I racconti del Premio Energheia Europa

Era mio padre_Emma Dubreucq

Menzione Premio Energheia Francia 2018

Traduzione a cura di Flavia Ruscigno

  • Fa bel tempo ora a Parigi?

La mia gola si secca, mentre rispondo alla domanda di mio padre.

– Sì, fa bel tempo. Sembra che il sole ritorni un po’ questi ultimi giorni, ma è prevista pioggia per la prossima settimana.

Rispondo con calma e pazienza, benché non sappia neppure io come faccia a farlo. Sono già due volte che mi chiede che tempo fa a Parigi. Due volte, in meno di dieci minuti. Resto ancora un po’ al telefono con lui, gli parlo di tutto e niente, del mio lavoro, del mio stupido editore che trova che dovrei scrivere storie con personaggi che non dovrebbero essere solo degli animali, o delle ultime idee che ho avuto, prima di annunciargli che devo chiudere.

– D’accordo, dice lui senza opporre resistenza.

C’è un po’ di silenzio.

  • E dimmi almeno, fa bel tempo ora a Parigi?

Questa volta non riesco a non sbuffare un po’. Allontano il telefono dal mio orecchio, il tempo di respirare, prima di rispondergli.

– Sì papà, fa bel tempo ora a Parigi. Ti richiamo domani, va bene?

– Va bene. Ripete lui. A domani!

– A domani papà, ti voglio bene.

– Anch’io.

Non avevo mai detto “ti voglio bene” a mio padre, prima che si ammalasse. Ho iniziato a dirglielo quando ha iniziato a dimenticare tutto. Gli ho detto ti voglio bene solo quando la malattia ha preso il suo cervello, rosicchiando poco a poco l’uomo che conoscevo.

Oggi era un buon giorno, mi ha riconosciuto. Si è ricordato chi ero. Io, sua figlia. Mi ha parlato, mi ha ascoltata. Quasi normalmente. Oggi la sua voce era più decisa del solito. Sì, era in un buon giorno. È questo vivere con un malato. Non si contano i giorni, non tutti, soltanto quelli buoni. Preferiamo concentrarci su quelli buoni, sperando che bastino per strappare l’orrore dei giorni cattivi.

Ma no. Niente allontana un cattivo giorno. Nulla può cancellare il dolore che si prova quando il proprio padre non ti riconosce più. Allora ecco, sono condannata a parlare del tempo che fa con un uomo che presto dimenticherà i tratti del mio volto così come i nostri tratti di filiazione.

Ogni nuova conversazione con mio padre, ogni nuova conversazione a ripetergli le stesse cose, mi distrugge ogni volta un po’ di più. Non so più dove io trovi la forza di prendere quel maledetto telefono ogni giorno. Mi piacerebbe cullarmi nelle illusioni, riuscendo a convincermi che sono coraggiosa, e con questo coraggio che lo chiamo tutti i giorni. Ma è falso. Non è il coraggio, è la vigliaccheria. Perché è più facile chiamarlo che andarlo a trovare. La distanza rende le cose falsamente meno difficili. È un’illusione, un gioco di prestigio, una bugia alla quale mi aggrappo, come un naufrago ad una zattera di fortuna.

Mi aggrappo lottando, come sempre, contro la voglia di piangere. Chiamare mio padre diventa ogni giorno un po’ più difficile e un più spaventoso.

Il binario della stazione sul quale mi trovo è quasi deserto ora, gli altri passeggeri del mio treno si sono sbrigati a dirigersi verso la metro, mentre io sono rimasta in piedi su questo binario per telefonare. È strano, si potrebbe pensare che sarebbe più semplice fare una telefonata così commovente nell’intimità rassicurante della propria casa. E tuttavia, restando qui su questo binario, alla vista di chiunque mi guardi, mi garantisce di non piangere. Perché ho orrore di piangere in pubblico, non mi è più successo da quando avevo cinque anni.

Non sono di quelle persone che pensano che piangere sia un segno di debolezza, al contrario, è che non mi piace vedere la pietà negli occhi degli altri.

La pietà o la curiosità, sì quella curiosità morbida che vi fa girare quando vedete una macchina in panne sul bordo della strada.

Allora faccio questa telefonata sul binario di una stazione, lì dove so che mi possono vedere, che mi possono giudicare. “Guardate questa donna che piange da sola, quanto è strana, potrebbe trattenersi, ma perché piange qui, che cosa le è successo?”

Che cosa le è successo, è una storia semplice. Una storia di genetica.

Mio padre, quell’eroe della mia infanzia, è caduto, decaduto per una semplice storia di geni. Il gene della malattia. Quello stesso gene che scorre forse nelle mie vene. Quel gene che forse farà di me una “dimenticatrice”. Quella che dimentica. Il gene della malattia di Alzheimer.

Lascio il binario e vado anch’io verso la metro, quel labirinto sotterraneo immenso che si estende nelle profondità di Parigi, inghiottendo e cacciando fuori ogni giorno migliaia di parigini stressati e di turisti meravigliati. Dopo un weekend passato dai miei cugini in campagna, è tempo di ritornare a casa, di ritornare al mondo reale.

Ho sempre adorato mio cugino Martin, sua moglie e i loro figli. È una famiglia meravigliosa, una grande casa con giardino e altalena, bambini gentili ed educati, un gatto affettuoso, un porcellino d’India e amore a tal punto da farvi svenire.

L’amore, faccio di tutto per andarlo a cercare, mi aspetta, sicuramente mentre sta lavorando chino sulla scrivania del nostro appartamento, con due matite in ogni mano.

Lascio la Gare de Lyon e mi infilo nella metro, impaziente di ritrovare l’intimità del nostro piccolo appartamento, dietro il Parc Monceau. Nella metro penso a tutto quello che devo fare questa settimana: finire il manoscritto del mio nuovo libro (scrivo libri per bambini), preparare un appuntamento con il mio editore che tenterà ancora di convincermi di scrivere una storia con personaggi che non siano tutti degli animali, chiamare ancora una volta mio padre, e bere un caffè con Harry.

Sorrido incoscientemente pensando al mio maestro, quello scrittore italo svedese che ho incontrato qualche anno fa quando ero ancora studentessa alla Sorbona. Mi ricordo che ero totalmente terrorizzata la prima volta che ci aveva chiesto di scrivere un breve testo e di leggerlo successivamente davanti al resto della classe. Ma alla fine, a poco a poco, man mano che andavamo avanti con i suoi laboratori di scrittura, ho trovato la mia strada. La mia voce d’inchiostro e di carta.

Quando entro nel nostro appartamento, Mathieu sta lavorando alla sua scrivania.

Schizzi fissati dappertutto sulla lavagna di sughero, appesa di fronte a lui e vari pennarelli sono sparsi sul tavolo di lavoro. C’è anche una matita sul suo orecchio. Fogli con prove di colore volano sul pavimento quando si gira verso di me.

Si alza sorridendomi e si avvicina a me, con quella sua andatura che mi piace tanto. Ho appena il tempo di lasciare la borsa che mi ritrovo tra le sue braccia e mi abbandono a lui, prima di liberarmi dolcemente, se continuiamo così, finiremo in camera a far cadere i nostri vestiti sul pavimento.

– Si direbbe che ti sono mancata – dico sorridendo.

– Affatto, ma poiché sei qui ora, meglio approfittarne – risponde lui con lo stesso tono.

Io e lui abbiamo una relazione basata sul sarcasmo e l’ironia che ci spinge a trascorrere la metà del nostro tempo a punzecchiarci. L’altra metà è consacrata al sesso.

  • Era bello in campagna? – mi chiede rimettendosi al lavoro.

Come dirgli che è esattamente la vita che potrei sognare per noi? E come dirgli che se anche un giorno avessimo questa vita io potrei finire per dimenticarlo?

– Martin e Lucie ti abbracciano, mi hanno detto di dirti che se vuoi puoi venire la prossima volta – io rispondo finalmente organizzando le mie cose.

Mathieu mi fa un occhiolino sorridendo prima di riportare l’attenzione sul suo disegno. La mia famiglia lo adora. È il primo uomo che gli ho presentato e sanno tutti che non l’avrei fatto entrare in famiglia se non ne fossi stata sicura. Perché sì, questa volta sono sicura di me, sicura di lui e di noi.

La sola cosa di cui non sono sicura è se mi ricorderò ancora delle mie certezze tra qualche anno, o bene se quel gene malato mi priverà anche di ciò.

Non lo so, non gli ho detto ancora niente, non sa che vive con una donna di cui la personalità potrebbe scomparire quando dimenticherà perfino il suo nome.

Dovrei dirglielo, occorre che glielo dica. In fondo, so che ciò non lo spaventerebbe, che affronterebbe tutto con me. All’inizio almeno. Ma dopo che resterebbe di noi se lo dimenticassi? Resterebbe accanto a me se lo dimenticassi? Ora le mie certezze hanno un gusto amaro.

Il giorno dopo, quando apro gli occhi, Mathieu è ancora addormentato accanto a me. Siamo entrambi dei dormiglioni e benché ciascuno di noi abbia la propria scrivania nel salone, lavoriamo spesso seduti sul nostro letto.

Mathieu disegna, mentre io scrivo, su questo letto che non è affatto destinato ad essere utilizzato come tavolo di lavoro e nel quale noi facciamo l’amore.

Prima di Mathieu non avevo mai fatto l’amore con un uomo che amavo veramente.

Parlo di un amore nel quale avrei veramente voluto credere. Prima di Mathieu, non avevo mai realmente lasciato un’opportunità agli uomini che avevano incrociato il mio cammino. Alcuni di loro non avevano saputo legarmi a loro così come aveva fatto Mathieu. Con una dolcezza bruta. Senza ipocrisie.

E oggi, guardo quest’uomo coricato dall’altro capo del letto, quest’uomo che la notte scorsa era coricato contro di me, su di me, dentro di me, quest’uomo che amo talmente tanto da farsi quasi male, quest’uomo che ho talmente tanta paura di dimenticare.

Scendo dal letto in punta di piedi e chiudo la porta della stanza prima di sgusciare in cucina per preparare un caffè.

Riempita la tazza, mi infilo uno dei maglioni di Mathieu e apro la finestra. Odio bere il caffè in un luogo chiuso, l’odore della caffeina calda mi fa star male, mi fa venire voglia di vomitare se non sento che l’aria fresca invade la stanza in cui mi trovo.

È una delle mie numerose manie bizzarre. Non bevo mai il caffè in un luogo chiuso. Ho messo una penna e un blocchetto in ognuna delle stanze dell’appartamento, mi porto una cartolina da ogni luogo che visito, conservo la mia collezione di cartoline in una vecchia valigia che non uso mai, metto alcune gocce di limone in tutto ciò che bevo e in tutto ciò che cucino, faccio le pulizie ballando come una folle sulle canzoni del musical Mammamia, conosco il film Forrest Gump a memoria e tuttavia piango ogni volta che lo rivedo, sono capace di lasciare il mio armadio in un disordine monumentale ma la mia libreria è ordinata con una precisione quasi militare, le mie mani sono sempre fredde anche le sere d’estate, non esco mai senza il mio orologio e tuttavia sono quasi costantemente ed inevitabilmente in ritardo, in breve una combinazione di cose strane che fanno in modo che i miei amici non perdano mai un’occasione per prendermi in giro.

Io bevo il caffè leggendo un vecchio Sherlock Holmes. L’aria del mattino che invade l’appartamento attraverso la finestra del salone mi fa venire i brividi. Non vedo l’ora che si svegli Mathieu. Verrà a sedersi affianco a me e così potrò far scivolare le mie gambe nude tra le sue.

Malgrado il caffè, non sono ancora molto sveglia quando suona il telefono. Harry mi propone di incontrarlo in un caffè nel V arrondissement quel pomeriggio. Sono molto eccitata, è da più di un anno che non vedo il mio maestro e, anche se ci sentiamo sempre, aspettavo con impazienza di rivederlo. Approfitto del fatto che Mathieu dorma ancora per appropriarmi del bagno e quando, dopo un po’, ho finito, il mio compagno è seduto in balcone, con il caffè in una mano e una matita nell’altra, disegna una gazza che è poggiata sul balcone affianco. Trascorriamo il resto della mattinata a lavorare, io scrivo mentre lui disegna, e quando arriva finalmente il momento di andare da Harry, Mathieu mi fa notare ridendo che sono già in ritardo.

Non saprei dire veramente perché, ma detesto interrompere le nostre sedute di lavoro condiviso, come ci piace chiamarle. Regna una calma assolutamente incredibile nell’appartamento quando Mathieu e io siamo entrambi inchiodati alla nostra scrivania ciascuno concentrato sul proprio progetto. È come se fossimo connessi, noi sappiamo ciò che facciamo e sappiamo perché lo facciamo. Io scrivo, lui disegna, è ciò che siamo.

Una mezz’ora più tardi, quando finalmente esco dalla metropolitana, sorrido scorgendo Harry e mi dirigo verso di lui. Quattro studenti gli tengono compagnia, seduti intorno a lui, nella terrazza di un caffè, chiacchierano ridendo, mentre io, fedele alle mie abitudini, li raggiungo in ritardo. Harry mi saluta calorosamente e mi unisco a loro.

– Ci stavamo appunto chiedendo se sei mai stata puntuale almeno una volta nella vita – mi punzecchia Harry.

È di notorietà pubblica che sono spesso in ritardo. Mathieu si diverte a disegnare orologi, su un blocchetto posto sul tavolo del salone, ogni volta che sa che sono stata in ritardo.

Sfortunatamente questo blocchetto contiene molti più orologi di quelli che io vorrei ammettere.

Lola mi sorride maliziosamente, lei che non è mai in ritardo non perde occasione per prendermi in giro, e io le faccio una linguaccia.

Il nostro scambio diverte Jisèle, Sofia e Abel.

I quattro studenti di Harry sono più giovani di me e io non li conoscevo molto poiché non sono all’Università con loro, ma gli voglio bene. Hanno talento. È qualcosa che gli invidio molto: l’impressione di sapere esattamente chi essi siano.

Siamo tutti molto diversi gli uni dagli altri, ma ciò non fa alcuna differenza per Harry, ci legge tutti con la stessa attenzione e la stessa benevolenza. Il nostro professore ha fatto in modo da creare per noi un ambiente nel quale potessimo scrivere in totale sicurezza e creatività. Non c’è nessun altro luogo in cui io avessi preso tanto piacere a scrivere in compagnia di estranei. È con gioia che ho visto nel corso dei mesi questi estranei diventare degli amici che ho imparato a conoscere.

Durante due sole ore chiacchieriamo, ridendo, parlando di tutto e niente, ascoltando gli aneddoti di Harry, raccontiamo vicendevolmente le nostre nuove storie, leggendo alcuni dei nostri testi. Il nostro amico scrittore non è mai avaro di complimenti né di entusiasmo nei nostri confronti, e rapidamente la discussione lascia il campo letterario e ridiamo di aneddoti degli uni e degli altri. Quando Lola e gli altri lasciano il caffè alcune ore più tardi, Harry mi trattiene dolcemente posando una mano sulla mia spalla.

– Come sta tuo padre, Aude? – mi chiede con dolcezza.

– Dipende dai giorni, sai com’è.

Sì, lo sa. Perché ha perso suo padre a causa di un tumore al cervello, Harry è il solo a cui ho parlato della malattia di mio padre.

Le persone che non hanno visto un essere caro sparire dietro il velo della malattia, non possono comprendere la profondità del dolore reale. Possono semplicemente sentire empatia e sfiorare con la punta delle dita la tristezza, ma non possono comprendere come viviamo con essa giorno dopo giorno. Non possono comprendere il sentimento di vergogna che si sente quando si arriva a pensare che avremmo preferito che ciò accadesse a qualcun altro. Non possono comprendere la profondità della collera che ci divora quando si pensa all’ingiustizia. Perché alla mia famiglia? Perché a mio padre? Perché a me? Pietà, prendi qualcun altro. Nonc’è posto per l’altruismo nella lotta contro la malattia.

– I medici mi hanno detto che anch’io potrei avere il gene della malattia di Alzheimer. Mi hanno proposto di fare un test.

– E quando avrai i risultati?

– Ho rifiutato di fare il test, Harry – dico dolcemente.

Il mio maestro sgrana gli occhi, come se non capisse.

– Ma perché? – dice infine.

– Non voglio saperlo. Immagina se i medici mi dicessero che ho il gene. Che cosa farei dopo? Continuo a vivere la mia vita come se nulla fosse, visto che probabilmente dimenticherò tutto quando sarò più anziana? No, è fuori questione, preferisco ancora non sapere e vivere pienamente finché posso.

Harry resta silenzioso, ma posso quasi vedere il suo animo agitarsi silenziosamente. Scommetto che stia cercando delle parole. O meglio forse le giuste parole per provare a convincermi.

– Harry, non posso vivere ogni momento della mia vita sapendo che si tratta di un ricordo che dimenticherò, capisci? – gli chiedo dolcemente.

– E se non avessi il gene? Potresti sbarazzarti di questo peso sin da ora.

– È un rischio troppo grande.

– La Aude che conosco non ha paura di correre dei rischi. Dopo tutto corri dei rischi ogni volta che scrivi!

– Ebbene questa volta è un rischio che rifiuto di correre.

Harry mi guarda un attimo e ho quasi l’impressione di averlo deluso. Mi dispiace. Avrei dovuto immaginarlo che lui, che ama tanto la vita, mi avrebbe consigliato di fare il test.

– Io ti conosco Aude e so che non sopporti che ti si dica quello che devi fare, ma si tratta della tua vita e di come deciderai di combattere. Perché tu sceglierai di combattere Aude, non è vero? Se decidi di fare questo test, a prescindere dal risultato, tu sceglierai di combattere.

Gli occhi chiari di Harry mi fissano come se non ci fosse che una sola risposta a questa domanda. I miei occhi neri sfuggono allo sguardo come l’ammissione di una risposta negativa, una risposta che lui non avrebbe voluto sentire.

– Harry, ho visto mio padre battersi contro questa fottuta malattia e cosa ha ottenuto? Niente. È una malattia per la quale non c’è nessun rimedio, questa malattia è una condanna! E non voglio conoscere la sentenza sin d’ora.

Harry poggia una mano sulla mia spalla, mentre posso leggere nei suoi occhi tutta la compassione di cui il suo essere è capace.

– Sapere che probabilmente perderai non significa che non devi provare a vincere – dice. – Andiamo, va’!

Ecco che ora filosofeggia.

– Harry, sai bene che la filosofia e io non siamo molto amiche – rispondo alzando le spalle con un sorriso di scuse.

Ride e alza un dito verso di me.

– Su, Aude. Tu sei forte. Hai la memoria più incredibile che io abbia mai visto! – mi dice sorridendomi.

Gli restituisco il suo sorriso infilando le mani nelle tasche della mia giacca. Ho sempre avuto una buona memoria. Non è per vantarmene, è vero. Sono capace di ricordarmi dei dettagli che non hanno alcuna importanza e che un cervello umano normalmente costituito farebbe presto a dimenticarsene. Ho sempre avuto fiducia nella mia memoria e finora non mi ha mai tradito. È esattamente perché sono terrorizzata all’idea che io possa perdere un giorno il mio punto di riferimento più affidabile.

Anche mio padre aveva un’eccellente memoria. Prima che la malattia decidesse di rubargliela, era in grado di citare i passi della Divina Commedia di Dante. Era anche una delle poche persone che conoscessi in grado di trascorrere una giornata al Louvre senza vedere una sola volta la mappa. Quel museo non aveva nessun segreto per lui. Ma oggi, qualunque siano i segreti che possano custodire le pitture e le sculture che vi sono esposte, qualunque siano le loro storie, mio padre non è più in grado di raccontarmele come faceva quando ero piccola.

Mio padre non mi racconterà mai più delle storie. E Dio solo sa fino a quando, io, sarò in grado di raccontare delle storie.

Lascio Harry, dopo aver dato un bacio sulla sua guancia mal rasata. Ai miei occhi, ha tutte le caratteristiche dell’artista che vive nel suo mondo. I suoi occhi di polvere e soli, sono sempre leggermente stralunati, come se si fosse appena svegliato, le sue camicie sono sempre un po’ aggrinzite, perché passa il tempo a giocare con le sue maniche, la sua borsa è sempre piena di una decina di libri, senza i quali non viaggerebbe mai, e i suoi occhi brillano infinitamente di una curiosità insaziabile. Perché Harry ama la vita. Non ho mai incontrato qualcuno come lui prima, qualcuno così entusiasta alla sola idea di vivere.

È forse il punto sul quale noi siamo agli opposti, io e lui.

Quando ero più giovane la routine mi spaventava più di un grosso ragno. Il fatto è che ora è diverso. Benché io trovi spaventosa l’idea di trovarsi bloccata da una routine quotidiana, in cui ogni giorno è lo stesso del precedente, ora riesco a coglierne le sfumature. Posso vedere il conforto che si può ritrovare nel sapere che la persona che si corica la sera affianco a te sarà sempre lì al tuo risveglio il giorno dopo.

Mathieu è in piedi davanti alla finestra, fuma ancora una delle sue schifose sigarette. Il fatto che si preoccupi tanto per la mia salute, mentre in realtà sta rovinando la sua, è un paradosso crudelmente ironico.

Gliel’ho detto per mio padre, per la malattia, per i geni, per il test. All’inizio, era furioso perché non mi ero subito confidata con lui. Furioso e ferito. E quando ha capito che non avevo intenzione di fare il test, la sua rabbia si è trasformata in incomprensione. Prima di ritornare rabbia.

  • Devi farlo – mi ripete con stanchezza.

Sbuffo in modo evidente, perché capisca che non ho voglia di avere di nuovo questa discussione con lui. Non ora. Non ancora.

– Non puoi vivere senza sapere ciò che ti aspetta – dice con rabbia questa volta.

Eccoci. Non sfuggiremo al temporale che si prepara. Siamo proprio al centro del percorso.

– La maggior parte delle persone vive senza sapere ciò che gli aspetta – rispondo tentando di mantenere la calma.

È una discussione che abbiamo già avuto, sono argomenti che sono stati tutti già utilizzati. Mille volte.

– La maggior parte della gente non rischia di sviluppare la malattia di Alzheimer, come nel tuo caso, anche se tu preferisci ignorarlo – asserisce lui con violenza.

Ecco. Il temporale.

Non ricordo di aver mai visto Mathieu così arrabbiato. O meglio, la sua rabbia non è mai stata rivolta verso di me in precedenza. È la priva volta che ci affrontiamo così duramente.

Siamo mille miglia dalla nostra ultima lite, la volta in cui eravamo stati a un passo dal rompere.

Ma la lite si è conclusa a letto e separarci c’era sembrato impossibile sia all’uno che all’altra. Oggi non è una questione che si risolve a letto, non è quel genere di litigio che può concludersi così. A dire il vero, non è veramente una lite, è piuttosto un affronto.

Lascio il mio libro e mi alzo per affrontarlo.

– Non farò questo test, – dico freddamente. – È la mia decisione, la mia scelta. Preferisco vivere sapendo che ciò può forse arrivare, piuttosto che vivere sapendo con certezza che finirò col dimenticare tutto ciò che sto vivendo.

Mathieu si prepara a replicare, ma io l’interrompo.

– La discussione è chiusa. Noi non parleremo mai più di questo e se non puoi vivere con la mia scelta, allora vattene.

La mia voce sembra talmente sicura che io stessa mi sorprendo per il suo timbro. Non vorrei che accada nulla che lo induca ad andarsene. Alla sola idea il mio cuore si stringe di dolore, ma non vorrei che si sentisse obbligato a vivere con me.

Dopo tutto, può darsi che tra qualche anno quel “me” non esisterà neppure più, sostituito da una pallida copia difforme e malata.

Non voglio vivere con questo conto alla rovescia al di sopra della mia testa. Non voglio vivere con questa minaccia pesante sulle spalle. Non voglio vivere con questa voce demoniaca che mi sussurra ogni giorno “Sì, anche tu perderai la testa, anche tu hai il gene, anche tu sei malata”. Io non voglio finire come mio padre, incapace di ricordarsi i suoi stessi sogni.

È a causa sua che ho iniziato a scrivere. A causa, o grazie a lui, non so. Quando è diventato incapace di ricordarsi delle storie che adorava raccontarmi quando ero piccola, ho preso una penna e le ho scritte su dei vecchi quaderni. Perché possa, io, ricordarmene per sempre e raccontarle a mia volta se avrò dei bambini, un giorno. Ho scritto per ricordarmene perché ho paura di dimenticare. Ho scritto ogni giorno della mia vita. Ho scritto gli incontri che ho fatto, i viaggi che ho intrapreso. Ho scritto le vittorie, ma anche le sconfitte che sono state mie. Ho scritto i sogni e le paure che mi ossessionano. Ho scritto tutto ciò che occorreva per non dimenticare mai chi io fossi.

  • Non me ne andrò – dice Mathieu.

Urlo un grazie silenzioso, un grazie che riempie il mio corpo di un calore benevolo, un grazie che non supera la punta delle mie labbra, ma un grazie che può leggersi negli occhi, un grazie che può sentirsi nel modo con cui lo guardo. Poi giro la testa e mi rifugio in bagno. Non voglio che veda le mie lacrime, è ancora troppo presto per mostrargliele. Lui capisce e non mi segue, mi lascia un momento e mi dà un momento perché io possa rinforzare le mie difese vacillanti.

C’è un freddo glaciale in bagno, ma non chiudo la finestra. Ho l’impressione che il freddo purifichi il mio corpo e forse anche il mio animo. Come se un soffio di vento freddo potesse insinuarsi in tutto il mio essere e cacciare le cellule dilaniate, le cellule malate, che probabilmente mi faranno vivere i peggiori anni della mia vita.

Non sono sola in bagno, l’ombra della malattia che cerco di ignorare e il mio riflesso nello specchio sopra il lavandino, mi tengono compagnia. Ho l’impressione di vivere sempre con loro, quest’ombra maledetta e questo riflesso pallido, che mi seguono e mi spaventano a modo loro.

Fisso il mio riflesso nello specchio. Sono pallida, ho sempre avuto la pelle molto chiara, nonostante l’infanzia trascorsa sulle coste del Mediterraneo. I miei occhi sono neri e stanchi e le occhiaie sotto le mie pesanti palpebre.

Fisso a lungo il riflesso di quel viso che conosco benissimo ma che non ho mai osservato veramente. Lo fisso e mi chiedo se sarò capace un giorno di dimenticare chi sono. O piuttosto, se sarò un giorno capace di ricordarmi chi sono. Dimenticherò che quel viso è mio? Mi sveglierò un giorno e non saprò più a chi appartengono quegli occhi che mi fissano? Sono condannata a dimenticarmi?

Guardo questo specchio straordinariamente pulito, nel quale vedo i solchi salati che hanno tracciato le lacrime sul mio viso. Vedo la paura in questo specchio e improvvisamente lo odio. Odio questo specchio e ciò che mi mostra. Mi mostra la paura, e invece vorrei vedervi la speranza. Mi mostra un’ombra e invece dovrei ricordarmi di accendere la luce. Mi mostra ciò di cui ho paura di essere e di cui ho paura di diventare, quando vorrei che mi mostrasse ciò che posso essere felice di celebrare e quel motivo per cui potrei essere riconoscente. Vorrei rompere questo specchio in mille piccoli pezzi, ma sono sicura che se lo facessi, una scheggia arriverebbe nel mio occhio e un’altra nel mio cuore, rendendoli cechi entrambi. E allora, diventerei fredda come il vento che entra dalla finestra.

Mathieu entra dolcemente in bagno, si pone dietro di me, mette le sue mani sulle mie spalle, e poi intorno alla vita.

  • Andrà bene – dice.

Le lacrime si sono asciugate al suo contatto e io sorrido, e inizialmente in modo tenue.

  • Andrà bene – ripeto io.

Non so ancora se lo penso davvero, ma penso che sia il caso. Lo spera tanto quanto me. Qualche minuto fa sarei scappata. Vederci così vicini l’uno all’altro mi avrebbe ferita e sarei fuggita. Ma noi costruiamo qualcosa di solido e non fuggirò fin quando lui penserà che “andrà bene”. E se non va, e se non va più, se le cellule malate nel mio cervello esistono e sono belle e buone, allora me ne andrò. Distruggerò questo specchio sul mio corpo, e lascerò fluire il sangue e io non sarò più malata. Io non sarò più.

– Io te lo vieto – dice Mathieu con calma, come se avesse letto i miei pensieri.

Solo ora mi conosce per davvero. È sicuramente il solo uomo che mi conosce tanto, il solo uomo che io ho lasciato che mi scoprisse tanto. Sa che preferisco mille volte morire piuttosto che una vita fatta di vuoti di memoria e di assenze. Preferisco non essere più, piuttosto che non essere più qui e ora. Preferisco non vivere più, piuttosto che non ricordarmi più.

Improvvisamente la sua stretta mi soffoca, ho l’impressione che le sue braccia siano diventate le sbarre di una cella, la mia cella. Vorrei potermene scappare, penso che se non riesco più a muovermi, potrei svenire. I miei vecchi demoni risorgono all’improvviso dagli abissi nei quali li avevo dimenticati. Mi dicono che sono prigioniera, e che non posso fare più niente. Mi dicono che ora ho ceduto e che sono stata vinta. Mathieu è il mio carnefice e sono incatenata ai suoi ferri. L’idea stessa che possa leggere così chiaramente in me, mi terrorizza. Come se non ci fosse più nessun altro posto da scoprire, nessun altro segreto in me.

Come se non potessi appartenere a me stessa senza dovergliene rendere conto. Come se non potessi esistere senza che conoscesse i miei movimenti, il più piccolo dei miei pensieri, il più piccolo dei miei desideri, il più piccolo dei miei dubbi. Mi sento completamente scoperta e sono vulnerabile. Odio tutto ciò, oh si come odio sentirmi vulnerabile, sentire l’armatura spaccarsi, sentire la barriera cedere. Sapere che ho legato la mia vita alla sua mi fa subito realizzare che qualsiasi cosa arrivi all’uno, l’altro dovrà imparare a sopravvivere. Non sono sicura di avere ciò che occorre per sopravvivere. So a mala pena come vivere.

Mi affretto a respingere le sue braccia quando scorgo il suo riflesso nello specchio. Il suo viso è esattamente al di sopra del mio. Lui guarda le nostre mani intrecciate, come se avesse saputo che i miei occhi non volessero incrociare i suoi. Mi conosce. Allora, i miei vecchi demoni ritornano nei loro abissi e io gli concedo questa stretta, non mi sottraggo. Lui mi conosce come io conosco lui. Il suo viso, che vedo riflettersi nello specchio di fronte a noi, è un viso che non voglio dimenticare. Ce ne sono stati altri, altri visi prima di lui, ma nessuno si è fissato nella mia memoria come il suo, nessuno si è creato un posto come il suo, nessuno ha tanto spazio quanto il suo.

Io non rispondo al suo divieto, ma stringo le sue braccia attorno a me, come per indicargli che avremo il tempo di parlarne più tardi. Lui non capitola, neppure io, sarà per un’altra volta.

Poi, gli do un bacio sulla fronte ed esco dal bagno.

Qualche anno fa non avrei mai pensato possibile avere una relazione come questa con un uomo. Non avevo mai lasciato che qualcuno si avvicinasse a me così tanto come Mathieu. Tuttavia, ora che entrambi viviamo questo, mi sembra come un’evidenza, come se lui avesse sempre fatto e sempre dovuto fare parte della mia vita. È un sentimento sconvolgente quello di doversi sentire legato a qualcuno in questo modo. Legarsi agli altri mi è sempre sembrato spaventoso, ancora di più da quando conosco la minaccia che pesa al di sopra della mia testa, quella che dorme forse nel mio cervello. Perché legarsi a qualcuno se si è condannati a dimenticarlo?

Malgrado i miei sforzi, non ero stata capace di respingere Mathieu, ciò era stato al di sopra delle mie forze e lui si era sforzato a rendere questo compito impossibile.

Ed ecco dove siamo ora. In un punto morto. Nessuno di noi due può muovere le sue pedine senza rischiare di ferire l’altro. L’amore è una partita che sto perdendo in un gioco di cui non conosco le regole. Mathieu e io viviamo in silenzio questi ultimi giorni. Parliamo, ci baciamo e facciamo l’amore come se tutto fosse normale. Tuttavia evitiamo l’argomento. Noi non parliamo del test. Non chiamo più mio padre quando Mathieu è affianco. Non siamo più quelli che eravamo. Alla fine, prima ancora di aver toccato me, la malattia ha toccato l’uomo che amo. E se ciò ci distrugge, non potrò mai perdonarmelo.

– Sei bellissima – dice Mathieu mentre prendo la mia borsa per uscire.

Devo cenare con Harry, Lola e Sofia e per una volta mi sono impegnata nel vestirmi. Mathieu mi dà un bacio sulla fronte e sono quasi uscita quando mi trattiene.

– Dovresti parlarne con Harry. Voglio dire, parlare del test – mi dice.

La mia gola si secca. Sa che Harry potrebbe essere l’asso nella manica in questa lotta che ci oppone. Sa che Harry potrebbe essere del suo stesso parere. Ma non sa che Harry è già del suo parere. Resto silenziosa incapace di confessargli il mio tradimento.

Improvvisamente, Mathieu sospira scuotendo la testa. Il mio silenzio parla per lui.

– Gliene hai già parlato, vero? Gliene hai parlato prima che con me? Perché ciò non mi sorprende? – dice alzando le spalle con un’aria rassegnata? – Cazzo, Aude, io ti amo e condivido la tua vita, allora perché ti rifiuti ancora di appoggiarti su di me?

Perché se tu decidessi di andartene, io crollerei. Vorrei dirglielo ma resto in silenzio.

  • Sarai in ritardo – dice, prima di girarmi le spalle.

Come previsto, arrivo al ristorante in ritardo. Harry, Lola e Sofia sono già a tavola e mi accolgono sorridendo. Lola lancia un grido di trionfo, mentre Sofia e Harry le danno una moneta.

– Dieci minuti di ritardo, sono quella che si è avvicinata di più! – esclama Lola mentre mi siedo accanto a lei.

– Avevo scommesso che saresti arrivata con quindici minuti di ritardo, avresti potuto aspettare altri cinque minuti! – dice scherzando Sofia.

– Avevo detto che saresti stata puntuale, continuo a credere in te vedi, sono ottimista – dice Harry sorridendo.

Rispondo ai loro scherzi con un sorriso divertito e mi scuso per il ritardo. Le scuse mi danno una buona consapevolezza anche se non annullano il tempo perduto.

Quando ritorno a casa, Mathieu è già a letto, ma non dorme ancora. Legge un giallo, steso nel nostro letto.

– Come sta Harry? – mi chiede quando mi corico accanto a lui.

– Bene, ti saluta.

Mathieu lascia il libro e sta per spegnere la luce quando mi avvinghio a lui. All’inizio sembra un po’ sorpreso, ma poi mi stringe tra le sue braccia.

– Harry ci ha raccontato una storia sorprendente. Ha impedito a una ragazza di uccidersi nella metropolitana.

– Scherzi? – esclama Mathieu con stupore.

– Pare che il suo fidanzato l’avesse appena lasciata e che lei avesse pensato di gettarsi sui binari.

– Che orrore.

Mathieu e Harry hanno questo in comune, per loro la vita è qualcosa che dev’essere rispettata, qualunque siano le circostanze. Anche quando è difficile, anche quando sembra più facile arrendersi.

– Sai, Harry mi ha detto qualcosa qualche giorno fa e non riesco a non pensarci. Ha detto che ero forte.

– Ha ragione – asserisce Mathieu.

– Perché? Io non ho l’impressione di essere più forte di qualcun altro.

– Aude, guarda tutto quello che hai attraversato. Guarda tutto quello che vivi con tuo padre. Hai subito tutta questa storia da sola, e tuttavia non ti sei mai arresa e non hai mai scelto di abbandonare tuo padre. Eppure, oggi occorrerebbe scegliere di combattere per te, tu sei pronta a rinunciare. Sei stata forte per tuo padre. Oggi lascia che sia io ad essere forte per te.

Credo che Harry e Mathieu mi sopravvalutino troppo. Sono stata forte perché occorreva, quale altra scelta avevo?

Ma questa notte, alla flebile luce della lampada del nostro comodino, sono stanca di essere forte. Sono stanca di trattenere le lacrime. E così mi lascio andare tra le braccia di Mathieu e per la prima volta dopo tanto tempo, non trattengo le mie lacrime.

Mathieu non dice niente, e dopo avermi lasciata piangere per un po’ mi racconta una barzelletta e scoppio a ridere. È veramente divertente, non dovrei dimenticarlo.

La storia che Harry ci ha raccontato mi ossessiona di continuo nei giorni successivi. Qualche tempo fa, avrei giurato che non avrei mai compreso che ci si potesse uccidere a causa di un dolore d’amore. Ma oggi, non ne sono più sicura. Non posso concepire che ci si possa realmente togliere la vita a causa di una rottura amorosa. Se lui ti lascia, non merita che tu butti la tua vita a causa sua. Ma per amore posso capire che si facciano cose stupide, come per esempio intravedere il suicidio piuttosto che una vita condannata all’oblio.

Mathieu lascia l’appartamento, dopo avermi baciata deve presentare i suoi schizzi al suo editore. Approfitto della sua assenza per chiamare mio padre, è da molti giorni che non lo chiamo e mi sento in colpa. Cerco nella mia agenda il numero della clinica prima di comporlo sul mio telefono. È un numero che rifiuto di imparare a memoria. Mi fa troppo male.

– Madame Jourdan? – chiede una voce femminile che si sforza di essere calma e rassicurante dall’altro capo del filo.

Il suo tentativo di rassicurarmi fallisce completamente. Ho capito subito che qualcosa non andava, soprattutto nel momento in cui ho sentito la sua voce al posto di quella di mio padre. Le infermiere rispondono solo quando il paziente non è in grado di farlo.

– Suo padre è in piena crisi, non è…

– Me lo passi! – ordino, senza lasciarle il tempo di lasciarle finire la frase.

– Non credo che sia una buona idea, egli… – Ancora una volta la interrompo.

– Mi passi mio padre!

Sento che l’infermiera passa il telefono a mio padre che sussurra un “pronto” rauco.

La sua voce è lontana e fredda, come quella di un estraneo. Alle mie orecchie risuona come la voce di qualcuno che non vedo da tanto tempo e di cui ho dimenticato il suono. Non è la voce di mio padre, non è la voce di mio padre, non è la voce di colui che mi chiamava “la mia ranocchia” e che mi raccontava tutte quelle meravigliose storie che hanno fatto di me la scrittrice che sono diventata, non è neppure la voce di colui che mi rimproverava quando facevo qualche sciocchezza, né quella di colui che mi incoraggiava durante le partite di pallavolo.

– Ciao papà, sono Aude. Occorre che tu mi ascolti, va bene?

– Non so chi lei sia, che cosa vuole?

– Ti prego, guarda sul comodino, c’è una foto. L’uomo sei tu qualche anno fa e la bambina in braccio a te sono io, ricordi?

C’è un silenzio all’altro capo del telefono.

– Lei pensa di essere divertente signorina? Io non ho una figlia. Allora, chiunque lei sia, mi lasci tranquillo!

Mio padre riaggancia lasciandomi sola con il tu-tu del telefono. Non è la prima volta che non si ricorda di me, anche se fino ad ora mi ha sempre più o meno riconosciuta. Ma ogni volta mi fa più male della precedente. Ad ogni modo è la prima volta che riaggancia. È la prima volta che non mi ascolta, che non mi lascia spiegare, che non mi lascia raccontare. Raccontargli la nostra storia. Ci siamo, questa volta la malattia me lo ha preso.

È durato meno di cinque minuti. Sono bastati cinque minuti per veder cadere mio padre. Era mio padre. Oggi è semplicemente un uomo che aveva una figlia.

All’improvviso mi immagino mentre riaggancio il telefono a Mathieu senza riconoscerlo. Mi immagino una penna in una mano, mentre fisso una pagina bianca davanti a me, incapace di ricordarmi delle mie storie. Mi immagino mentre osservo una foto senza riuscire a ricordarmi dei momenti che essa ha immortalato.

Se non posso più amare, se non posso più scrivere, che cosa mi resterà?

Sento che le lacrime iniziano a uscire quando bussano alla porta. Vado ad aprire e mi ripulisco per lasciare entrare Mathieu.

– Ho dimenticato i miei schizzi – dice, andando verso la scrivania.

Lo guardo mentre cerca sul tavolo i suoi disegni e all’improvviso immagino che la situazione si possa invertire. E se fosse Mathieu a dimenticarmi? Non ho mai pensato a questo, tuttavia so meglio di chiunque altro come si vive con una persona che ti dimentica, malgrado l’amore che c’è stato. E se dovessi svegliarmi un giorno chiedendomi se Mathieu mi riconosca, credo che non potrei proprio sopportarlo. Per la prima volta, vedo le cose con i suoi occhi. Vedo lui, malato, che mi considera come un’estranea e il mio cuore si chiude nel petto.

Perché il cuore umano non è fatto per sopportare tanto dolore. E questo dolore sarebbe il suo se decidessi di abbandonare, se rifiutassi di combattere.

Allora, quasi incoscientemente, prendo una decisione. Una decisione che forse avrei dovuto prendere prima. Una decisione che non volevo intravedere a causa della paura, e non per tutte le ragioni stupide che mi ostinavo a ripetere.

  • Mathieu. – sussurro. – Farò il test.

Mathieu mi guarda con stupore, prima di lanciarsi verso di me. Mi prende tra le braccia e mi stringe a lui. Sono quasi sorpresa dalla forza del suo abbraccio.

  • Grazie – mormora, – grazie.

Mi da un bacio sulla fronte e vedo le lacrime all’angolo dei suoi occhi.

Durante tutti questi anni ho dovuto affrontare la malattia di mio padre, ho attraversato tanti momenti dolorosi e non uno di questi si è mai cancellato dalla mia memoria. Ho affrontato la collera, la tristezza, l’incomprensione, ho pianto, ho urlato quando ho scoperto che si poteva soffrire tanto di riflesso. Ma non ho mai ceduto alla paura. Perché sapevo che se mi fossi abbandonata, non sarei più riuscita ad alzarmi. Se avessi lasciato prendere alla paura il sopravvento sulla mia rabbia e la mia tristezza, sarei stata spacciata, rinunciando a un combattimento che non avevo ancora deciso di combattere. Durante tutto questo tempo in realtà ho messo a tacere la mia paura, nei confronti di mio padre, e l’ho talmente nascosta che ho finito per convincermi che non esisteva affatto, che era semplicemente rabbia e non paura. Ma ora vedo fino a che punto mi sono accecata. Io ho paura. Sono arrabbiata e ho paura.

Io farò questo maledetto test.

Qualche giorno dopo vado nella clinica in cui il dottor Vidal mi ha esaminata la settimana precedente. Ho voglia di scappare a gambe levate e se mi ascoltassi mi volterei di spalle e me ne andrei il più lontano possibile. Nella sala d’attesa, ci sono persone anziane, aspettano il proprio turno, meglio, aspettano la propria morte, non è così facile vedere la differenza. Molti di loro sono sulla sedia a rotelle. Mio padre mi ha fatto giurare, quando ho dovuto ricoverarlo in questa casa di riposo specializzata, che mai si sarebbe seduto su una sedia a rotelle. Ho dovuto lottare anche con le infermiere per diverse ore, fino a quando la caporeparto mi ha promesso finalmente che mio padre non sarebbe mai stato messo su una sedia a rotelle. Devo chiedere a Mathieu di fare la stessa promessa. So che sembra solo un ridicolo capriccio da malato, ma non è così. Se aveste visto persone amate finire la propria vita su una sedia a rotelle, mentre la malattia ve le toglie di giorno in giorno sempre di più, temereste le sedie a rotelle come la peste.

Ho fatto il test diversi giorni fa e sono passata a recuperare i risultati oggi. Il dottor Vidal mi aspetta con la busta in mano, come gli ho chiesto di fare. Non volevo che me lo dicesse, a prescindere dal risultato del test, non volevo ascoltarlo dalla bocca di un medico che deve probabilmente annunciare questo genere di notizie tutti i giorni. Mi piace molto il dottor Vidal, era anche il medico di mio padre, ma questo test io l’ho fatto per Mathieu, ed è quindi lui che me lo deve annunciare.

So che è egoista, ma l’umanità è fatta di atti di egoismo, io seguo semplicemente la mia natura umana. Quella che detta ciò che occorre per sopravvivere.

Il dottor Vidal ha cercato di convincermi che avremmo dovuto parlare insieme di ciò che sarebbe accaduto se il test avesse riportato che i miei geni erano propizi all’Alzheimer. “Se il risultato è quello che mi spaventa di più, mi rivedrete presto e potremo parlarne”, gli ho risposto dolcemente. Penso che l’abbia inteso come una promessa. Se decido di combattere.

Il dottor Vidal mi consegna la busta sorridendo. Poi mi stringe la mano e lascio la clinica più velocemente che posso. Come se restare un minuto più del necessario rischierebbe di farmi ammalare. Riprendo la metropolitana avendo l’impressione che la mia borsa sia divenuta più pesante.

Come se una semplice busta potesse pesare tanto quanto una malattia. Mi sembra di portare una bomba nella borsa.

Uscendo dalla metropolitana compro una cartolina e un francobollo in un piccolo chiosco. È una fotografia in bianco e nero di Parigi del XX secolo in cui si vede un ragazzino vestito in abiti d’epoca, che ride arrampicandosi ad un lampione in una via della capitale. Butto giù qualche parola e la data, prima di indirizzarla a Harry. Imbuco la cartolina, prima di entrare nel Jardin des plantes. Ora, aspetto Mathieu, la busta nella mia borsa pronta a esplodermi in faccia.

Sono seduta nel parco zoologico di Parigi, vicino al Jardin des plantes, di fronte al bacino dei fenicotteri rosa. Mi è sempre piaciuto osservare gli animali mentre si crogiolano pigramente al sole. È forse per questo motivo che tutti i personaggi delle mie storie sono degli animali. Perché amo gli animali, ma anche perché i miei lettori non hanno più di otto, nove anni. Allora scrivo storie con animali che parlano, vivono, avventure incredibili, per dimenticare che l’essere umano non mi interessa.

È così che ho incontrato Mathieu. Era il disegnatore scelto dal mio editore per illustrare una delle mie storie per bambini, quella del coniglio che sognava di saltare fino alla luna.

All’inizio Petit Lapin cominciò a saltare quanto un gorilla. Così, il gorilla gli disse “io sto bene dove sto, vedi come domino la giungla dall’alto degli alberi”. Poi il coniglio saltò quanto un leone e il leone gli disse “io sto bene dove sto, vedi come regno sulla savana”. Poi il coniglio saltò quanto un elefante e l’elefante gli disse “io sto bene dove sto, guarda come gli altri animali temono le mie difese”. Poi il coniglio saltò quanto una giraffa e la giraffa gli disse “io sto bene dove sto, guarda come posso quasi toccare le stelle”. Allora il coniglio ritornò a casa e si lamentò con la sua mamma “ma mamma, tutti sembrano star bene al proprio posto, mentre io vorrei saltare fino alla luna!”. E sua madre gli rispose “un giorno Petit Lapin, un giorno…, ma per ora guarda quanto è bella la terra sotto le tue zampe, puoi scorrazzare, correre, saltare, sei a casa qui e ovunque tu salterai scoprirai che ti restano ancora tante avventure da vivere anche qui su questa terra”.

Avevo scritto questa storia, una semplice storia per bambini, in un periodo in cui mi ero persuasa di non sapere ciò che volevo, all’epoca volevo semplicemente andare sempre più in alto, sempre più lontano. E poi avevo incontrato Mathieu e, come per il coniglietto della mia storia, saltare fino alla luna mi era parso subito meno interessante che scoprire un nuovo mondo che mi offriva una vita con lui. Allora ecco, sono seduta di fronte a dei fenicotteri rosa e li vedo muoversi lentamente sulle loro lunghe zampe. Mi ricordano gli stagni vicino i quali sono cresciuta. Mi ricordano le passeggiate lungo la spiaggia, mi ricordano il volo delle anatre e dei cigni selvatici che partivano per migrare ogni anno e che vedevamo passare, così numerosi in cielo che avremmo potuto dire che tutti gli uccelli del mondo s’erano dati un’appuntamento su di noi. Mi ricordano il mio primo disegno, il primissimo disegno che ho fatto. Temo di non aver mai avuto il minimo talento per il disegno, a differenza di Mathieu. Mio padre me l’aveva fatto notare ridendo, i miei fenicotteri somigliavano a delle divertenti cannucce storte.

Improvvisamente, i fenicotteri si agitano e alcuni stendono le proprie ali, come per attorcigliarsi un po’ prima di riprendere una posa ancora più pigra. Io sono ancora lì, a guardarli, e ho questa busta in mano, ancora chiusa, ancora innocente, di una brutta notizia. Aspetto Mathieu, gli ho promesso di non aprirla senza di lui. Qualunque sia la risposta non vuole che sia sola nel momento in cui lo saprò. Neppure io voglio essere sola. È finita. Io sono con lui ora e non sarò mai più sola. Per la prima volta nella mia vita sto costruendo qualcosa che dura, qualcosa di solido. Più solido di questa busta spero. Qualcuno si siede accanto a me e so che è lui. Posa una mano sul mio ginocchio e prende dolcemente la busta dalle mie mani. Sento che la apre con una certa rigidità.

Allora all’improvviso sono assalita da un flusso di vecchi ricordi. La mia infanzia al mare, il mio primo animale, il pesciolino rosso che avevo chiamato Obi-Wan e che è morto dopo due settimane perché gli davo troppo cibo, le lunghe passeggiate sulla spiaggia con i miei amici del liceo a raccogliere conchiglie per rimetterle in acqua, i bagni di mezzanotte al chiaro di luna in cui non eravamo mai completamente nudi, il vecchio cinema in cui andavo con mia madre, prima che fosse abbattuto e sostituito da un grande complesso residenziale. Credo che l’ultimo film che io abbia visto lì, sia la seconda versione di Spiderman. Ho sempre trovato che i supereroi fossero un po’ sopravvalutati. Vivere una vita felice è già una missione importante e complicata, trascorrere il proprio tempo a salvare il mondo, mi avrebbe completamente sopraffatta.

E poi, mi ricordi di mio padre, del suo talento nel raccontare storie, del gusto per la pittura, lui che conosceva il Louvre come le sue tasche. Mi ricordi di alcuni dettagli che mi sembravano così insignificanti e che oggi diventano importanti. Mi ricordo delle storie che ha fatto quando ha trovato il suo primo capello bianco, mi ricordo di ciò che diceva quando non andavo bene ad una verifica di matematica “Non dire a tua madre che ti ho detto questo, ma di matematica francamente tu non ne hai bisogno per diventare un artista, fin quando sai contare va bene”, mi ricordo fino a che punto era suscettibile, mi ricordo della sua paura goffa per i cani che mi faceva tanto ridere.

Mi ricordo della sua malattia, che è forse la mia. Mi sembra tanto ingiusto tutto ciò. Ho talmente tanti ricordi meravigliosi che è ingiusto essere condannati a doverli dimenticare.

Ho l’impressione che debba assolutamente ricordarmi tutti questi ricordi, quei piccoli momenti della vita quotidiana trascorsi tanto tempo fa, me ne devo ricordare, non so perché, ma devo. Vorrei conservarli per sempre prigionieri nella mia memoria. Vorrei che quegli istanti passati continuassero a vivere attraverso me.

L’ultima cosa che Harry mi ha detto è: “raccontare i propri ricordi, non importa a chi, è un modo per non perderli mai”. Ha ragione. Ognuno dei miei libri è un ricordo, ognuna delle mie storie è un ricordo.

Mathieu prende la mia mano, tirandomi fuori dai miei pensieri. Ha aperto la busta. In questa busta, c’è la malattia oppure la vita. E lui l’ha aperta. Lui ora sa. Sa se la donna che ama è condannata a dimenticarlo. Sa se è condannato a ricordarle il suo nome ogni giorno. Ogni giorno che lui sceglierà di restare accanto a lei. Accanto a me.

Mi guarda. Penso che aspetti che gli faccia un segno. Che lo autorizzi a dire. Che gli dica che sono pronta.

Andrà bene Mathieu, dimmi. Andrà bene, dimmelo. Lo so che andrà bene.

Anche se la malattia prende possesso del mio corpo, anche se io mi dimentico, non dimenticherò di scrivere, non dimenticherò di amare. Io vivrò Parigi! Io vivrò, mi senti?

Caro Harry,

mio padre non c’è più. Non pensavo che si potesse soffrire tanto, pur non avendo nessuna ferita fisica. Forse avevi ragione in fin dei conti, bisogna saper scegliere le proprie lotte. Ho fatto il test. Nel momento in cui ti scrivo non conosco ancora il risultato. Ma qualunque esso sia, ti devo chiedere un favore. Ti prego caro amico, ricordati delle mie storie, ricordati della mia storia. È forse tutto quello che resterà di me se me ne dovessi dimenticare e ho la certezza che nessuno potrebbe offrirgli una seconda vita tanto quanto te.

Stammi bene.

Con tutto il mio affetto,

Aude.