I racconti del Premio letterario Energheia

Gli occhi del cuore_Antonio Sansone, Matera

_Menzione Giuria seconda edizione Premio Energheia_1994.

 

Roma città eterna. Roma, dove difficilmente cammini da solo. Roma, dove la notte ruba sempre più tempo al giorno, dove la gente vive di tutto, dove si respira aria già respirata su libri, fotografie, ricordi, desideri.

Roma che non t’aspetti, e che ti lascia sempre qualcosa quando la sfiori e che ti manca quando pensi di farne a meno. Le strade sono vene in cui scorre la sua vita, le piazze oasi in cui prendere fiato per ritrovarsi con se stessi, i monumenti che ti osservano e dinanzi a cui ti disorienti incantato per ascoltare rumori, annusando odori e sensazioni di epoche già vissute.

Roma vissuta da pelli diverse, da lingue diverse, da sogni diversi, da promesse e delusioni, da pietà e intolleranza.

Roma fatta di chioschetti, ricoperta di sampietrini, ove lo scorrere delle auto crea una musica alla quale la vita quotidiana si sposa naturalmente.

Come é vuoto il rumore dell’asfalto!

I vicoletti, le scalinate attraversate e impregnate di profumi provenienti dalle osterie con affissi sulle vetrate i menù, che ti fanno venir voglia di sbirciare attraverso i vetri. Scorgere fumanti amatriciane, carbonare, pajate e giapponesi compiaciuti e felici dinanzi ad una coloratissima pizza.

Il vento caldo e consumato della “metro” il forsennato via vai delle 7 e 45, la tranquilla domenica mattina dove tutto sembra andare a rilento, e tu, curioso, che cerchi di scoprire qualcosa correndo avanti. I colli, il buon vino e quella gente che sembra recitare con quella cadenza e quella gestualità innata. Quello schiamazzare improvviso di ragazzi dietro un pallone e quelle imprecazioni che ti giungono ogni giorno e a cui, senza volerlo, ti affezioni.

Roma, che ti adotta e che ti allatta come se fossi suo figlio.

Che strano, proprio ora percepisco queste cose, ora che sto per lasciarti. Ho in mano questo biglietto aereo che può significare non vederti più.

Sono passati ormai dieci anni da quando, fresco liceale di un piccolo paese, avevo raccolto quel poco che poteva servirmi, e mi ero fiondato qui a Roma verso quello che pensavo potesse essere il mio più grande sogno: fare il giornalista.

Iscritto alla facoltà di lettere, ricordo che faticai non poco per inserirmi in una realtà così diversa e complessa. Forse non ero pronto a certe cose. Ero abituato all’agio di essere cresciuto sempre sotto le attenzioni di un padre a cui rimprovero oggi il fatto di non avermi fatto vivere liberamente le normali contraddizioni della mia giovinezza. Fosse stato per lui avrei dovuto ricalcare le sue impronte e diventare un affermato avvocato penalista. Ricordo ancora perfettamente le sue parole al mio desiderio di intraprendere un’altra strada: <<… lo studio é già avviato, i miei consigli li avresti a portata di mano, io sto invecchiando: chi penserebbe a tua madre? …>> Ancora una volta voleva decidere per me e mettermi con le spalle al muro. Io figlio unico, perché?

Prendendo il coraggio a due mani decisi di non ascoltare i suoi consigli (chissà perché i consigli dei genitori, normalmente, non vengono ascoltati) e di andarmene, comunque convinto di avergli procurato dispiacere per quella decisione. A distanza di questi anni, non so ancora se avesse capito ed accettato la mia scelta; l’avesse fatto, mi risolleverebbe tantissimo da quel disagio che ho tenuto faticosamente nascosto per tutto questo tempo.

Superata la crisi di ambientamento, appresi facilmente i meccanismi che occorrevano per “sopravvivere” nell’ambiente universitario.

Beh, forse la parola sopravvivere era troppo per me, visto che vivevo in una casa in affitto tutta mia (a differenza di altri miei amici, che dividevano in tanti pochissimi metri). Non avevo certo problemi economici in quanto, frequentemente, giungevano da mio padre cospicui sussidi a tamponare le mie spesucce. Acquistai anche una moto per evitare di prendere mezzi pubblici ( <<… troppa calca… >>, dicevo), per frequentare le lezioni, ma soprattutto per essere notato e divertirmi.

Il corso di laurea non era particolarmente pesante. Ma l’età e l’ambiente in cui vivevo mi fecero concludere, nei primi due anni, veramente poco. Occupavo il mio tempo con cose futili che avevano poco a che fare con la facoltà. Organizzavo frequentemente festicciole a casa mia, tirando l’alba. Entrai a far parte anche di una radio locale in cui conducevo un programma di musica heavy. Non avevo neanche superato gli esami necessari per rinviare la mia partenza per il servizio militare. Ma grazie all’ausilio di mio padre, che era amico di infanzia di un colonnello, responsabile medico del mio distretto, risultai riformato con la seguente motivazione: “Deformazione congenita del braccio destro” … mi avessero visto sfrecciare in moto!

Mi cullavo tranquillamente in questa situazione e, senza accorgermene, mi era sfuggito il motivo per cui mi trovavo lì.

Il tempo speso sopra i libri era sicuramente minore di quello speso per lavarmi i denti, e cresceva in me la sensazione che, forse, non sarei mai diventato un giornalista!

Vegetavo. Ebbi anche una storia con una ragazza inglese durata quasi un anno.

Tuttora non so ancora se lei amava me o il mio conto corrente. Sparì una mattina dal letto di casa mia e non l’ho più rivista.

Poi successe tutto all’improvviso.

Mio padre si ammalò gravemente e nel giro di poche settimane morì. L’avevo visto e avevamo parlato circa un mese prima che ciò accadesse. Mi sembrava ancora risentito nei miei confronti, ma non lo fece intendere chiaramente. Dalla sua voce traspariva quel dispiacere che ti esce da dentro, quando qualcosa l’accetti a malincuore. Alla bella vita che conducevo a Roma non fece accenno, quasi a non volermi ulteriormente allontanare da lui. Però alcune sue frasi taglienti e i frequenti silenzi che intercalavano i suoi discorsi, mi suggerirono di ascoltarlo una volta tanto attentamente, senza perdere una virgola, quasi presagissi fosse l’ultima volta.

Ricordo perfettamente una sua frase che diceva: <<…usa tutte le forze per quello che senti di fare, e se hai qualche dubbio lascia che il tuo cuore veda quello che é giusto per te …>>.

Fino a quel momento avevo dato poco ascolto al mio cuore, a quel cuore che mi aveva spinto con tanto slancio ad affrontare la mia avventura romana, nonostante i suoi pareri negativi.

Capii che la mia vita era ad una svolta e, involontariamente, ancora una volta era stato mio padre a suggerirmela.

Ritornato a Roma, mi immersi totalmente negli studi come mai avevo fatto prima. Non esisteva né giorno né notte per me.

Uscii dal giro dei miei vecchi amici, vendetti la moto, abbandonai l’appartamento in fitto per non pesare ulteriormente sull’unica persona che mi era rimasta: mia madre. Gli esami li affrontavo uno dietro l’altro, e la sospirata laurea era finalmente a portata di mano. Riuscii persino a recuperare gli anni perduti e giunsi finalmente a destinazione: mi laureai.

Mi sentivo pronto, soprattutto interiormente, ad affrontare senza paura quello che ora la vita mi offriva.

Cominciai a girare tutte le redazioni dei quotidiani, pronto ad accettare, all’inizio, anche un impiego marginale come giornalista. Non c’era niente che mi affascinasse. Quello che potevano offrirmi era l’illusione di essere un giornalista. Volevano da me la nuda cronaca di avvenimenti, senza peraltro che ci mettessi qualcosa di mio.

“…non siamo di questa corrente di pensiero, capito?…”, “… non sei un opinionista, é chiaro?…”, “… la gente non vuole sapere come la pensi tu!…”, queste le più ricorrenti risposte alle mie aspettative.

Come dar loro torto! Avevano di fronte un neo laureato, con nessuna esperienza. A poco importava la voglia di emergere, la vena che io sentivo di avere e che poteva in qualche modo interessare.

Dovetti però cedere, dovevo pur iniziare!

Accettai la proposta, fattami da un giornale, di svolgere il compito di corrispondente in giro per l’Italia, quale cronista di problemi sociali.

Mi spedirono, come prima volta, con due fogli di domande già formulate presso una miniera in Sardegna, ad Iglesias, dove girava voce di licenziamenti. Mi presentai come un perfetto idiota, vestito come un manichino, a quello che doveva essere il mio primo giorno di lavoro. Al rappresentante sindacale, lavoratore anche lui, gli posi le domande al quale lui rispose molto formalmente, mentre io prendevo nota.

Sicuramente notò il mio impaccio nel porgergli le domande, ed anch’io mi sentivo ridicolo per quello che stavo facendo: non era certamente quello che sognavo.

Ciò nonostante, finite le domande, iniziai a scambiare due chiacchiere con lui. Mi sentii già meglio senza quegli stupidi fogli che, come un copione, dovevo recitare per svolgere correttamente il mio lavoro. Iniziammo a parlare delle loro condizioni di vita, dei loro salari sempre piùbassi, del deperimento fisico a cui ogni giorno si esponevano. Gli argomenti non mancavano ed uscivano a braccio. E mentre io parlavo, senza rendermene conto, instaurai un legame di rispetto verso il lavoro che questi minatori svolgevano. Ebbi la netta impressione che il sindacalista mi ascoltasse con attenzione. Il mio sguardo si distrasse un attimo quando, giunta la pausa mensa, sentii un sordo rumore e vidi spuntare un montacarichi dal sottosuolo. Scorsi un pugno di uomini vestiti tutti uguali con caschetti consumati, che si stropicciavano gli occhi, quasi si fossero svegliati da un lungo sogno, o forse da un incubo. Le loro facce tinte di carbone, a far da cornice a denti che sembravano avorio, avevano piaghe di fatica. Con passo tardo procedevano verso delle baracche per consumare il loro pranzo. Dal gruppetto uscì una voce che disse: <<… é inutile, parlare con quelli é tempo perso! …>>; il rappresentante mi guardò scuotendo il capo in segno di rassegnazione.

Guardando quella scena e pensando a quello che rivendicavano (solo un salario sicuro), non potetti non pensare ai miei primi due anni vissuti a Roma, dove l’ozio e la mancanza di rispetto verso i soldi di mio padre, erano il mio vangelo quotidiano. Dentro di me mi vergognai a tal punto da non saper piùcosa dire.

Mi sentii gelare.

Fortunatamente il rappresentante sindacale percepì il mio imbarazzo e mi distrasse con una pacca sul braccio. Subito dopo essersi congedato da me, raggiunse per il pranzo i suoi colleghi.

Quell’incontro tracciò un solco dentro di me, e mi convinsi che finalmente stavo capendo cosa volevo dal mio lavoro.

Tornato in redazione, parlai con il capo redattore della mia idea e di un reportage sulla situazione di quei lavoratori, anziché la pubblicazione di quelle fredde risposte date così, senza cuore.

La mia proposta non fu accettata in quanto, a detta del capo, non poteva interessare nessuno, poiché quelle risposte erano più che sufficienti. Questa volta in maniera serena, ma con tanta grinta, decisi di lasciare quel giornale alla ricerca di altre strade. Mi ripetevo continuamente: <<… come può tutto questo non interessare nessuno?ヨ>>.

Testardamente decisi comunque di preparare il lavoro. Impiegai quasi una settimana per raccogliere tutta la documentazione a cui avevamo fatto riferimento durante la nostra conversazione in miniera. Personalizzai il lavoro con quello che avevo visto, ma soprattutto con quello che io, estraneo, avvertivo. Mi immedesimai talmente tanto, da poter controbattere a qualsiasi argomentazione sul caso. Spedii il mio dossier ad un famoso rotocalco settimanale di attualità, fiducioso del riscontro.

La risposta non si fece attendere: fui convocato dal direttore del giornale che, complimentandosi con me per il lavoro svolto, mi offriva il mio primo contratto.

Devo molto a lui, é stato il primo a credere nei miei mezzi.

Il lavoro fu pubblicato (conservo ancora la copia del giornale), e ricevetti anche tante critiche favorevoli. Ma la maggiore soddisfazione ed il ricordo più profondo a cui sono più legato, é una lettera di elogio mandata dai lavoratori di quella miniera. Mi ringraziavano per l’attenzione con cui avevo raccontato la loro vita, i loro problemi, i loro desideri, e per la mia solidarietà. Mi sentivano uno di loro.

Altri lavori seguirono; furono tutti dei documenti di vita a cui spesso facevo riferimento come insegnamento. Ero felice. Ero riuscito ad essere quello che volevo. L’unico rammarico era quello di non aver potuto dividere questa mia gioia con mio padre: mi avesse visto, sarebbe stato orgoglioso di me!

Raggiunta la pace interiore, vera linfa della vita, dedicai un po’ di tempo anche per me. Conobbi, nel giornale, una timida ragazza somala che lavorava come interprete. Iniziammo a frequentarci, accorgendoci, quasi subito, di provare interesse l’uno per l’altra. Era una ragazza dolcissima, ma che a volte si chiudeva in sé stessa, quasi a volersi difendere da chissà che cosa. Iniziai pian piano a cercare di capire cosa stesse vivendo, per poterla in qualche modo aiutare. Avvertivo che qualcosa di profondo l’aveva segnata e non la rendeva serena: la guerra.

La sua famiglia era stata divisa, e lei non aveva piùnotizie di nessuno di loro. Iniziò, poco alla volta, a raccontarmi del suo dramma, del dramma del suo popolo, di quella guerra di “poveri” che aveva messo in ginocchio una nazione già segnata da altri eventi. Quando raccontava questo suo triste dolore, i suoi occhi color notte si spalancavano smarriti, e il piùdelle volte si rigavano di lacrimoni che scorrevano giù velocemente, bagnando la mia mano posata sul suo viso.

Spesso diceva, con profonda rassegnazione: <<… ma voi cosa ne sapete della guerra? …>>. Troppe volte avevo sentito queste parole, troppe volte la mia mente era volata laggiù. Dovevo fare qualcosa anch’io, non potevo non vedere, non potevo non raccontare quelle grida soffocate con la violenza.

Sentivo quasi il dovere, nei confronti di quel popolo, di testimoniare per loro, di portare la loro voce qui, proprio come avevo fatto la prima volta con quei minatori.

Mi concessi un periodo di riflessione. Tra consigli e ripensamenti decisi di chiedere al direttore del giornale di poter effettuare un reportage in Somalia. Fui convocato da lui.

L’incontro con il direttore avvenne nel suo studio. Ricordo l’odore del suo sigaro cubano che aleggiava nell’aria e di quella scrivania su cui una cornice d’oro troneggiava. Conteneva la foto di una giovane donna con un ragazzo biondino. Il direttore, guardandomi, mi disse emozionato: <<… sono la mia vita …>>. La mia memoria non poté non andare a mio padre. Mi incantai. La voce del direttore mi fece ritornare in quella stanza: <<… sei il migliore che ho, se il tuo é un problema di soldi, possiamo rivedere il tuo contratto …>>. Non fu necessaria una mia risposta, egli la capì guardandomi e annuì. Capì che nulla avrebbe potuto farmi cambiare idea, né tantomeno avrei fatto a meno di quel lavoro: o con lui o con un altro!

<<… ami troppo questo lavoro! …>>, mi disse, ed io gli risposi: <<…farei qualsiasi cosa, darei anche la vita!…>>. Fu quello il momento in cui, mi sentii ormai sicuro della mia scelta.

Il direttore aprì il suo cassetto tirando fuori il biglietto aereo per la Somalia. Me lo porse e mi abbracciò dicendomi: <<… sapevo che era inutile…>>, e accennò un timido sorriso con il sigaro che gli fumava dinanzi al viso.

Mi voltai prima di aprire la porta e, guardandolo, dissi con voce fioca: <<… grazie di tutto, avrà presto quel lavoro …>>.

Con il biglietto stretto sul cuore, uscii dal giornale e mi diressi spedito a casa. Tirai fuori la mia valigia impolverata. Quella mia prima ed unica valigia che pensavo di non dover utilizzare mai più. L’avevo comprata al mio paese quando decisi di venire qui a Roma: in essa avevo riposto i miei sogni, le mie ambizioni, la mia vita. Riempirla non fu difficile, erano talmente poche le cose che mi occorrevano, da essere pronto quasi subito. Non avevo dimenticato nulla.

Telefonai alla mia amica somala a cui avevo tenuto nascosto il mio desiderio di andare nel suo paese. Non la trovai, le lasciai un messaggio sulla sua segreteria telefonica.

Un ultimo pensiero volò a mia madre, l’avevo praticamente abbandonata per il mio lavoro. Lei era stata sempre lì ad aspettare una delle mie rare visite o una mia telefonata. Diceva sempre di essere felice per me, per quello che facevo, perché avevo realizzato un mio desiderio. Non mi aveva mai chiesto nulla in questi anni, era stata molto discreta. Chiamai anche lei. La sua voce, come al solito, mi scaldò l’anima. Non le dissi dove sarei andato, era troppo complicato spiegarglielo, ma sentivo dentro di me che, se l’avessi fatto, avrei avuto il suo completo assenso.

Chiusi la porta, tirandola come se scendessi solamente a comprare le sigarette, scesi le scale di casa lentamente, lasciandomi dietro ogni pensiero che potesse distogliermi. Casualmente il mio sguardo si impigliò su una strana pianta del piano di sotto. Non l’avevo mai notata, forse era lì da sempre, ma i miei occhi non si erano mai accorti di lei. Rimasi sorpreso.

Avevo chiamato un taxi che non tardò ad arrivare. Direzione: aeroporto di Fiumicino.

Entrai nell’ala dei voli internazionali e mi diressi all’accettazione. Il mio volo per Mogadiscio partiva dopo due ore.

Mi sedetti stanco su una poltroncina e mi assopii. I miei pensieri andarono avanti e indietro disordinatamente. Fotogrammi della mia infanzia, ricordi universitari si accavallarono nella mia testa. Passò non so quanto, fui svegliato da una voce amica e da una mano che si posò sulla mia spalla.

<<… ciao, ho ascoltato il tuo messaggio …>>, era la ragazza somala. Quella ragazza che, senza volerlo, stava cambiando il corso della mia vita e che, forse, avrebbe segnato anche il mio destino.

Si sedette al mio fianco e mi prese le mani. La nostra fu una spontanea confessione, il suo viso era appena chinato e la mia voce leggermente roca. Le mie convinzioni e le sue paure, le mie idee e i suoi desideri ci unirono ancora di più, e la grande emozione che vegliava sopra di noi scoppiò all’improvviso in un pianto profondo.

Ci abbracciammo e lei mi disse: <<… abbi cura di te …>>.

Si sentiva, forse, un po’ responsabile di quella mia decisione.

La salutai asciògandomi gli occhi, l’ora era quasi arrivata.

Ero rimasto solo, con me solo il biglietto aereo.

Lo presi dalla tasca della mia giacca e lo guardai… e lo guardo ancora adesso.

E’ qui tra le mie mani. Ricordo quando avevo tra le mani il biglietto del treno che mi portava qui, a Roma, dal mio paese.

Allora ero un ragazzino, non mi importava di quello che lasciavo dietro, tranne i miei genitori, nulla mi apparteneva, e nulla mi poteva trattenere. Ora però sento che c’è qualcosa di diverso, qualcosa che é dentro di me, sento che potrei non rivedere piùle mie piazze, i miei monumenti, potrei non sentire piùi miei sampietrini.

Roma sei nel mio cuore. A te devo molto, mi hai preso ragazzino e mi hai fatto diventare uomo. Hai percorso con me questi ultimi dieci anni della mia vita, mi stai vedendo partire e chissà se mi rivedrai. Mi mancherà tutto di te.

Un brivido mi attraversa la schiena, meglio non pensarci, ci vuole qualcosa di caldo.

Hanno chiamato il mio volo, sento ancora l’aroma del caffè nelle mie narici, spengo nervosamente l’ultima sigaretta, respiro profondamente la mia aria romana.

Seduto in aereo penso se tutto questo potrà servire a qualcosa, a qualcuno. Dubbi che rapidamente si dileguano nella mia mente. Sto realizzando qualcosa che ho fortemente desiderato, su cui ho modellato la mia vita, con cui ho barattato le mie speranze… e tutto l’amore che ci ho messo non può non servire a niente.

Ho imparato a non soffrire la solitudine, ho il mio splendido lavoro e ho con me un amico fidato. Qualcuno che non potrà ingannarmi mai, che mi aiuterà a superare i momenti difficili che sicuramente incontrerò. E se poi faticherò a comprendere le cose, sono sicuro che gli occhi del cuore vedranno per me. Giuro.

 

Un pensiero a:

Ilaria Alpi, Myrian Hrovatin, Marcello Palmisano

e a tutti quelli che per vedere e farci capire hanno annullato la loro esistenza.