I racconti da sceneggiare, I racconti del Premio letterario Energheia

Couscous e tortellini_Katia Brentani, Bologna

_Miglior racconto da sceneggiare tredicesima edizione Premio Energheia 2007.

“Questa volta l’ha uccisa”, pensò Maria, mettendo una manciata di ripieno nel riquadro di sfoglia appena tirata.

I rumori erano cessati di colpo, come gli urli, i gemiti soffocati e le corse.

Maria tolse con un gesto secco della mano il solito ciuffo ribelle che usciva dalla cuffia della doccia.

Perdeva tanti capelli che se avesse preparato i tortellini senza quell’accorgimento i suoi ospiti chissà cosa avrebbero mangiato.

La fronte sudata l’aiutò nell’impresa.

Era una mattina torrida e il caldo entrava subdolo nella pelle, fino ad arrivare alle ossa e sembrava scioglierle piano, piano risucchiando ogni linfa vitale, ogni capacità di reazione, rendendo i movimenti lenti, come quelli di un bradipo.

Un’estate interminabile, chi poteva era fuggito dall’afa cittadina, dall’asfalto che ribolliva come un pentolone di pece, dall’odore stagnante di urina e cavolo.

Realizzò che nel palazzo erano rimasti solo lei e il marito, quelli del piano di sopra, ammesso che il marito non avesse già ammazzato la moglie abbassando così il numero dei dannati rimasti in città, e due nonnetti mezzi ciechi e mezzi sordi al primo piano di quel casermone.

Maria continuò a piegare a triangolo i quadrati di pasta ripieni e a farli girare veloce attorno al dito.

Ormai il vassoio di tortellini era colmo e rimaneva ancora mezza sfoglia da riempire.

Guardò le prime crepe formarsi sulla superficie della pasta.

“Caldo maledetto” imprecò, asciugandosi le mani nel grembiule “quasi, quasi chiamo la polizia con quelli non si sa mai”.

Quando incontrava Amid lungo le scale, o in ascensore lui la fissava con quel sorriso straffottente e lei si sentiva ribollire il sangue.

“Un buono a nulla”, l’aveva bollato Maria, la prima volta che l’aveva incontrato in compagnia della moglie e lei aveva farfugliato “Buongiorno” attraverso quel velo che la copriva dalla testa ai piedi.

Maria di buoni a nulla se ne intendeva, visto che ne aveva sposato uno.

Qualcuno nel palazzo si era premurato di fornire informazioni: si chiamava Amid e lavorava saltuariamente come muratore o scaricava casse al mercato ortofrutticolo, quando non era ubriaco.

Chiuse con gesto meccanico un altro tortellino, le due estremità tendevano a staccarsi, la sfoglia ormai era secca.

“Farò dei maltagliati con il resto della sfoglia” decise, mentre con l’orecchio tentava di percepire anche il minimo rumore.“Forse è uscito e io non l’ho sentito, oppure si è arrampicato sul tetto”, fantasticò, “quelli sono agili come gatti”.

Ormai la curiosità si era impossessata di lei, occupava ogni spazio della sua mente.

“Potrei salire un attimo a vedere, forse è solo ferita” decise, infilando le scarpe.

Salì in fretta le due rampe di scale che separavano il suo appartamento da quello del piano di sopra, facendo congetture.

La porta era socchiusa.

“Allora è uscito”, provò un senso di sollievo mentre apriva la porta.

La scena che si presentò davanti ai suoi occhi non era quella immaginata.

Una donna sedeva rannicchiata in un angolo della stanza, accanto ad un mobile stracolmo di chincaglieria di ogni genere.

Maria riconobbe la moglie di Amid, aveva il volto coperto di sangue, le labbra spaccate e un occhio pesto.

A qualche passo da lei c’era Amid, disteso bocconi per terra, le braccia e le gambe allungate, una chiazza rossa sulla testa e una piccola pozzanghera accanto a un barattolo ormai vuoto.

L’odore di pomodoro stagnava in tutta la casa.

Sembrava la scena di un film di serie B e a Maria veniva quasi da ridere.

“Lo hai ucciso con un barattolo di pelati?”, chiese fissando la donna che, dopo averle lanciato un’occhiata distratta, continuava a fissare il corpo disteso davanti a lei.

“Non lo so”, mormorò con quell’accento strascicato, caratteristico della sua gente quando parlava italiano.

Maria si avvicinò al corpo di Amid, odorava di spezie, sudore e pomodoro.

Sentì il polso, batteva regolare.

“E’ solo svenuto”, la tranquillizzò, “vieni Ti aiuto a pulirti un po’”.

La donna la seguì docile in bagno, dove Maria le tolse dal capo l’hijab, una treccia nera come l’inchiostro scivolò lungo la schiena, come un serpente sinuoso.

Maria l’aiutò a pulirsi il viso, tamponandolo con delicatezza con l’asciugamano.

“Come ti chiami?”, domandò continuando a pulirle il viso.

“Fatima”.

“Non avete molta fantasia al vostro paese, vi chiamate tutte così!”

Maria si sentiva nervosa, avvertiva la presenza del corpo disteso nell’altra stanza, anche se la porta del bagno era chiusa.

“E tu come ti chiami?”, chiese Fatima rimettendosi l’hijab in testa.

“Maria”.

La donna sorrise, ironica.

“Anche tuo paese poca fantasia”.

Maria stirò le labbra in un sorriso e sentì tirare la pelle.

“Anche tu hai labbra gonfie”, notò Fatima, “anche tuo marito picchia?”.

“Cosa dici!” si irritò Maria, toccandosi istintivamente la bocca nel punto in cui Antonio, suo marito, l’aveva colpita con la mano chiusa a pugno, “sono scivolata sulle scale”.

Fatima la osservò in silenzio.

“Senti cosa vuoi fare adesso?”, si affrettò ad informarsi Maria, “andiamo alla polizia a denunciarlo?”

Fatima la guardò con gli occhi spalancati, c’era terrore misto a rassegnazione sul suo viso.

“Se rimaniamo, si sveglia e sono certa che non sarà amichevole”, continuò Maria.

Fatima la fissava, incapace di prendere qualunque decisione.

Dio perché le donne vivevano, trascinate dalla corrente?

Pensò Maria furibonda.

Dovevano formare davvero un bel quadretto lei e Fatima in quel momento.

Una piccola donna marocchina, impaurita e una matta, con una cuffia, da doccia in testa e il grembiule.

Maria cercò di escogitare qualcosa, ma il caldo le confondeva le idee.

Capiva che dovevano agire in fretta, se Amid si fosse svegliato, ne era certa, avrebbe massacrato non solo Fatima di botte, ma anche lei per essersi intromessa.

Giravano racconti terribili e strampalati sulle vendette dei marocchini quando qualcuno si intrometteva nelle loro faccende personali.

Si tolse la cuffia, i capelli si erano incollati alla testa, come un casco.

Doveva avere un aspetto orribile.

“Senti, metti qualche indumento in una valigia e vieni via, io aspetto di là, nel caso si svegli”.

Il tono di Maria era stato secco e deciso e Fatima si mosse silenziosa.

“Che mi è preso?”, pensò Maria tornando nell’altra stanza, Amid giaceva sempre immobile sul pavimento.

“Cosa penso di fare?”, si chiese nervosa, “la tengo a dormire da me? Così, oltre ad Amid, mi ammazza anche Antonio!”

Fatima, intanto, era ritornata con una piccola valigia in mano e una borsa di tela a tracolla…

“Andiamo”, disse Maria e, insieme, corsero fuori chiudendosi la porta alle spalle.

Scesero in fretta le scale e quando Maria aprì la porta di casa sua le sembrò di entrare in quella di una perfetta sconosciuta.

Osservò la sfoglia ormai secca sul tagliere, il vassoio pieno di tortellini unici oggetti fuori posto in una cucina che sembrava la sala operatoria di un ospedale.

“Non è questa la casa che avrei voluto”, realizzò all’improvviso.

E’ possibile rimanere fuori casa mezz’ora e riuscire finalmente ad avere una visione chiara della propria vita?

“E’ il caldo, mi manda in pappa il cervello”, valutò mentre meccanicamente infilava il vassoio di tortellini nel frigorifero.

Fatima era rimasta ferma accanto alla porta, in attesa di qualche sua decisione.

“Faccio la valigia anch’io e andiamo”.

Le sembrava che a parlare fosse un’altra.

“Ho visto troppi film, fatto troppa vita da casalinga ultimamente”,

Maria scosse la testa.

Ma intanto “l’altra” Maria dentro di lei infilava in fretta vestiti dentro la valigia, si toglieva il grembiule ed era pronta per “andare”.

“Ma dove?”, si chiese irritata.

Prese il cellulare, le chiavi della macchina e cercò un foglietto di carta su cui scrivere due righe.

Almeno due righe gliele doveva, nonostante le botte, dopo ventisei anni di matrimonio.

Lo lasciò sulla sfoglia ormai secca.

“Andiamo”, comandò e mentre si chiudeva la porta alle spalle, per la prima volta si sentì leggera come quando a quindici anni marinava la scuola.

Uscire da Bologna era stato uno scherzo, il traffico inesistente, la settimana di ferragosto aveva svuotato la città.

“Mi fermo in banca un attimo”.

Maria sbirciò Fatima seduta accanto a lei.

Si chiese come potesse resistere al caldo senza svenire dentro quello scafandro che la ricopriva dalla testa ai piedi.

La macchina non aveva l’aria condizionata e, nonostante i finestrini fossero completamente abbassati, l’aria era talmente bollente da dare l’impressione di trovarsi dentro un forno.

Da quando erano partite, non aveva pronunciato una sola parola.

Era come se quello che le stava accadendo non le importasse.

“Devo prendere dei soldi”, pensò Maria, “meglio se tutti”, e per un istante si sentì in colpa.

Perché poi? Ad Antonio rimaneva la casa e copriva tranquillamente la somma che avevano in banca. Per fortuna che aveva insistito per il conto cointestato, qualche anno prima, altrimenti non avrebbe potuto prelevare soldi frutto anche del suo lavoro.

In tutti quegli anni non aveva fatto altro che lavorare e se aveva smesso, da sei mesi, era soltanto perché Antonio era talmente geloso che quando, ubriaco, veniva a fare le piazzate nelle fabbriche dove lavorava, picchiando caporeparto e direttori, accusandoli di avere una relazione, perdeva regolarmente il lavoro.

Poi le chiedeva scusa, certo, e faceva l’amore come solo lui sapeva fare quando voleva ottenere qualcosa, ma la sua vita era un inferno.

Se aveva resistito tutti quegli anni, era stato soltanto per Edoardo, il loro unico figlio.

“Edoardo”, pensò amara.

Suo figlio ormai si vergognava di loro.

Come dargli torto? Dopo l’università e la laurea in Legge, si era trasferito a Londra, dove lavorava per una grossa multinazionale e veniva a casa talmente di rado che Maria faticava a ricordarsi il suo volto.

Una lacrima tentò di spuntare e lei deglutì rabbiosa.

Parcheggiò davanti alla banca, incurante del cartello con divieto di sosta.

“Aspettami qui, arrivo subito”, disse a Fatima.

Attraversò di corsa la strada deserta e sparì dietro la porta a vetri.

Fatima si sistemò meglio l’hijab in testa, toccandosi il labbro spaccato.

Guardò l’orologio della macchina, segnava le 14.30 se correva, forse, poteva essere a casa entro mezz’ora, massimo un’ora.

Ad Amid poteva raccontare di essere andata a chiamare un dottore e a prendere le medicine in farmacia.

L’avrebbe picchiata con furia, ma poi sarebbe uscito per andare al bar ad ubriacarsi e lei avrebbe potuto coricarsi tentando di trovare refrigerio al caldo e un attimo di pace.

La testa le pulsava maledettamente.

Cosa le era venuto in mente di seguire quella matta con la cuffia in testa? Non la conosceva, a volte sentiva gli urli provenire dall’appartamento di sotto e la voce di Maria stridula che tentava di sovrastare quella impastata d’alcool del marito.

Aveva sostenuto che il marito non la picchiava, ma Fatima era certa del contrario.

Non aveva soldi, e anche se sapeva leggere e scrivere e parlava un italiano comprensibile, non sapeva fare nessun lavoro.

Se Maria l’abbandonava, come i cani randagi sul ciglio della strada, lei cosa avrebbe fatto?

Almeno Amid le assicurava un pasto.

“Devo tornare a casa”, si convinse ma non si mosse.

Amid era diventato sempre più violento, pareva che la rabbia che accumulava per, le ingiustizie che subiva, i lavori precari, le false speranze andate deluse, le sfogasse su di lei.

La percuoteva quasi tutte le sere e lei, dopo aver preso le botte, provava quasi un senso di sollievo pensando che, almeno fino alla sera dopo, Amid non l’avrebbe più picchiata.

Come era diversa la vita che avevano immaginato insieme.

Lui all’inizio era un bravo marito, era sicura che provasse affetto per lei, anche se erano state le loro famiglie a decidere il matrimonio.

Lei aveva sempre provato simpatia per quel bel ragazzo alto, con lo sguardo fiero e la parlantina veloce che tutte le ragazze del paese le invidiavano.

Era sempre stata timida e la spavalderia di Amid era protettiva.

Poi, però, Amid aveva deciso di venire in Italia per guadagnare i soldi per comprarsi una casa e tutto era cambiato.

“Bastardo!”

La portiera sbatté con violenza e Fatima si riscosse spaventata.

“Tutti gli uomini sono dei gran bastardi!”.

Maria sbatté i pugni contro il volante, mentre tentava di trattenere le lacrime.

“Ha fatto prelevamenti senza dirmelo e sono rimasti solo duemila euro”.

Ansimava e le mani le tremavano.

Guardò Fatima e capì di averla spaventata. In fondo non si conoscevano e le sue reazioni la sconcertavano. Maria si calmò.

“Le tue tempeste in un bicchier d’acqua”, la canzonava Antonio, quando lei lasciava montare la collera.

Le sue sfuriate erano proverbiali, ma innocue, si sentiva sempre colpevole dopo e lui sapeva approfittarne.

“Avrà speso i soldi con le sue puttanelle”, pensò sconsolata.

Dei trentamila euro disponibili, ne rimanevano soltanto dieci.

Maria fissò il pacchettino di euro che il cassiere le aveva infilato in una busta.

Quello che le rimaneva della sua vita era in quella busta e nella valigia riempita alla rinfusa.

“Hai preso i soldi senza dirlo a tuo marito?”

Nella voce di Fatima c’era paura mista ad ammirazione.

Fatima la riportò alla realtà.

“Sono anche soldi miei”, puntualizzò Maria, “e ci permetteranno di vivere per il momento, mentre decidiamo cosa fare”.

Fatima notò che aveva parlato al plurale.

“Non ho intenzione di tornare a casa”, affermò Maria sicura.

Fatima pensò ad Amid e alle parole cattive urlate, alle botte.

“Neanch’io”, affermò, tentando di vincere la paura. Maria si era acquietata,

Fatima frugò nella borsa di tela che stringeva fra le mani, tolse un involucro che srotolò con maestria e le porse quanto conteneva.

Maria osservò curiosa.

“Sembra una piadina”.

“E’ pane arabo”. Fatima divise a metà la focaccia e ne porse un pezzo a Maria: “Non abbiamo mangiato niente”.

“Hai ragione, a stomaco pieno si ragiona meglio”, concesse Maria, assaggiando quanto Fatima le porgeva. Non sapeva se era la fame, ma le sembrò buonissimo.

“Sai cucinare bene?”.

Fatima sorrise: “Mia madre dice che cucino il miglior couscous del Marocco”.

“Se è per quello la mia sostiene che nessuno fa tortellini buoni come i miei”.

“La mamma”, sospirò Fatima.

Maria pensò alla sua, alla dura vita che aveva affrontato sempre con coraggio e pazienza, sarebbe stata fiera di lei.

“Forse cucinare ci permetterà di trovare presto lavoro…”, disse cercando fra le cartine stradali, “questa è la cartina dell’Italia, punta un dito e andiamo là”.

“Perché io?”, domandò Fatima sorpresa.

“Perché conosci poco l’Italia ed è più facile che scegli a caso”.

“No caso, Allah”, la corresse Fatima.

“Anche Maometto se vuoi ma punta il dito”, la sollecitò Maria impaziente.

Fatima puntò il dito e il loro destino buttò i dadi.

La piccola auto sbuffò parecchio prima di partire, quando prese velocità l’aria che entrava dai finestrini concesse una parvenza di refrigerio.

Maria sorrise e Fatima le ricambiò il sorriso.

“Almeno, dove andiamo, il clima dovrebbe essere più clemente”, scherzò Maria.

Si sentiva forte, dopo tanto tempo, quasi euforica e piena di energia e speranza nel futuro.

Lanciò un’occhiata fugace a Fatima, le pareva che anche il suo viso fosse più rilassato, non doveva aver avuto molte occasioni neppure lei.

Quando uscì da Bologna per imboccare l’autostrada cantava a squarciagola una canzone di Vasco Rossi “Voglia una vita spericolata”, e la voleva davvero.