte si sforzavano troppo di fare amicizia con noi, non per ritrosia, quanto perché avvezzi ad essere sempre di passaggio. Marta, come spesso accade alle femmine a quell’età, era già formata e il suo seno così abbondante, la peluria decisa delle ascelle, tutto il suo corpo insomma, era tra noi ragazzine, oggetto di pettegolezzi e di scherno. La osservavamo attentamente nei suoi attributi sessuali e ci inventavamo le bugie più brutte sulla base di dicerie e credenze non supportate da nulla se non da una fantasia ignorante e un po’ perversa: “Sai che quando perdi la verginità ti si allargano i fianchi?” – “Chi te lo ha detto?” – “Lo so perché la sorella di Romina che fa tutto con il suo fidanzato gli è venuto un culo così! E anche mia cugina che è andata con uno che ha conosciuto al mare l’anno scorso si è allargata” – “Ma ti allarghi solo se lo fai sempre o basta una volta?” – “No basta una volta. Secondo me Marta l’ha fatto” – “Come fai a dirlo che è così grassa tutta? – “E’ il culo che si allarga di più, proprio come il suo, in un modo particolare, ormai ci ho fatto caso”. Marta non rispondeva alle parolacce che le venivano rivolte dai maschi, non si arrabbiava agli scherzi, agli spregi, quando le tiravano i chewingum nei capelli o la chiudevano in un cerchio e la spintonavano dall’uno all’altro quei soliti bulli codardi che però nessuno aveva il coraggio di denunciare ai professori perché ci facevano divertire, anche così. Marco rideva senza capire, Marta si faceva fare ogni cosa e anche lei sembrava non capire che era soprattutto quello il motivo delle nostre attenzioni feroci: quella mansuetudine da bestia al macello, quella passività pacifica, in una corporeità flaccida e bovina, visivamente diversa, a esaltare una cattiveria istintiva di cui nessuno sembrava preoccupato. Chiaramente i professori si accorgevano, ma Marta e Marco sarebbero rimasti poco, erano ambulanti, figli di un giostraio strabico e analfabeta e di chissà chi. Non dovevano rappresentare un caso sociale per cui impegnarsi, per cui dover riempire moduli e moduli per gli assistenti sociali, per cui dover fare delle riunioni straordinarie, per cui rischiare di rimanere indietro sulla tabella di marcia del programma ministeriale o peggio, venir segnalati proprio al ministero per chissà quale causa o motivo che sarebbe potuto scaturire da tale situazione. Un giorno che Marta aveva le sue cose, il ripetente più bastardo e vigliacco di tutto il gruppo dei maschi le frugò la cartella e trovato quello che cercava, mostrò a tutta la classe un assorbente. Quando lo fece, mentre la professoressa di italiano seguiva gli interrogati che aveva alla cattedra impegnati nella lettura di una poesia di Neruda, Simone, l’aguzzino, chiamò Marta sottovoce e gli mostrò il suo trofeo, sbandierandolo davanti agli occhi di tutta la classe, interrogati compresi. La prof. seguiva ostinata la metrica dei versi e non scollò gli occhi dal libro neppure quando l’aula esplose nel boato delle risate.

Allora, lo scatto nervoso del tic che l’affliggeva, un evidente scossone del capo che le faceva torcere il collo e gli occhi, rese la nostra ilarità più sottomessa, perché quel fenomeno di solito preannunciava scenate furibonde verso noi alunni, e fiumi di esercizi di grammatica per punizione: “Attenzione bambini, rispettate chi è interrogato per favore altrimenti facciamo compito”.

‘Bambini’! Eravamo davvero così innocenti? Marta scappò di classe piangendo, nascondendosi gli occhi con i pugni delle mani. Suo fratello restò immobile, a sedere, con la solita aria interrogativa e beota, mentre noi ci guardavamo con malizia continuando a ridere. Dopo quel giorno Marta non venne più. Era giugno ormai, la stagione balneare era già iniziata, faceva caldo e, né gli alunni, né gli insegnanti avevano più voglia di far nulla. Finiti i compiti, finite le interrogazioni, l’unica preoccupazione di tutti erano gli scrutini finali attesi con timore da noi che ne aspettavamo l’esito, con fastidi ai docenti costretti a qualche giorno di lavoro intenso per la compilazione delle schede.

Ultimo giorno. La campana suona prima, i prof. ci lasciano liberi di correre fuori, scatenati, senza imporci discipline di sorta, qualcuna di noi piagnucola perché un’estate che ci divide a dodici anni sembra un secolo e forse lo è perché in tre mesi a quell’età si può cambiare veramente tanto. Tutti si salutavano. Si abbracciavano le femmine, si spintonavano i maschi. Nessuno salutò Marco, nessun insegnante chiese di Marta, nessuno disse a Marco di salutarla. Si allontanava solo, l’andatura storta, lo zaino tutto penzoloni da una parte che quasi strusciava per terra, un po’ curvo e goffo.

Dopo pranzo vennero a chiamarmi Giulia, Vanessa e Romina.

Dissi a mia nonna che andavamo nel cortile di Giulia.

Lì mi lasciava andare perché per arrivarci, non dovevamo attraversare l’Aurelia e perché se voleva poteva mandare zia a controllare cosa combinavamo. A me, diversamente che alle mie coetanee, non era permesso di andare in giro da sola.

Dopo la morte di mamma ero stata affidata a mia nonna perché mio padre aveva un lavoro troppo impegnativo, mi avevano detto. In realtà si era rifatto una vita e mi aveva lasciata con piacere alle cure dei parenti di mia madre. Nonna Adina gli aveva imposto come unica condizione quella di telefonarmi ogni tanto, raccontarmi che era sempre lontano con il camion a portare i containers in giro per mezzo mondo e a me piaceva anche stare a sentire le sue storie fantastiche alle quali credevo affascinata con convinzione. Veniva a trovarmi per il giorno del mio compleanno e per il giorno della Befana. Solo quando scoprii la verità ho capito perché non poteva passare il Natale con me.

Comunque avevo detto una bugia, perché non saremmo andate da Giulia, ma alla fiera. Era l’ultimo giorno, l’indomani non ci sarebbe stata più e noi volevamo spendere i gettoni che Marco aveva regalato a tutta la classe, alla giostra delle auto scontro. Dieci gettoni a testa, nonostante tutto.

Quando arrivammo Marco era impegnato a sistemare le vetture vuote all’angolo della pista, vicino alla cassa, dove suo padre sedeva con un’aria assente. Aveva l’espressione strabica per quei suoi occhi multidirezionali, sulla faccia di uno che si accontenta e Marta sedeva accanto a lui. Ci vide e ci sorrise senza dire nulla ma sembrava felice di vederci, come se fossimo andate lì per lei. Attorno alla pista c’era il gruppo dei maschi del quartiere, un quartiere di periferia, con i cortili aridi di cemento grigio e le aiuole secche, frequentate dai cani, un bar sudicio e sempre pieno di disperati, e desolazione e l’unico argomento di cui parlare, la partita di calcio.

A Romina e Giulia piacevano un paio di quella banda. Finiti i gettoni ci chiesero di andare a fare un giro. Io sapevo dove volevano portarci, perché Romina c’era già stata con Mirko e voleva andarci anche Giulia con Jonathan. A me e a Vane non c’interessavano ancora certe cose, anzi, ci facevano schifo e dicevamo tra noi che non avremmo mai, mai baciato nessuno con la lingua. Ma Giulia insisteva: “O si va tutte o io non ci vado. Però siete carogne se non venite”. Il fratello di Simone l’aguzzino, Tomas, ci disse di chiamare anche Marta. Nessuna voleva andare a chiedergli di venire ed io, nella mia ingenuità, presi l’iniziativa perché mi faceva pena lì da sola a guardare nel vuoto, a vedere noi tutti insieme e lei con suo padre e suo fratello. Alla fine io, ero più sola di lei; lei un padre accanto ce l’aveva.

Venne subito. Nessuno le chiese dove stesse andando.

Marco non ci salutò neppure e continuò a lavorare. Come immaginavo andammo all’Astoria, dietro il cinema Odeon.

L’Astoria era un grandissimo Hotel ormai abbandonato dove si andavano a drogare i tossici, dove andavano quelli del quartiere a prendere quello che c’era rimasto dentro: reti, specchi, lumiere. I ragazzini ci andavano in missione d’avventura, quelli più grandi a pomiciare. Io non c’ero mai stata, non mi andava di entrare anche perché non mi interessava di pomiciare con nessuno e poi eravamo cinque femmine e otto maschi più grandi di noi. Anche Marta, non voleva entrare e Giulia e Romina, che erano già dentro, dicevano: “Uffa, quanto sei cretina. Lasciamola lì, cosa l’abbiamo portata a fare” – “Vattene Marta, ci fai perdere tempo”.

Ma i maschi erano tutti intorno a lei, e non gl’importava nulla di Giulia e Romina facili e disinvolte. I più grandi ridevano e si guardavano. In un attimo presero Marta che soffocò nello spavento e non riuscì neppure a dire no. Loro la chiamavano forte, le dicevano cose irripetibili e oscene, le facevano versi, la toccavano strizzandola, facendole male.

Riuscirono a trascinarla dentro l’edificio e quelle stupide di Giulia e Romina ridevano. Presi Vanessa per un braccio: “Andiamo via, corri! Chiamiamo qualcuno, via, via, vieni via!”. Marta era tutta graffiata perché quei maiali l’avevano trascinata per terra. La sua maglia aderente rosa si era strappata e subito gliel’ avevano tolta e buttata sui gradini. Giulia e Romina continuavano a ridere, guardando divertite, senza fermarli, senza spaventarsi. Non vedevo più Marta, tutti i maschi le erano intorno, addosso. Pensai a mia nonna, ebbi una gran voglia di piangere, correre a casa e farmi stringere da lei e dalla zia e raccontare tutto e promettere di non fare mai più qualcosa senza il loro permesso. Poi mi accorsi che Vanessa non era accanto a me.

Aveva preso un pezzo di cemento caduto a terra da chissà quale parte dell’edificio. La vidi scagliarlo a due braccia. Di colpo fu silenzio. La morsa dei maschi che stringeva Marta come una corolla di ferro, si allentò aprendosi. Lei a terra sporca ed escoriata, tremava e piangeva ad occhi chiusi, le ginocchia strette, si copriva il seno con le braccia. Erano riusciti a toglierle tutto. Accanto a lei, riverso, faccia in giù, c’era Tomas, con i jeans e le mutande calate e la testa spaccata.

Quei vigliacchi dei suoi amici furono i primi a darsela a gambe. Romina e Giulia piangevano adesso e pensai che erano proprio delle stupide a piangere ora. Non ci aveva visti nessuno. Nessuno aveva sentito. Nessuno dei maschi fiatò.

Nessuna di noi disse niente a casa. Tomas riuscì ad andare a farsi medicare con le sue gambe quando rinvenne. Disse che era caduto dal motorino. Non portava mai il casco. Di Marta non sapemmo nulla perché il giorno dopo, la fiera non c’era più e i giostrai se ne erano andati.