I racconti del Premio Energheia Europa

Mattinata, László Potozky_Budapest

Anticipazione dal romanzo Égéstermék (Prodotto di combustione), Budapest 2017

Vincitore del Premio Energheia Europa – Ungheria 2017

Traduzione di Antonio Sciacovelli

I volti dei legionari sono maschere infiorate di brina, batto i denti dal freddo. Le sanguisughe di sinistra, facendosi scudo delle spoglie mortali dei nostri eroi nazionali, dicono che oggi, a causa del lutto, non ci sarà seduta in Parlamento, si sente dal palcoscenico centrale, io devo stringere ancora la cintura, tanto la pistola mi tira la tasca posteriore dei pantaloni. La Konrád sembra una santabarbara, sento che non sono l’unico a nascondere il ferro, sotto un cappotto invernale si può tranquillamente nascondere un fucile da caccia o un kalashnikov, tutti vogliono uccidere. Ma tutti tacciono intorno ad Avner, qualcosa dev’essere successo nel corso della notte perché gli manca mezz’orecchio e ha una ferita che va dalla tempia alla piega della bocca, con più di dieci punti di sutura: non mi azzardo neanche a guardarla. Ma lo sguardo è davvero terribile, il suo modo di far finta di non avere quel taglio lungo una spanna sul ceffo, poi grida: adunata, ragazzi, venite qui! e dopo che ci siamo riuniti, ci sono dei cecchini in città, bisogna fare qualcosa, quindi da adesso non ci sono più differenze tra esterni e interni, tra riservisti e che cazzo ne so io cosa, da questo momento facciamo sul serio, perciò chi non sopporta che quegli stronzi gli sparino dal tetto, se ne può andare anche subito, senza problemi, ma io ho bisogno di gente su cui contare, perché dobbiamo avere il controllo su mezzo distretto e nessuno farà il lavoro al posto nostro, chiaro? Ha un walkie-talkie in mano, lo avvicina alla bocca, blatera dentro delle cose militari e dopo qualche secondo si sente gracchiare la risposta, tra dieci minuti in marcia.

Stride il nastro adesivo, non capisco perché i ragazzi della brigata si incollino quei foglietti pieni di numeri sulle giubbe, sugli anfibi, ma un attimo dopo capisco che si stanno fissando addosso i numeri di telefono dei congiunti e l’indicazione del loro grup-po sanguigno. Ritrovo nel portafogli il biglietto da visita del mio vecchio capo e lo uso per scriverci sul rovescio i miei dati, poi mi accorgo di aver scritto il mio numero di cellulare, appallottolo il cartoncino e lo getto via, sono deciso a tutto e non ci sono santi, piuttosto muoio dissanguato, ma non voglio diventare uno storpio o un paralitico. Qualcosa non va nella cinghia del casco, non riesco a stringermela al mento, non c’è che questa specie di orinale a separarmi la testa dal resto del mondo, ma se per caso un proiettile rimbalza, il colpo può schiantarmi l’osso del collo. Avner ha appena spiegato alla brigata come procederemo sulla Ezredvég, coperti dagli alberi e dalle facciate dei palazzi: non vi stringete, sui marciapiedi, cercate di procedere il più possibile in ordine sparso, perché non sprecano i proiettili se devono tirare a uno solo di voi, ma beccarne tre insieme è già un bel risultato, e soprattutto non guardate soltanto davanti a voi, non si può mai sapere chi si trova dietro le finestre alle vostre spalle, e se iniziano a spararvi addosso e siete armati, non limitatevi a rispondere, non siete a caccia, coprite gli altri, avanti, un minuto, prepararsi!

La strada è deserta, non ho mai visto la Ezredvég così ampia e lunga, mi sembra quasi di sentire, nell’aria, quei colpi di fucile che non vedono l’ora di accadere, finalmente. Come se non sapessimo in che modo si deve avanzare quando siamo in una situazione del genere: non si deve correre, ma neanche scivolare lenti, è una specie di corsetta, le suole degli anfibi tamburellano delicate sul lastrico, nessuno dei legionari si azzarda a procedere a passo più veloce degli altri, io stesso guardo come muovono i piedi, per capire chi rallenta più di me. Quanti più sono quelli che mi precedono, tanto più sono al sicuro, ma poi mi viene in mente perché alcuni avanzano così lenti, perché sembra quasi che la mazza da baseball e lo scudo stiano per cader loro di mano: sono i maschi che non hanno mai detto no a chissà quante guardie notturne, a chissà quante battaglie per strada, e adesso hanno il diritto di essere stanchi, sono veri legionari, loro. Provo a seguire il ritmo, ma all’improvviso Avner si blocca e quando lo raggiungo, anche io posso vedere, al centro della strada, il furgone blu con intorno i poliziotti della squadra di assalto, stanno coprendo il furgone con gli scudi, ma che cazzo fanno? chiede uno dei nostri. Avner resta in silenzio a fissare la scena, poi si avvia verso i poliziotti, sfilandosi il passamontagna dal volto, come se volesse spaventarli con la sua ferita, anche noi lo seguiamo.

Vedo da dietro l’orecchio mozzato, i poliziotti iniziano a colpire gli scudi con i manganelli, la gomma dura fa tintinnare l’acciaio, anch’io mi preparo a fare quello che faranno gli altri, stringo il bastone e mi preparo a sferrare un calcio, quando Avner grida: fermi ragazzi, stop!

Siamo tanto vicini da poterli quasi guardare negli occhi, li sentiamo ansimare mentre inspirano attraverso i filtri delle maschere antigas, il giubbotto antiproiettile e i pantaloni della mimetica non sono un’uniforme, sono la loro pelle. Vi attorcigliamo le budella al collo! urla uno skinhead, nessuno capisce perché non possiamo iniziare l’assalto, ma allora adesso facciamo sul serio, cazzo, o no?! Si sente un tonfo sul lastrico, ma il lacrimogeno non ha il tempo di partire che un tizio, armato di un bastone da hockey, lo respinge, e si metterebbe a correre urlando verso il muro di poliziotti, se Avner non lo tirasse indietro: ho detto fermi! Che ti piglia, cazzo?! quello si libera dalla presa, ma Avner gli grida: guarda, apri gli occhi, non lo vedi che sono dei mocciosi?! Ed è proprio così, i poliziotti di questo commando sono troppo minuti, sguazzano nelle protezioni e sembra che anche le mimetiche siano state accorciate alla buona. Avner si avvicina a uno di loro e gli strappa la maschera antigas: spunta la faccia allibita di un ragazzino brufoloso con i capelli appiccicosi, avrà al massimo diciott’anni, è tutto rosso di paura, con lo sguardo passa da un legionario all’altro. Guarda la maschera antigas che Avner continua a tenere in mano, ma non ha il coraggio di stendere la mano per afferrarla, prova invece a sparire indietreggiando entro le file dei suoi, veloce, torna al tuo posto! gli urla una voce dal furgone. Solo adesso mi rendo conto che dal lato del guidatore il finestrino è abbassato, un tizio, forse un ufficiale, con un berretto in testa, sta armeggiando con qualcosa, sicuramente è una radio, errore tecnico, aspettiamo istruzioni, passo. Che ci fanno qui questi pischelli? grida Avner nella sua direzione, ma l’ufficiale non lo sente nemmeno, continua a ripetere sempre la stessa solfa, al che Avner spinge da una parte quei nani, spostando scudi e tutto, apre di scatto la portiera del furgone e urla: sto parlando con te, collega, che cazzo succede?

Il berretto è scivolato indietro, come se l’avesse fatto saltare su quella faccia bianca come la pasta scotta, non vi avevo ordinato di tenere sotto controllo la zona intorno al mezzo?! urla ai mocciosi, poi si rivolge ad Avner: per cortesia, tolga la mano dalla maniglia, torni dai suoi e comandi loro di ritirarsi da qui, siamo in zona di operazioni. Lo dice tutto d’un fiato, con la voce che gli trema, ma Avner lo prende per la collottola e lo tira fuori dall’abitacolo: si è scaricata la batteria e non puoi chiamare i tuoi padroncini, o no? Sulla faccia dell’ufficiale tremano le guance grassocce, siamo arrivati dalla provincia, ci siamo persi, al che Avner: allora dimmi perché vi hanno mandati qui! Questi sono gli allievi della scuola di polizia, sono considerati mobilitabili in caso di massima emergenza, abbiamo ricevuto una chiamata dal ministero dell’interno, direttamente, e adesso continuiamo a piedi. Non andrete da nessuna parte dice Avner, sono ancora dei lattanti, non ne farete carne da cannone, poi ci fa un cenno: disarmateli, ragazzi, toglietegli tutto quello che hanno addosso. Ma questo è un intralcio alle operazioni di polizia! grida l’ufficiale, non consegnate nulla! ma qualche ragazzino ha già gettato a terra scudo e manganello, non si devono davvero costringere a nulla gli altri, che subito si tolgono le maschere antigas, e non sai se hanno la faccia sudata o zuppa di lacrime. Questi vorreste far andare avanti a far da schermo ai vostri mercenari, dice Avner, continuate a leccare il culo a Topolino! e la sua voce suona tranquilla, nonostante stia sferrando un gran calcio all’ufficiale, che rovina in ginocchio.

Forse è stato dopo aver visto questo che ai legionari è preso il desiderio di colpire anche loro qualcuno, non lo so. Abbiamo fatto un mucchio delle cose consegnate dagli allievi, li abbiamo perquisiti per evitare di lasciar loro qualche coltello o qualche razzo di segnalazione, le mimetiche erano tanto nuove, che qualcuno di loro aveva dimenticato di togliere l’etichetta. Di dove sei, figliolo? ha domandato uno degli skinhead cacciando gli occhi in faccia a uno dei ragazzi, e poi: che cos’hai qui? eri tu che giocavi con i lacrimogeni? ma il moccioso non ha risposto, anzi avrebbe voltato la faccia dall’altra parte, se la testa rasata non avesse cominciato a prenderlo a schiaffi, beh, rispondi, e che cazzo, ma sei muto?! Si sentono gli schiocchi lievi degli schiaffi, sulla faccia dove neanche la peluria di qualche giorno cresce come si deve, e che diventa violetta sotto l’effetto delle manate: ma che cazzo mi fissi? ti vuoi ricordare come sono fatto, eh?! Allora si avvicina un altro legionario, che grida al moccioso: faccia a terra! e poi al suo compagno perché lo stai coccolando? non capisci che ce li hanno mandati contro, così imparano chi devono cacciare, poi si mette a gridare a quello steso a terra: e tu che cazzo fai? smettila di guardare, vaffanculo! Gli si gonfia il grugno mentre raccoglie la saliva, poi la sputa tutta spingendo in avanti le labbra, proprio davanti all’allievo poliziotto: leccala, tuffaci la bocca, non mi prendere per il culo! Il ragazzo ansima, il moccio gli cola dal naso, guarda ora lo sputo, ora noi, ti faccio venire la voglia di mangiare l’asfalto! urla il legionario, pulisci! Ma che cazzo sta succedendo qui? sento la voce di Avner che spinge davanti a sé l’ufficiale, di sicuro lo ha appena ammanettato, per questo non si è ancora accorto del casino, un po’ di educazione, capo risponde il pelato, non vogliamo farli crescere viziati. Smettetela immediatamente, dice Avner, ma cosa ti credi di essere, il boia di stato?

Nessuno passa per la Ezredvég, come se questa zona fosse del tutto dimenticata, inclusa la nostra brigata. Non t’impicciare! il legionario tira su con il naso, non sono affari tuoi. Avner spinge da parte l’ufficiale, poi si avvicina al tizio, così tanto che i loro nasi si toccano: sono tutti affari miei, come ogni cosa che succede in questo plotone. Tutti li guardano, lo skinhead riesce a sostenere lo sguardo di Avner: il fatto è che questa è una brigata, non un plotone, amico. Ma il responsabile sono io, e non ho ordinato di linciare nessuno. Io invece sono quasi due mesi che sono nella legione, e non ho ancora ricevuto un cazzo di niente, perciò il minimo che voglio è potermi sfogare con quattro schiaffi, se mi prudono le mani. Stamattina ho detto che nessuno è obbligato a restare, gli risponde Avner, puoi andartene a casa e prendere a schiaffi il tuo fratellino, se così ti senti meglio. Queste stronzate da pedofili le può dire solo un giudeo, s’intromette un’altra testa rasata, che parla come se Avner non fosse neanche presente: perché non mi avete dato retta, queste cazzate sion-liberali le sentiamo dal primo giorno, ma non vedete che ci ha fatto mangiare le nostre stesse palle e nel frattempo la rivoluzione va a farsi fottere? Fino a quando dobbiamo sopportarlo?! I legionari si guardano confusi, scuotono la testa, giovani, dice allora l’ufficiale di polizia, se mi lasciate andare, farò in modo che tutta questa storia resti senza conseguenze, ma toglietemi questa merda dalle mani!

Tiene le mani sollevate, mostrando i braccialetti di plastica che penetrano nei polsi, molti si sono tolti il passamontagna, leggo nei loro occhi che non sono pochi gli indecisi. Avner all’improvviso fa una giravolta e colpisce l’ufficiale con un diretto potentissimo alla bocca dello stomaco, poi lo afferra per l’uniforme e comincia a trascinarlo verso il furgone, come un agnello che viene portato al macello. Il pugno è seguito da un fortissimo mugolio, poi ognuno fissa il vuoto davanti a sé, senza fiatare: Avner butta l’ufficiale dentro il retro del furgone sbattendo la portiera, quasi si spezza la chiave nella serratura. Adesso si dirige verso di noi e basta il tempo di fare quei due passi che ci dividono da lui, che i due skinhead che gli avevano urlato contro, insieme a tre o quattro di quelli che si erano messi a riflettere, se la filano. Anche gli allievi di polizia si disperdono, senza le uniformi sono ancora più magrolini, avanti, in marcia sulla Ezredvég, dice Avner alla brigata.

Stanno frustando il cielo, penso mentre sento riecheggiare le esplosioni: stanno sparando da qualche parte, davanti a noi, neanche tanto lontano. Nella tasca di Avner gracchia il walkie-talkie: una brigata è sotto il fuoco nemico, bisogna portar via i feriti! grida, presto, andiamo alla rotonda!

Inspiro apposta rumorosamente, mentre corro, per sentire il meno possibile il rumore delle detonazioni, ma non posso non vedere la fontana di cemento, completamente secca, e i morti tutto intorno, che in un mucchio sporco stanno sdraiati sulla strada e nel parco.

Di qua e di là corrono disordinati degli stupidi legionari come noi, ma non ci si può fermare, assolutamente no, perché un proiettile con un fischio strappa via un bottone dalla giubba di un tizio, e subito il mondo diventa reale, irreversibile, definitivo. Non mi state attaccati al culo! urla Avner, disperdetevi, mettetevi al riparo! e tutta la brigata fila dove può, anche io scappo senza sapere dove, lo stomaco mi pesa come una palla di acciaio, che mi fa spostare in una direzione, durante l’addestramento abbiamo imparato che non ha senso andare a zig-zag, tanto ti beccano lo stesso.

Sudo freddo, ormai non sento più di aver paura, ecco una centralina elettrica in mezzo all’aiuola, un riparo perfetto, devo arrivarci, per forza, ecco, mi ci butto dietro, sento l’elettricità che ronza dentro.

Ho perso sia lo scudo che il bastone, adesso me ne rendo conto, sento le mie mani che piombano vuote nella terra fredda, provo a dare un’occhiata da dietro il riparo, ma non riesco a muovermi. Avner ci ha spiegato tutto un milione di volte, ma non ci ha mai spiegato cosa dobbiamo fare se ci troviamo di fronte a un cecchino, né cosa significa precisamente l’esplorazione, quella per cui siamo partiti stamattina. Dai tetti giungono scariche sempre più terribili, tirano a un’altra brigata che sta arrivando alla rotatoria in questo momento, ma non guardo più verso di loro, dopo che un tizio si è accasciato tanto regolarmente, da sembrare scivolare nel profondo del suolo: one skinhead leaving country, roger, sento dire, ma secondo me non ha realizzato che è morto, che è finita, e che anche per me sarà finita. Premono il grilletto, gli invisibili, qualche legionario si mette pancia a terra e inizia a strisciare, qualche altro prova a nascondersi sotto il marciapiede, ci sono anche quelli che si limitano ad alzare davanti a sé lo scudo e ci si nascondono dietro, come Buller che quando aveva due anni credeva, nascondendosi sotto una sedia in cucina, che se lui non mi vedeva, neanche io lo vedevo. Visto! gli dicevo toccandogli la spalla, e anche i colpi di fucile sono così, ti toccano sullo scudo, lo trapassano, uccidono gli uomini attraversando il metallo, i cecchini se la godono nel vedere quanto è facile bucherellare questa merda di ferraglia, colpire un cuore, un polmone, un collo, un fegato: ecco quello che cercano.

Gli echi si spingono secchi qua e là tra le facciate dei palazzi, non vedo nessuno della mia brigata, un paio di facce a me sconosciute se la sono svignata tra gli alberi, stringono tra le mani il casco che hanno in testa, sperando di non essere visibili sotto quei rami spogli, sperando che si dimentichino di loro, mentre io penso a quanto dev’essere bello abitare da queste parti e guardare in strada dalla finestra, in momenti come questo.

Mi rendo conto che uno dei nostri ha un vero e proprio scudo da parata: anche lui sta rannicchiato sul tappeto di foglie morte. Le foglie in decomposizione gli si attaccano alla mimetica, mentre lo scudo metallico, decorato all’inverosimile, fa quasi luce mentre lo tiene stretto in mano, si vede che adesso si pente di non essersi portato lo scudo da legionario che è grande il doppio. Vorrebbe essere davvero più piccolo, potersi nascondere dietro un tronco d’albero, ma ha troppa ciccia addosso, prova in tutti i modi a usare al meglio il suo riparo e nel frattempo guarda da sotto il casco, ha gli occhiali, poi getta il capo all’indietro. Un brivido mi fa tremare, sono certo che anche prima lo hanno tenuto sott’occhio dai tetti, sapevano che era lì, ma allora perché proprio adesso? Esiste un ordine di attesa per essere fatti fuori dai cecchini, come quando andiamo dal medico? O forse solo allora ne hanno avuto il tempo? La voglia? In fondo, la cosa mi era sembrata semplice, comprensibile, sento dei passi e un altro legionario, con una barella, corre via a un paio di metri da me, quando arriva in mezzo agli alberi butta a terra lo zaino, si mette in ginocchio e subito si accascia, pacifico, come accade soltanto dopo un colpo al cuore. Ha aperto la barella a metà, lo guardo allibito da dietro la centralina, mentre si spegne lentamente, forse ha annuito, sta dicendo che va bene così, che questa è la vita, poi si confonde con il suolo.

Vernice invisibile, mi dice una voce all’orecchio, mi giro e vedo un legionario sdraiato accanto a me, che mordicchia la cordicella del cappuccio, non ho idea di quando sia finito qui dietro. Siamo stati noi a spruzzarci addosso, senza che nessuno ci obbligasse, continua, uno spray ignifugo, ma un paio di coglioni, perché sono stati degli agenti segreti a distribuirlo a noi legionari? adesso i cecchini si mettono gli occhiali a infrarossi e subito capiscono a chi devono mirare, io non posso uscire allo scoperto, non hai per caso un’arma da prestarmi? La domanda è talmente strana che gli rispondo ma certo, come no, poi infilo la mano nella tasca dei jeans e tiro fuori la pistola, quasi quasi gliela darei, ma il tizio mi respinge la mano, io non sono buono a sparare, pensaci tu. È da un po’ che regna il silenzio nei pressi della rotatoria, me ne accorgo mentre spingo la testa fuori dal mio riparo, con grande prudenza inizio ad alzarmi, tenendo la pistola con tutte e due le mani e appoggiandomi alla sommità della centralina, continuando a guardare da sopra la canna dell’arma, senza sapere cosa fare. Guardo il mirino e a un tratto mi viene in mente quello che mi ha detto una volta mio padre, che con queste pistole si dovrebbe sparare il colpo d’avvio alle corse di cavalli o di cani, sono buone giusto per quello, e che quando ci sono le esercitazioni periodiche di tiro, mettono le sagome a un metro e mezzo di distanza, per avere assicurati i punti necessari. Fa lo stesso, prendo di mira un elemento decorativo che sta sulla cupola di uno dei palazzi, è grande come un frigorifero, dietro potrebbe starci qualcuno nascosto, poggio il dito sul grilletto, figliolo, il suo nome vero è leva di scatto, da trattarsi con tutto il rispetto!

Ma preferisco lasciar perdere, cazzo, e ritorno al coperto. E allora? mi chiede il legionario, sono spariti dal tetto, gli dico, non volevo che si capisse dove siamo. In quel momento si sente un potente sferragliamento, come un tram che fila all’impazzata: dalla Konrád si avvicina, alzando una nuvola di polvere sulla Ezredvég, un container per i rifiuti pieno di macerie, caricato in modo che i proiettili non possano passarci attraverso: tre maschi lo spingono, con il collo incassato nelle spalle, quello in mezzo ha una doppietta. Li sento ansimare per la fatica, mentre ci passano accanto, poi aprono il fuoco all’altezza della fontana, non smettono neanche per un attimo di muoversi, stanno ben attenti a farsi scudo con il container e sparano placidamente intorno a loro, così che di volta in volta devono ricaricare la doppietta.

Non sono sicuro che i pallini riescano ad arrivare fin sui tetti, la doppietta gracchia con delle esplosioni prolungate, poi finalmente torna il silenzio, il sole splende tra gli alberi del viale, risplendono i colori della tela della barella e dello scudo da parata, mentre da terra mi guardano le suole infangate di anfibi rivolti verso il cielo. Deglutisco e sento i piedi che mi danno una spinta staccandomi dal suolo, salto fuori dal mio riparo e inizio a correre verso gli alberi, nessuno mi grida dietro cose tipo checazzofaicoglione oppure attentoacometimuovi, non ho il coraggio di guardare in alto, seguendo il ritmo ansimante dei polmoni mi dico che in fondo è la cosa più semplice del mondo, bisogna sopravvivere ogni volta all’attimo successivo, così tutto andrà bene, basta far rotolare davanti a te, con prudenza, l’attimo in cui il proiettile ti scava una fossa nel corpo. I palazzi e la strada saltano a ritmo del mio ansimare, Buller raccontava che lo sparo lo senti solo dopo, se ti rimangono le orecchie per sentire, l’asfalto è viscido, si scivola, faccio attenzione a non cadere di faccia, arrivo in mezzo agli alberi, sento l’odore penetrante di foglie morte. I corpi sono buttati da ogni parte, così vicini sembrano tutti uguali, non ce la faccio a guardarli troppo a lungo, non sembra proprio, cazzo, che stiano dormendo, mi butto pancia a terra. Mi rimbocco la giacca della mimetica sui fianchi, ho le dita tutte intirizzite, armeggio con la fibbia ma poi finalmente riesco a tirar via la cintura dai passanti, per fortuna vedo lo scudo e la barella messi l’uno accanto all’altra, sono sicuro che in tutti e due i tizi resta ancora almeno un briciolo di vita, anche se le facce sembrano di gomma, non guardo neanche chi è quello che sto afferrando per gli anfibi, li unisco e li lego con la cintura, poi tiro forte e la intreccio alle mani, prima di alzarmi in piedi.

Tornerò poi a prendere l’altro, penso tra me, e già mi avvierei con il primo, ma non riesco a smuoverlo. Si dev’essere incagliato in qualcosa, ma solo quando mi volto realizzo che un uomo è davvero tanto pesante. Spingo il petto in avanti, faccio grandi sforzi e mi trascino metro dopo metro tra gli alberi, il legionario con le braccia abbandonate all’indietro sta tracciando un solco tra le foglie mentre i miei passi affondano nel terreno, se passo da questa parte del parco, sono più o meno venti minuti fino alla Konrád, quando non trascino nessuno come in questo caso. Fino a ora non mi sono mai accorto che la Ezredvég in questo punto è in discesa, inizio a sentire la fatica in ogni punto del corpo, la cintura mi taglia i palmi delle mani, ma se mi fermo, non riuscirò più a continuare, non posso neanche rallentare un poco. Una sirena ulula da qualche parte, in lontananza, ma può anche essere che sia il lamento di un agonizzante, devo arrivare sulla strada, mi dirigo verso un tratto in salita, ricoperto di fango. Due passi più in là cado di faccia e mentre inizio a tirarmi su, provo a infilare le dita nel terreno, cerco una radice a cui aggrapparmi, così riesco, palmo a palmo, ad arrivare in cima, afferrando i rami dei cespugli.

All’angolo tra la Ezredvég e la Méhész c’è un’ambulanza in sosta, percorro gli ultimi metri praticamente trascinando il ferito a quattro zampe, ma non c’è nessuno nella vettura. Ad ogni modo faccio un tentativo, busso, grido: ho portato un ferito! sento le fitte in gola, ho la bocca secca come carta vetrata e il vento soffia freddo sulla mia nuca sudata, ma nessuno mi risponde. Vado avanti, cerco di non pensare se il tizio che sto trascinando fissato alla mia cintura è vivo o morto, continuo a tirarlo sull’asfalto, verso di me vengono tre sagome che mi guardano con tanto d’occhi, mi evitano come se stessi portando a spasso un cane orrendo.

Vedo da lontano, sul perimetro della piazza, le barricate, vado avanti, vado, vado e all’improvviso scorgo, nella vetrina del negozio di abbigliamento, una croce rossa. La croce di nastro adesivo rosso sta attaccata alla vetrina dove posano manichini con addosso abiti pesanti, invernali, il tizio che trascino peserà almeno novanta chili, ogni metro che faccio è l’ultimo, ma fino al negozio ce la devo fare. E davvero ci arrivo, ma non entro, mi soffermo davanti all’ingresso, perché mi sono accorto che lì dentro c’è un gran daffare, intorno a uno degli scaffali sono quattro o cinque quelli che trafficano con ferri, tamponi, flebo, mentre io sto lì, davanti alla porta a vetri, senza capire a che cazzo serve tirare su un moccioso del genere.

Una volta, anche io gli ho dato il telefonino, per farlo ricaricare nella tenda tecnologica, anzi gli ho permesso persino di rubare della benzina dalle barricate, stanno lì tutti affaccendati, non è difficile tenerlo composto, ha la pelle sottile, le braccia magroline, cercano la vena e inseriscono l’ago, poi lavorano ancora un po’ prima di finire, mettendo da parte i ferri.

Guardo il legionario che giace sul marciapiedi, non è tanto diverso da questo strippato, forse un po’ più sporco, perché l’ho trascinato fin qui, anche se non ho la più pallida idea di perché l’ho fatto. Sono una testa di cazzo, piagnucolo, devo lasciarlo qui, è stato assurdo portarlo fin qui, ma almeno lo metto più in là, accanto a una panchina, lo libero dalla mia cintura. Gli compongo le mani e i piedi, non è bello un cadavere con le membra tutte in disordine, e questo è un posto relativamente silenzioso.