I racconti del Premio letterario Energheia

Ciao, sono Sally_Rosa Scarlatella, Monte Sant’Angelo(FG)

_Racconto vincitore diciannovesima edizione Premio Energheia 2013.

 

1.

 

Ciao, sono Sally. Ho nove anni e scrivo storie.

Le scrivo perché non mi bastano quelle che trovo nei libri.

Le scrivo perché, scrivere, è meglio che immaginare e basta.

Le scrivo perché non posso viverle.

Qualche giorno fa ho letto una storia che parlava di bambole.   Avevano i capelli di lana e gli occhi fatti con dei bottoni.         Così ci ho provato anch’io. A scrivere, intendo.

Nella mia storia c’erano due bambole con vestiti a quadri e occhi lucidi; una delle due era la mia preferita, le avevo dato il mio stesso nome e le facevo fare le cose più belle. Alla fine si è sposata, la Sally bambola.

 

Ciao, sono Sally. Ho quindici anni e scrivo storie.

Le scrivo perché così posso decidere io, quello che succede.

Le scrivo perché ho paura del mio futuro.

Sono Sally, ho quindici anni e scrivo storie, o almeno, ci provo. Le comincio e poi restano lì. Le rileggo e le cestino. Ne sforno una dopo l’altra, ma non basta. Plasmo i personaggi, uno a uno. Do’ loro dei nomi, li accarezzo mentalmente e poi li faccio fuori. Non vanno mai bene, non sono mai come dovrebbero essere.

Il problema principale, sono i finali: non ci sono mai. Portai a termine solo un racconto, uno solo. Narrava della vita di una ragazza debole che non riusciva ad affrontare se stessa. Alla fine della storia, l’ho uccisa. L’unica storia che io abbia mai portato a termine, narra di una ragazza che muore. L’unico finale che io abbia mai scritto non è un vero finale. La morte non è un finale. I film strappalacrime e i funerali finiscono con la morte. I racconti no. Non è un finale, è una scorciatoia per vigliacchi.

 

Ciao, sono Sally. Ho ventuno anni e non scrivo più storie.

Non le scrivo più perché non ne sono capace.

Non le scrivo più perché nessuno le leggeva.

Inutile scrivere se non si ha neanche niente da dire.

 

Ciao, sono Sally. Ho ventisette anni e ora scriverò la mia, di storia.

La scrivo perché è l’unica cosa che posso fare.

Sono Sally, ho ventisette anni e vivo in una gabbia. Sono stata segregata. Non è una clinica per tossicodipendenti, non è un centro di recupero per ragazze con disturbi alimentari, non è un ospedale psichiatrico, né un carcere. È un posto in cui c’è gente che non può vivere nel mondo, che non può venire in contatto con la realtà esterna. senza finire in una clinica per tossicodipendenti, in un centro di recupero per disturbi alimentari, in un ospedale psichiatrico o in un carcere. Ecco. Io, sono in questo posto. In bilico sul filo di seta che divide la follia dalla normalità. Sono in un posto in cui dovrebbero insegnare a vivere. A vivere normalmente, s’intende. E io sono stata rinchiusa qui da un po’.

Oggi hanno deciso che non sono così disperata da pugnalarmi con una penna, così me l’hanno concessa e ora scrivo. Credevo di essermi dimenticata come si facesse. Ora mi tremano le mani.

Di solito, in una storia, si comincia dall’inizio. Peccato che io non sappia come è iniziata la mia storia, peccato che la mia storia non abbia un inizio. È come un groviglio, un nodo ben stretto, un enigma di fili senza un capo. Si aggroviglia su se stesso, si attorciglia, si annoda e si stringe, e io vi sono incastrata, dentro, braccia e gambe legate, occhi coperti. Il mio racconto sarà come uno spettacolo di burattini visto dall’interno della scatola di cartone: si conoscono tutti i trucchi, tutte le bugie, ma non si sa di preciso che cosa ne esca fuori, non si conosce la verità.

Arrivai qui, incapace di dormire, rifiutandomi di mangiare e terrorizzata da ciò che vedevano i miei occhi chiusi. Arrivai qui, fin troppo sveglia per una vita normale. Arrivai qui, e poi mi addormentai. Non avevo più bisogno del sonno per dormire, non mi serviva aver fame per mangiare. Nessuno urlava più nelle mie orecchie. In questo posto non serve imparare a far nulla.

Trascorsi, giorno dopo giorno, a lasciarmi addormentare e stordire, permettevo, docilmente, che mi ammaestrassero alla vita. Aspettavo che ogni sera il sonno mi soffocasse i sensi. E mi piaceva.

 

2.

 

“Signor Huber, si alzi per favore”.

“Ma cosa fa?”

“Toglietelo, da lì. Subito”.

“Signor Huber, forza, andiamo. Non dovrebbe stare lì”.

“Thè?”

“È impazzito?”

“Ha preso la pillola delle 14.00, signor Huber?”

“Ma vi sente?”

“Qualcuno vuole del thè?”

“Sembra non sia qui…”

“Venga con me, signor Huber, da bravo. Perché non vuole alzarsi? Forza, da bravo”.

“Un’altra tazza? Oh, ma certo signorina!”

“Ma, che sta dicendo?”

“Oh, Santo cielo! Prendetelo e portatelo in camera. L’ultima cosa che ci vuole qui è un altro frocio ritardato!”

“Portatelo via. Presto, presto!”

Aveva i capelli bianchi e gli occhi socchiusi, la pelle rugosa e un bel sorriso. Era rannicchiato in un angolino della sala comune, con le braccia allungate davanti a sé, come ad abbracciare l’aria.     Si fece trasportare via senza dire una parola.

 

Ore diciassette.

“Ehi! Ehi!!! Sì, sì sì, tu. Su, vieni qui. Sì, dico a te, tesoro. Vieni qui!”, mi trascinò dentro e chiuse la porta.

Il signor Huber, la sua camera. C’era profumo di thè alle erbe e di fiori, una grande finestra spalancata, sole, ovunque. Lui era rannicchiato contro la parete, con le braccia a disegnare una conca davanti a sé.

“Gradisce del thè, signorina?”

“Cosa sta facendo?”

“La tazza”.

“La tazza… la tazza?”

“Forse non le sembro una tazza, signorina?”

“Una tazza…”

“Lo vuole questo thè o no?”

“… No, la ringrazio”.

“Oh, d’accordo”. E si alzò in piedi.

Era un uomo anziano, il signor Huber. Capelli bianchi e rughe profonde. Mi fissava, come fosse in cerca di qualcosa, come stesse esaminando un minuscolo insetto alla lente d’ingrandimento.

“Cosa stava facendo?”

“Ma insomma, mi sta forse prendendo in giro? Stavo facendo la tazza! Ho sempre giocato a fare la tazza”.

“Oh, Santo cielo, Mary, lo sta facendo ancora! Guardalo, guardalo!”, urlava mio padre – possa riposare in pace – a mia madre. “È lì, fermo da almeno un’ora, a parlare da solo, fermo in quella posizione. Santo cielo! Perché non gioca con i soldatini, come tutti gli altri bambini, mi chiedo? Mancava solo questa, da aggiungere alle disgrazie della mia vita: un effeminato in casa mia! Maledizione, Mary, prendi quei dannati soldatini!”

“Poi, però, non potei giocare più, neanche con i soldatini: mio padre scoprì che facevo prendere loro il thè e li gettò nell’inceneritore. Mio padre, pover’uomo, non era cattivo, né troppo severo, era solo malato d’omofobia. E, la sai una cosa? Il fato ha fatto sì che il frutto della sua virilità fosse un uomo che preferiva la virilità altrui, alla sua. Pover’uomo, mio padre. Così, continuai a fare la tazza in segreto, per non ucciderlo di crepacuore, capisci. Ormai, però, mio padre è morto, e che io mi nasconda, o meno, da lassù si vede tutto. Insomma, non lo vuole un thè?”

“No, la ringrazio”.

“E qual è il suo nome, signorina?”

“Sally”.

“Oh, è terribile! Che nome poco sensuale da dare a un essere, con la fortuna di esser nato donna! Senza offesa, naturalmente. Di certo non sarà stata lei a scegliere il suo nome. Io mi chiamo Josef, ma mi chiami pure Sofie”.

“Sofie, chiaro”.

“Mi permetta, un’innocente fanciulla, come lei, cos’ha fatto per finire in quest’inferno?”

“Inferno?”

“Sì, Inferno! Un luogo in cui non ti ritengono in grado neanche di addormentarti. Un luogo diretto da gente intelligente, quanto un fermacarte, costretta a soffocare le menti altrui sotto i farmaci. Non è inferno, questo?”

Lo osservai. Non era affatto alterato; piuttosto, rassegnato.       Era sereno, come può esserlo solo chi ha deciso di deporre le armi, senza combattere poi più di tanto.

“Allora? Come mai è qui? Attaccamento maniacale al denaro? Veggente? Non sa piangere?”

“No, sa, io scrivo… scrivevo storie”.

“Scrive?”

“Scrivevo”.

“E dov’è il problema?”

“Le storie, ecco, non le finivo”.

“Mai? Niente finale?”

“Mai!”

“Quindi, è qui perché non sa scrivere?”

“Sono qui perché non so finire”.

 

3.

 

Labbra di ceramica, le si potrebbero rompere solo a guardarle. Bocca bellissima e muta. Voce vuota.

Lo immaginate, non poter parlare? Pensare e non parlare? Immaginate. Lasciar riecheggiare, all’infinito, i propri pensieri nella testa e non riuscire a farli uscire. Immaginateli spingere e premere da ogni dove. Immaginate di aprire la bocca e non poterli far fuggire. Di addormentarvi e capire che per un altro giorno ancora, la vostra mente è rimasta sola con se stessa.

Il signor Huber diceva che la gente così, prima o poi, muore. Esplode. Arriva il momento in cui i pensieri hanno la meglio. Ce lo si aspetta, dopotutto. Chi non morirebbe, con la propria mente che schiaccia da dentro? Chi riuscirebbe a sopportare, per più di qualche anno, la propria voce che non c’è?

 

Il mio primo pensiero fu che era bellissima.

Il mio secondo pensiero fu che aveva lo sguardo triste.

Il mio terzo pensiero fu che qualcuno doveva averle strappato via la voce.

Doveva essere bellissima, la sua voce, altrimenti nessuno l’avrebbe mai portata via.

Quando le chiesi il suo nome lo scrisse nell’aria. Si chiamava Ania.

 

4.

 

“Dimmi che non sono io quella sbagliata”.

Lo scrisse su un tovagliolo, così. Era accanto a me e lo scrisse. Era questa, la sua voce. Sapeva di carta e inchiostro.

No, non lo era. Non lo era davvero.

Andavano avanti così i giorni: lei muoveva le dita, a comporre parole invisibili nell’aria e io la fissavo. Le sue dita bianche, quasi trasparenti, i polsi magri, gli occhi tristi. Era bella, in un modo in cui nessuno sarebbe potuto esserlo, delicata e fragile. Un corpo di vetro, già incrinato e scheggiato. Si potrebbe pensare che possa scomparire, così, da un momento all’altro, in vapore acqueo. È così, diceva il signor Huber, con chi non ha voce: la vita concede loro qualcos’altro con cui graffiare il silenzio. Ania aveva le mani. Mani bianche, quasi trasparenti.

        Buonanotte, scrissero le sue labbra.

Quella notte non dormii.

 

5.

 

Il signor Huber, lui, era fatto per vivere. Era così: lo guardavi e pensavi che fosse nato apposta per vivere.

“Che vuol dire biografie false?”

“Esattamente quello che ho detto. Scrivevo vite finte, vite ancora inscatolate, vite mai vissute. Lo capisci, cosa intendo? Prima di essere qui, tanti anni fa, stavo componendo una raccolta di biografie, tutte false. Una più fasulla dell’altra. Inventavo nomi, date e luoghi di nascita, amori falliti e grandi carriere. Solo una cosa era sempre uguale: raccontavo di vite spezzate. Più che parlare di vita, trattavano di morte. Ogni protagonista, ogni nome bugiardo, di quell’assurda messa in scena, pativa la morte, crudele e feroce, ognuno lo stesso giorno: quattordici gennaio”.

Un uomo, nato apposta per vivere, che narra di morte. Non è una cosa usuale, questo bisogna capirlo. Sembrava quasi sovraccarico, di tutta quella vita. Chi non può morire, osserva la fine degli altri. Lui non sarebbe morto mai.

 

6.

 

        Ero giovane, giovanissimo. Mia madre – che Dio l’abbia in gloria – voleva che suo figlio crescesse cullato dal dolce canto del lusso, dello sfarzo e di tutto quello schifo lì e così, ogni sabato pomeriggio mi tirava a lucido per farmi corteggiare una ragazzina tanto acida, quanto brutta. Si chiamava Inge, terza figlia della famiglia Garim, e rispecchiava ogni sogno e aspirazione della madre, una donna che, sotto il profumo, nascondeva la puzza di lupanari da quattro soldi. Mia madre sperava che io e Inge, un giorno, ci saremmo sposati e che il nostro matrimonio le avrebbe spalancato le porte di quello squallido mondo, di cui faceva parte la famiglia Garim.

        Un sabato qualunque, solita routine. Arrivati a casa Garim, mia madre e la signora andarono via: le vie del centro sono bellissime a quest’ora, dicevano. La verità era che mia madre sperava che suo figlio fosse in grado di violentare una ragazza – non è violenza, è una forma di corteggiamento, diceva – così da riuscire a metterla incinta e così aprirsi, con le unghie e con i denti, un posto nella società; per questo aveva portato via la signora Garim con una scusa.

        Non mi avvicinai neanche un attimo ad Inge, rimasi a fissarmi le mani fino a che lei non andò via. Più tardi scoprii che si era chiusa nella sua camera, con un quarantenne dal portafogli vuoto e le palle piene – mi consenta l’espressione.

        Presi a girare per casa Garim. Stanze dentro altre stanze, dietro altre stanze, oltre altre stanze. Uno sfarzoso labirinto di lerciume umano.

        Dopo, cara Sally, dopo non so spiegarti cosa successe. Sai come sono, queste cose, no? Ero giovane, ancora illuso e non ancora sconfitto. Fu la prima volta che sentii i suoi occhi nei miei, la prima volta che sollevò lo sguardo dal pavimento, che sentii il mio cuore ribellarsi. Einar.

        Per settimane furono sguardi, sempre più stretti, sempre più assassini. Mi recavo volentieri a casa Garim, solo per vederlo. Passò un anno, all’incirca, ed eravamo ancora lì, a fissarci in silenzio, così tanto, che sembrava quasi fosse un gioco.     Quell’estate, poi, fuggimmo via. Non avevamo mai parlato, non ci eravamo mai sfiorati, ciononostante fuggimmo. Insieme. Sono difficili da spiegare, queste cose. Nei primi tempi girammo locande ed alberghi. Finiti i risparmi, cominciammo a lavorare e con ciò che riuscimmo a ricavare, affittammo il sottoscala della casa di una vecchia signora, mezza cieca, che probabilmente non si era resa conto fossimo dei “froci bastardi” – così ci definivano.   Ma a noi non importava. Saremmo vissuti per sempre soffocando il nostro amore nelle quattro mura di quel sottoscala. Ma a noi non importava. Le nostre famiglie – la famiglia di Einar, in realtà – continuavano a cercarci. Ma a noi non importava. Infine smisero di tentare. A noi non importava.

        Inutile che io tenti di raccontare il nostro amore. Cose del genere devi viverle. Non si può raccontare un infarto, non puoi descrivere un cuore che si ferma. Allo stesso modo, non puoi raccontare un cuore che accelera, un cuore che si ingrossa. Niente potrebbe ucciderti, con un cuore del genere. Ma alla fine, muori lo stesso. Io morii quando rimasi solo, lontano da casa, esule ed abbandonato dall’unica persona che avessi amato. Non capii mai il perché, ma dopotutto non volli mai delle spiegazioni.

        Dopo anni, sposai una vecchia donna molto dolce che mi fece da madre e da consolatrice. Dopo la sua morte, i nostri figli mi portarono a vivere con loro.

        Avevo trovato un nuovo passatempo in quel periodo: inventavo vite e le scrivevo, stavo componendo una raccolta di biografie menzognere. Come ti ho già detto, raccontavano di vite spezzate, di morti, di agonie.

        Il quattordici gennaio la tubercolosi si portò via mia nipote. Mio figlio, scoperta la raccolta di biografie, mi sputò in faccia parole come assassino, visionario; poi mi rinchiuse qui, dove sono oggi a raccontare di un uomo che non è mai stato se stesso.

 

7.

 

Quattordici gennaio. Il signor Huber, immobile come un pezzo di legno.

        Strano, pensai, un uomo come lui sembrava fatto apposta per vivere.

Ania mi guardava. Era capace di dilaniarti il cuore, con quello sguardo, più del cadavere del signor Huber. Non piangeva, non si muoveva, non urlava. Guardava. Lei non gridava nelle orecchie, gridava dritto al cuore.

Il signor Huber era dolore. Io ero dolore.

 

8.

 

Ciao, sono Sally. Non conto più i miei anni e questa non è solo la mia storia. Questa storia è di chi si arrende, questa storia narra di sconfitte.

Una sconfitta è quando la vita ti batte, ti prende a calci il cuore e lo stomaco e ti rigetta nel mondo. Costole rotte e occhi, fin troppo asciutti. Una sconfitta è quando non combatti, quando cadi e resti a terra. Una sconfitta è quando racconti la tua storia e continui a sentirti pesante, come se avessi scoperchiato il cuore di uno sconosciuto. Una sconfitta è quando si muore in silenzio, quando lasci il mondo e non ti dispiaci.

 

Ania era nata sconfitta e come pegno aveva ceduto la voce.

Il signor Huber fu sconfitto da una vita che non era la sua, dai ricordi, dai giudizi, dall’amore e dal tempo. Non aveva più niente da fare, in questa vita, perché non aveva, neanche, mai iniziato a vivere. Mi narrò la sua storia e poi morì, eterno gesto di resa.

Quanto a me, io non ho mai neanche lottato.

La morte non è una fine, è una scorciatoia per vigliacchi.