I racconti del Premio letterario Energheia

Aprite le porte a Cristo, non ai Testimoni di Geova – Francesco Maria De Collibus, Pescara

Racconto finalista undicesima edizione Premio Energheia 2005

Il Paese è in recessione e io sono molto contento. Sarà per Milan Liverpool, ed io sono interista. Sarà perché il programma del dinosauro Pippo Baudo su Rai 1 va sempre peggio, ma io sono contento. Berlusconi ha detto che siamo tutti ricchi, e che tutti vorrebbero stare in Italia perché è pieno di belle donne che baciano tutti (a Canale 5 le fanno vedere in continuazione).

Spero che non si fermino ai baci, perché francamente non ho più 14 anni e limonare e basta non va mica bene.

Bisogna vedere l’origine del mondo. Sniffare l’origine del mondo. Il prof di Filosofia mi ha detto che ho una visione imenocentrica dell’universo, ma che ci posso fare, se a me, mi piace la figa. Non che io ce l’abbia con i gay a cui la figa non piace affatto, anzi. Nella vita basta che ti piaccia qualcosa.

Per esempio, a Berlusconi piace strapparsi i peli dal culo e piantarseli in testa: chi sono io per giudicarlo? Basta che non mi chieda di pettinarlo.

Il paese è in recessione: Luca Cordero di Montezemolo ha detto che bisogna recuperare competitività e io, che lo ascolto ciecamente (mi fido di chi ha due o più cognomi) mi ci sono messo subito di buzzo buono per recuperare competitività.

Sarò alfiere del mio Paese, patriota ad oltranza: un giorno mi dedicheranno una piazza e una statua come a Garibaldi e Mazzini. Spero solo che i piccioni non mi caghino in testa.

Il primo passo della mia strenua battaglia per la competitività è stato capire cosa volesse dire competitività. Dopo aver speso oltre 200 euro in dizionari (la competitività richiede massicci investimenti in ricerca e sviluppo, dovevo immaginarlo) ho trovato la seguente definizione:

Competitività[com-pe-ti-vi-tà]s.f.

1 Essere competitivo, spirito di competizione;

2 capacità di competere con la concorrenza: la – di un’azienda.

Bene! Fatta mia la teoria, è tempo di iniziare la pratica.

Quando prendo le scale, devo arrivare prima di tutti gli altri: non importa arrivare sfiatato, ma battere la concorrenza nei mercati internazionali, in particolar modo quella della signora del quarto piano, che ha cinquant’anni ma ancora un ottimo passo.

Prova del fuoco è la spesa al mercato il lunedì mattina, lì devo battere la concorrenza globalizzata (cioè sempre la signora del quarto piano), e devo comprare più sacchi di patate possibili, in modo tale da bloccare ai competitors l’accesso alle materie prime, prima che vengano trasformati in prodotti rivali ad alto valore aggiunto, come minestrone di cicoria e patate, strategicamente pericolosi per il mio core business, cioè il purè di patate con carote.

Quando le mie politiche commerciali non bastano per arginare la signora del quarto piano, mi tocca ricorrere alle leve più oscure del capitalismo: in particolare, le piscio sui fiori e le taglio le ruote della bicicletta.

Questa è la mia lotta per il Paese. Questa è l’essenza del mio patriottismo. Quando incontro un adolescente per strada, con il cavallo dei pantaloni sotto il livello del mare, il casco del motorino non allacciato, e la maglietta “De Puta Madre” (non sempre l’abbigliamento mente) io gli dico:

“Bravo, adolescente! Tu sei il futuro del Paese! Ma forse, il Paese non ha futuro”.

Allora lui non capisce, mi viene contro, e mi chiede se ho una cartina. Tipico. I ragazzi vogliono sempre cartine. Così giovani, e già maniaci del Touring Club.

“Non hai bisogno di una cartina. Per andare a ‘fanculo, sempre dritto fi no al semaforo, poi giri a destra! Non ti puoi sbagliare! ”

Allora, siccome che le giovani generazioni sono abituate al linguaggio di MTV, velocissimo e multimediale, io mi adeguo, cioè gli giro le natiche e lo prendo selvaggiamente a calci nel deretano, finché non scompare nell’orizzonte lamentando l’oppressione dei matusa, e che i giovani non hanno spazio.

La mia guida spirituale, Bernardo del bar “L’alchimista”, in piazza Grue, sosteneva che io ero pazzo. Anche io sostenevo che Bernardo del bar “L’Alchimista” era pazzo. Insomma, tra noi correva grande stima reciproca, oltre a straripanti fiumi di rosso direttamente dal vicino spaccio della “Cantina Tollo”.

“Bernà, è meglio il Cerasuolo o il Montepulciano?”

“Francè, la scienza è figlia dell’esperienza. Pertanto, esperiamo”.

“Esperiamo che Bernà?”

“Esperiamo che lu vine è bbone!”

Prime due bottiglie vuotate.

“Bernà, allora che hai deciso?”

“Non lo so. Il mio sarebbe un giudizio affrettato, e ingeneroso verso questi bravi vinificatori abruzzesi. Prendiamone altre due”.

“Hai ragione, bernà, un esperimento scientifico è una cosa seria. Non bisogna badare a spese”.

Per fortuna i nostri soldi tendevano a finire appena prima del nostro fegato. Durante queste sbronze colossali noi edificavamo filosofia teoretica di altissimo livello, salvo produrre, come scarto di lavorazione, quantità industriali di minchiate.

La cosa bella di Bernardo del bar L’Alchimista è che era pure mio padre. Mio padre naturale, ma pur sempre mio padre.

Mia madre me lo aveva confidato un giorno quando la trovai completamente ubriaca di Centerba Toro nel salotto di casa.

Il giorno dopo feci finta di averlo dimenticato, e lei fece finta di crederci: d’altronde io già apprezzavo Bernardo del bar, L’Alchimista, di professione docente di italiano alle medie.

Il passo successivo fu immediato: amarlo.

Eppure non gli dissi mai che io sapevo. Non importa quanto vino scorresse tra di noi. Non glielo dissi mai. E neppure lui mi fece mai sospettare che sapeva. Di sicuro però mi voleva bene.

Intanto, intorno a me era la fine di maggio, e la città si riempiva di cartelloni sul referendum per la procreazione assistita.

Io, ahimè, non sarei mai potuto nascere secondo questa legge: la fecondazione che Bernardo aveva compiuto su mia madre non era stata certamente artificiale, ma sicuramente eterologa, essendo mia madre già donna sposata.

Questa legge mi poneva insomma in un bel conflitto di coscienza. Essendo che conoscevo MOLTO bene un potentato locale di Comunione e Liberazione, m riuscì persino di ottenere una breve udienza presso il più determinato sostenitore dell’astensione nell’emisfero settentrionale: Camillo Ruini.

Cosa avrebbe detto di me l’uomo secondo cui la mia vita tutta era fuorilegge, perché non in accordo con le sue idee sulla vita? E così, complici le mie amicizie importanti, ci ero andato a parlare. Davanti a me, siedeva il Cardinale in persona, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Pelle verde, orecchie a tortello, ieratico ma subdolo, era un uomo in cui l’astrazione della fede si era materializzata in qualcosa di, estremamente, machiavellico. Parlammo per un’ora circa di stronzate varie.

Del quanto fosse bella e importante la vita.

Del quanto fosse grande il Signore che crea i fiumi e la via lattea.

Del quanto fosse meravigliosa la natura intera, creata dal Signore intorno all’uomo, suo figlio prediletto.

Del quanto fosse fantastico l’istituto dell’8 per mille, che permetteva al creato di continuare a funzionare con le sue leggi immutabili.

Del quanto fosse grande il Signore, che persino tramite un frate terrone di Pietrelcina poteva mostrare la propria immensità.

Lui seguitava a chiamarmi figliuolo e non mi ascoltava. Alla fine i nodi vennero al pettine.

“Insomma tormentato figliuolo: cosa voterai a questa tornata di referendum?”

“Quattro sì penso, perché io sono un tipo positivo. Non mi piace dire di no alla gente”.

“E lo farai senza rimorsi figliuolo, in piena coscienza?”

“Un solo rimorso: che i quesiti siano solo quattro. Mi piacerebbe poter scrivere più sì su quella schedina elettorale.

Ce la debbo proprio rompere la matita sopra la scheda, arerò il foglio”.

Non si arrabbiò: non era programmato per farlo.

Mi disse solo: dovresti astenerti. Ma lo disse come se si aspettasse una mia risata in risposta.

Poi si fece grave, più del solito e mi disse: un giorno capirai che non è facile farsi guidare. E’ la cosa più difficile. I cavalli più forti non sono certo i cavalli domati con la forza, ma neppure i cavalli selvaggi. Quelli sono schiavi di sè stessi, non si controllano. I cavalli più forti, sono quelli che hanno scelto di farsi domare. Un giorno sceglierai di obbedirci, liberamente, e allora avrai vinto la tua natura prava. (Zio Kaiser! Incredibile! Ha davvero utilizzato l’aggettivo “pravo”. Già Dante Alighieri lo riteneva fuori moda!)

Una pausa, di silenzio, mafiosissima, mi sarei aspettato che cacciasse un sigaro da cento euro. Non lo fece, ma aggiunse: per ora, vota come vuoi. Tanto quelli embrioni sono solo brodaglia biochimica. Tu sei molto più importante, e alla fine tornerai da noi.

Il colloquio era finito: il cardinale mi aveva detto anche più di quello che doveva. Uscii dal palazzo della CEI mangiucchiandomi nervosamente le mani. In realtà quando avevo chiesto a Patrizia un colloquio con Camillo Ruini non credevo che lei potesse davvero procurarmelo. Allo stesso modo le avrei potuto chiedere di farmi vedere il Gabibbo o Jeeg Robot d’Acciaio. E lei ci sarebbe riuscita.

Eravamo nudi, a casa mia. Io le facevo il solletico e scherzavo:

“Ma quanto siete potenti voialtri?” Lei era bellissima, rideva e diceva “Mettimi alla prova, su, avanti!”

E io la misi alla prova.

Patrizia, come tutte le cielline non lobotomizzate, era potente, ma non la immaginavo così potente da riuscire a combinare davvero un appuntamento con Mister Astensione in persona.

E dire che me lo comunicò dopo un altro appuntamento al calor bianco, tutta sudata: “Mercoledì, quindici e trenta, vai a Roma, al palazzo della CEI.

“Per fare cosa?” io neanche ci pensavo più.

“Parlerai con Ruini”.

Quelli tra me e Patrizia erano appuntamenti di sesso selvaggio, di desiderio che saliva dal cervello come un fischio e pitturava tutto di rosso e nero. Il rosso e il nero sono i due colori della Storia perché sono i due colori del sesso. Lei aveva gli occhi verdi, i seni grossi, torniti, i capelli corti con le pinzette innocenti. Portava un Tau di San Francesco sul collo. La commistione di sacro e sensualità mi eccitava di bestia. Avrei scopato di fronte alla croce, e sarei stato sicuro che Gesù approvava. Lui sanguinava, il sangue è pure uno dei colori del sesso. Visto che tutto torna? (andrò all’Inferno per avere pensato queste cose. In bocca al Belzebù).

Eppure c’è stato un momento che Gesù aveva solo 7 anni più di me. E già insegnava, moltiplicava pani e pesci, curava i malati senza essere iscritto all’albo dei medici, ingaggiava risse all’ingresso dei templi. Insomma, non solo come capo religioso, ma anche come giovane ribelle Gesù è sempre stato molto più figo di me.

Ma ora vi parlerò di me, e perché tra un mezzo padre e una mezza ragazza sono in crisi nera.

Io ho quasi ventisei anni e nella vita non faccio nulla. Non ho molto futuro davanti, per cui mi riguardo il passato. Prima di adesso, ho lottato una vita con esami che hai fatto solo metà del programma e l’aguzzino invece chiede tutto, professori di liceo con la scopa tra le chiappe e ansiosi di passarti lo straccio sulla testa, ragazze che togliersi le mutande – giammai – sotto c’è un mostro peloso che morde, e non lo nutrirai certo di salsiccia.

Non la tua, non stasera, non domani. Uno sfigato come te: mai. Avessi una macchina germanica e sportiva, forse!

E inoltre preti giovani, gellati sui capelli, fighi ma ligi sulla dottrina, prima cattolico-liberali, poi con gli anni sempre peggio, verso lo squadrismo più bieco, da Don Sturzo a Nicholas Eymerich, inquisitore, senza passare dal via e al diavolo le ventimila lire. Chilometri di sermoni alla Savonarola, gonfi di escatologia d’accatto (Belzebù vi sgranocchierà, giovinastri, e c’ha pure la fiatella !!!!!!).

Clericume avido di sentenziare quanto di ricevere soldi per rifare il tetto della fottuta parrocchia: sic transit gloria mundi. E sto tetto schifoso spero che crolli ‘na bella domenica mattina, alla messa delle undici magari, quando qui è pieno.

E in più capi scout schizofrenici con macchine rosa, madri interessanti ma preoccupate, avide lettrici di giornali femminili pieni di inchieste sul feticismo dei piedi, amici fricchettoni impegnati in una crociata contro la droga, e con un imperativo morale: bruciare tutta la Ganja che si trova in giro, preferibilmente dentro un Cylum. E poi felpe, cibi equi e solidali, cuccume, fisime, sfaccime mazzi, sfrazzi e cazzi di qualsiasi sorta.

Ce l’avevo quasi fatta. Ero sopravvissuto. Mi sono persino laureato.

Ho preso il pezzo di carta. Ma i pezzi di carta a cosa ti servono, se non ci puoi scrivere sopra una poesia per una ragazza, fosse pure la ciellina Patrizia? Nella Fontamara di Ignazio Silone, ignobile paesino del mio (ig)nobile Abruzzo, potevano almeno assolvere le erbacce dall’onere dell’igiene intima, ma ora, che le carte igieniche sono talmente tante da avere metafisiche proprie (doppio velo o no? Riutilizzabile? Riciclabile, ecologico. I rotoloni bianchi si innamorano di quelli rosa)????

Non compri un rotolo, compri un tamagotchi.

Credevo che la vita fosse tosta, come il mostro finale di un videogioco. Aveva una barra dell’energia lunghissima, però si sarebbe mossa lenta e ripetitiva su schemi fissi, mentre io, zac zac, veloce e dinamico, l’avrei affettata un poco alla volta, come una porchetta, fino a mangiarmela tutta, avrei così vinto la vita vera.

E invece la vita vera non c’era. Io pensavo fosse semplicemente in ritardo, allora mi sono preso un paio di mesi di vacanza, continuando a spedire curricula in giro. La vita vera era in ritardo, ma sarebbe senz’altro arrivata a breve. Avrei affettato la mia porchetta. Avrei sconfitto la mia medusa non tagliandole la testa, ma ficcandogliela in un sacchetto di carta e divertendomi con lei (la Medusa della tradizione di corpo è particolarmente figa. Ci avete mai fatto caso?).

Avrei strangolato la vita a mani nude come nel wrestling.

Terremoto del Wisconsin contro il becchino del Montana. Ma la vita non si è presentata alla sfida. Ieri, come oggi, non c’è niente, e nel luogo del duello cadono foglie gialle e fragili, ora sono manto, sommergono tutto. Non mi si vede neanche più, sommerso dall’autunno. La vita da battere non c’è. Continua a camparmi i miei. Faccio lavoretti idioti, che mi pagano la metà di quanto promesso e con sei mesi di ritardo. E vado a chiedere i grandi perché della mia vita a Camillo Ruini, il Richelieu dei poveri, che però mi ordina di non votare ai referendum. Io avevo solo una certezza nella vita, che avevo stampato e appeso sopra il letto, proprio affianco al crocifisso, sempre più tisico e remissivo.

“ Nella vita, i giorni che contano sono due o tre. Gli altri, fanno volume”.

A Ruini avrei voluto chiedere quando sarebbero arrivati questi miei benedetti due o tre giorni. L’avevo chiesto anche a Patrizia, lei mi aveva risposto: noi donne siamo messe molto peggio, ogni mese automaticamente scartiamo tre giorni, che sicuramente non saranno mai belli. Io le dissi:

“Patrizia, quante volte ti sei depilata le gambe fino ad adesso nella tua vita?”

“ Tante volte. Sicuramente più delle mie colleghe di Comunione e Liberazione”. (Veri e propri Moon Boot umani).

“ Ti capita mai di pensare alle cose interessanti che avresti potuto fare anziché depilarti?”.

“Spesso”.

“Non so, avresti potuto elaborare una dottrina economica di tipo marxista nella quale sostenevi che la classe dirigente del futuro saranno gli spazzini”.

“Gli spazzini? Perché proprio loro????”

“Perché nella nostra società tutto sta diventando spazzatura. Noi ne produciamo sempre più, e loro la raccolgono. Noi stessi, i nostri corpi, le nostre anime, diventano spazzatura, e loro la raccolgono. Alla sua massima entropia, il sistema sarà tutto spazzatura, e saranno gli spazzini a possederla. Allora loro ci comanderanno come nessuno ci ha comandato prima, e credimi, rimpiangerai il lavaggio strade!”

Patrizia sgranò gli occhi, come quando aveva voglia

“Sai, a volte credo che se tu pensassi alle cose serie con lo stesso impegno con cui mediti le scemenze, saresti già qualcuno”.

“Ma io sono già qualcuno! Sono il tuo amante”.

Lei si morse le labbra, e i suoi occhi mi guardavano verdi e offesi. L’uomo che le stava di fronte doveva essere solo una specie di giocattolo sessuale, e lei non poteva ammetterlo, perché ne apprezzava l’anima tutta, e in un altro mondo, forse l’avrebbe persino amato. Ma non su questa valle di lacrime, fatta di lutti, amarezze e giudizi degli altri: qui lei era fidanzata con un’altra persona. Timoteo, caposcout eccentrico, ingegnere elettronico neolaureato, affacciato alla vita con il sapore di borotalco della propria biancheria, con quel sorriso dritto, rassicurante. Un uomo con i lacci delle scarpe simmetrici: a me non riusciva mai. Le calzette di Timoteo non calavano sotto la linea del ginocchio. Timoteo non aveva mai sostituito da solo la marmitta del suo motorino. Timoteo aveva sempre il biglietto timbrato. Ma non era sfigato, era solido. Io cos’ero? La pazzia di una ragazza per bene. Lei e Timoteo si sarebbero sposati di qui a un anno. Lei aveva già scelto il vestito, ed era bianco, bianchissimo. Puro. Bernardo, il mio mezzo padre, diceva che ero pazzo. Bernardo aveva ragione.

“Tu sei tu -, mi disse lei – altera, stupenda, con gli occhi verdi che prendevano i colori degli abeti di altissima montagna, irraggiungibili. “Nulla in più, ma neppure nulla in meno di questo”. Le sue parole mi ferivano l’anima mentre ritornavo a casa per questa città ambrata di foschia e studenti fuorisede, mezzi ubriachi solo perché l’ubriacatura intera non se la potevano permettere (di questo in particolare volevo ringraziare il mio amico Euro, che mi permette di non cambiare i soldi quando vado in Danimarca e di non avere mai i soldi per fare un cazzo).

Io non ero Nulla. Assolutamente, completamente Nulla.

Non avevo un lavoro, non avevo una professione, non avevo nulla di tutto questo. Non avevo certezza. Avevo solo Patrizia, e neppure tutta: solo uno spicchio, di cui lei si vergognava pure. La sua luce era per Timoteo, io ricevevo solo battiti del suo cuore di tenebra. Ognuno ha un cuore di tenebra: anche i cuori di tenebra si possono trapiantare, purtroppo. E avevo le ubriacature con il mezzo padre Bernardo. Che quando non aveva consigli da darmi, rabboccava il bicchiere e metteva una sigaretta sul tavolo. Così gli uomini risolvono i problemi!

E Patrizia era di Timoteo, il perfetto Timoteo.

Con Timoteo avevamo fatto insieme il primo anno di ingegneria. Io poi avevo cambiato, fatto altro, non era la mia strada, o non ero abbastanza bravo. Anche dopo l’altra, inutile laurea non avevo ancora capito quale fosse la mia strada. Non sapevo cosa fare con Patrizia. La vita non si presentava alla sfida. Rimanevo solo vecchio e grigio ad aspettarla. La vita non arrivava.

L’età non è mai un fatto anagrafico. E’ uno stato mentale di rassegnazione. Io stavo per lasciar perdere. La vita non si sarebbe presentata alla sfida. Sarà per la prossima vita, se Buddha ha ragione e c’è la prossima vita. Ora era tempo di ingrigire. Poi finalmente capii il mio errore: ero a casa mia, nella città plumbea, ad aspettare che la vita venisse a sfidarmi.

Ma probabilmente era la vita che attendeva la mia sfida, non viceversa!

Cavolo! I padrini del duello dovevano aver fatto confusione con il regolamento! Dove mai era scritto che io dovevo aspettare la vita? Ero io piuttosto che dovevo trovarla, inseguirla, domarla. E’ chiaro, lei mi aspettava altrove! Poverina, si stava pure annoiando! Dovevo muovermi!

Il giorno dopo alla segreteria della Conferenza Episcopale Italiana arrivò un telegramma per il cardinale Ruini. C’era scritto:

“Luridi baciapile, non vincerete mai. Firmato: l’indomabile”.

Ruini si guardò in giro e chiese: “Ma chi diavolo è sto tipo? Comunque, speriamo si astenga al referendum!”

Al bar l’Alchimista, andai ad abbracciare Bernardo con le valigie in mano. Lo strinsi forte, forte e gli dissi: “Arrivederci papà. Abbi cura di te”. Lui pianse quando me ne andai, ma non mi trattenne, perché aveva capito tutto.

Nel frattempo, il mio aereo partiva per il Brasile. Una nuova vita, una nuova terra, nuovi orizzonti. Avevo preso in banca tutta l’eredità lasciatami da mio nonno, un piccolo gruzzolo pronto a crescere. Avevo preso contatti con vecchi amici e sapevo a chi rivolgermi una volta arrivato a San Paolo.

Furono dieci mesi di fuoco. Sollevai la vita di peso, e la presi a schiaffi finché non implorò pietà. Mi misi in affari.

Tutti i tipi di affari. Iniziai a fare soldi.

In Italia avevo tenuto contatti e informatori. Volevo tornare il giorno stesso delle nozze tra Patrizia e Timoteo, però poi avevo reputato la cosa troppo scontata, persino indegno, di un elegante viveur come me. E’ cosa da pubblicità interrompere i matrimoni. I veri gentlemen li prevengono. E poi i preti non dicono mai: “Chi ha da parlare parli adesso o taccia per sempre”.

Maledetti preti, ti tolgono tutta la teatralità del rito.

Colpii invece Patrizia durante il suo addio al nubilato, desolatamente casto perché lei rimaneva pur sempre una boss di Comunione e Liberazione. Un localino tranquillo, e dei cocktail, neppure tutti alcolici. Le feci mandare delle rose dall’esterno del locale, pregando di venire all’esterno, che il suo amore l’aspettava. Le amiche risero. “Timoteo non dovrebbe venire stasera!” ridevano, non immaginavano certo che fossi io… Quando, seguendo i petali, arrivò fino a me, prima mi tirò uno schiaffo, poi mi baciò con passione. Poi un altro schiaffo e un altro bacio.

“Non sposare lui, scappa via con me. Ho comprato una casa bianca in Brasile. Ti piacerà, è di legno e guarda il mare”.

Lei mi prese in mano, e venne via con me, al mio albergo.

Fu una notte di fuoco rovente. Senza protezioni: lei mi assicurò, prendeva la pillola regolarmente.

Il giorno dopo mi lasciò un biglietto

“Amore mio. Io non posso scappare con te, né ora né mai. La mia vita è qui, con Timoteo e la famiglia che costruirò. Non puoi essere tu, la colonna portante della mia vita. Non è giusto che sia tu. Però ieri io ti ho preso qualcosa, qualcosa che sarà sempre con me, e mi parlerà di te.

P.S.: Non è vero che prendo la pillola.”

Ykes.

Sull’aereo per San Paolo, contemplavo il posto vuoto affianco al mio. L’avevo prenotato per lei, e adesso era il mio cuore di tenebra, lì, affianco a me. Non puoi sconfiggere la vita, non si gioca contro l’arbitro.

Bernardo venne a stare con me dopo sei mesi, nella casa bianca. Lasciò la scuola e imparò il portoghese in fretta. Ci divertimmo un mondo insieme, in Sud America, e lui capì cosa è veramente il Rum, non quella brodaglia che ci fanno bere a noi in Italia.

Esattamente un anno dopo, il cardinale Camillo Ruini, ancora battagliero, battezzava il bambino di Patrizia e Timoteo.

Non poteva certo sapere che ancora una volta si era trattato di fecondazione eterologa: tale padre, tale figlio.