I racconti del Premio letterario Energheia

Lo sfregio di Achille Basile_Vigevano(PV)

Racconto finalista Premio Energheia 2018
Menzione Giuria XXIV edizione


Storia vera di Partenope

Quando successe il fatto brutto Partenope viveva in una casa antica di quelle con i mattoni di tufo e i muri larghi e solidi proprio all’inizio di via Posillipo, all’interno di una dimora storica e misteriosa costruita sul mare proprio là dove batte l’onda quando il cielo è scuro. Vi si accedeva da certe scalette che scendevano verso il mare dalla strada principale con gli scalini di basolato sorretti e stretti anch’essi da un muretto di tufo. La scala conduceva ad un piccolo pianerottolo e ad una porta di legno a due battenti alti e stretti, sempre scrostati dalla salsedine.
Era una casa piccola. Si entrava direttamente in cucina e poi di lì in due stanze: una per i genitori ed una per lei. Il bagno sporgeva dalla casa come un balconcino tutto murato, ma con la sua finestrella affacciata sul mare. A guardare veramente il mare, però, ci pensava il terrazzo su cui si affacciava la camera di Partenope, un terrazzo grande quanto basta per metterci un tavolo da pranzo e pochi vasi da fiore.
La camera di Partenope era l’unica cosa veramente spaziosa della casa: un giorno ci sarebbe entrato addirittura un pianoforte… verticale, s’intende.
Il vero spettacolo della casa era la vista sul mare di Posillipo, lo sguardo andava dritto verso la penisola di fronte. A staccarsi dal piccolo approdo sotto la casa, magari con un gozzo, si sarebbe giunti di sicuro a Sorrento oppure, spinti dalle onde un po’ più ad ovest, a Capri. Uno spettacolo fantastico.
Partenope viveva a Posillipo non perché la sua famiglia fosse ricca, ma perché era, si direbbe con il linguaggio di oggi, radicata nel territorio, ma è più bello definirla: antica. La casa era stata della nonna che l’aveva ereditata dalla bisnonna e così via indietro anche per più di un secolo, chissà. E un giorno sicuramente sarebbe stata sua.
Fu la musica a raggiungere Partenope non il contrario. Accadde in una di quelle mattine che il mare è ricoperto di foschia, il tempo è bello sì, ma non si vede granché. Partenope, ancora bambina, era sul terrazzo e la sentì: poche note leggere, ma piene di melodia che accompagnavano una voce che le parve soave. Le parve di sentire qualcosa come: “sul mare luccica l’astro . .” Si incuriosì perché non ne capiva la provenienza: di certo veniva dal mare, ma di più non capì. La ascoltò e ne resto affascinata.
La sera seduta al tavolo per la cena ne parlò. Il padre, stava per dirle qualcosa, ma si fermò, ci pensò un po’ e poi le diede la spiegazione: “Era il canto di una balena”. Scherzava, ma Partenope ci credette forse perché aveva ancora in mente le immagini delle megattere che la sera prima aveva visto con il padre in televisione. Cosicché Partenope per anni restò convinta di aver avuto la fortuna di ascoltare il rarissimo e misterioso canto delle balene. Restava tuttavia il problema della provenienza della musica. Partenope non ci aveva neanche pensato ma il padre, con un eccesso di razionalità, ebbe il bisogno di precisare ed aggiunse: ”Accompagnata dalla sua orchestrina”. Lei non fece caso neppure alla precisazione perché ormai era immersa nella sua fantasia: si stupì solo che la madre ridesse senza una ragione.
Da allora ebbe inizio un gioco: ogni volta che le venivano in mente i motivi o, più tardi, le note per i suoi componimenti era solita immaginare che fosse la balena a mandargliele. Pensava: “E’ la balena che me le suggerisce, la mia balena in mezzo al mare”.
Ormai la musica l’aveva catturata tanto che lei chiese ed ottenne facilmente un flauto. Uno di quelli in plastica da quattro soldi, un flauto dolce, quelli che oggi nelle scuole si usano per avvicinare i bambini ad uno strumento. Chissà perché fra tanti strumenti scelse proprio quello. Forse perché nelle famiglie antiche esiste una innata consapevolezza di quello che si può chiedere ad un genitore: si nasce realisti senza nascere re. E certo quello strumento così rudimentale dovette sembrarle un dono “possibile”.
A lei comunque il suono del flauto ricordava proprio quello della balena. Uno strumento semplice, basta soffiare e già comunque esce un suono perché dentro c’è nascosto un qualcosa come un fischietto. Se poi impari ad otturare con le dita quei piccoli forellini qualche nota e una piccola melodia ecco che finisci per tirare qualcosa anche se sei il più negato. Non così fu per Partenope, che da quello strumentino imparò presto a tirar fuori dei veri motivi. Otturava i buchi con quelle dita ancora grassottelle di bambina che era uno spasso vederle saltellare alla ricerca del foro giusto. Usava per lo più la mano sinistra perché era mancina. Tanto uno spasso vedere quella manina sinistra che il padre non resisteva e allora gliela afferrava e diceva:
“Ma questa è una manella o una pagnottella?”
“Una pagnottella!” rispondeva veloce lei
“L’avete fata voi, signora?”
“Sì, l’ho appena tirata dal forno!”
“E com’è profumata! Me la voglio proprio mangiare!” concludeva il padre facendo finta di volerla addentare. Allora lei la liberava e la nascondeva veloce dietro la schiena, e insieme ridevano.
Altre volte il padre, quando non aveva tempo per giocare, si affacciava soltanto dall’uscio porta e diceva: “Chella manella!”
A lei veniva in mente l’intero gioco e rideva lo stesso. Giorni sereni. Perché la vita scorre proprio felice in una famiglia antica con un padre al lavoro, una madre in cucina e una balena nel mare.

Iscriversi al conservatorio di San Pietro a Maiella non fu neanche una scelta. Di sicuro in casa non ci fu discussione. Il flauto dolce non si studia, non è uno strumento da orchestra e lei, come è abbastanza logico e consueto in questi casi, optò per il flauto traverso. Gran bello strumento! Un suono meraviglioso, ma anche bello complicato. Non più solo forellini, ma tanta meccanica da conoscere e un soffio già più difficile. Partenope lo studiò e lo capì fino a giungere al diploma.
Studiava tanto nella sua camera in cui il padre e la madre ebbero cura di sistemarci un pianoforte: “Non sarà il suo strumento – disse una volta il maestro – ma un musicista non può non avere un pianoforte!”. Ed in effetti le fu di grande aiuto per i suoi componimenti.
Fu sistemato sulla parete che fa angolo con quella del balcone di modo che pur suonando bastava virare la testa di poco più di quarantacinque gradi per vedere il mare. Fu lei a volere così, è chiaro: non si danno le spalle al mare.
A farle compagnia, a quei tempi, bastava la sua balena. Era la sua amica a cui essere riconoscenti per tutte le note che le suggeriva: è per questo che prese l’abitudine di suonare sempre rivolta al mare.
“Se me le suggerisce lei è giusto che le faccia sentire il risultato” pensava.
Si diplomò e provò a cimentarsi con altri strumenti.
Il flauto le piaceva certo, ma sentiva che non era il suo strumento. Le anime dei musicisti sono diverse: ognuna si completa con uno strumento diverso, è per questo che c’è tanta varietà in un’orchestra. Provò dapprima il clarinetto poi anche il sassofono perché intanto aveva conosciuto e, ormai era chiaro a tutti, sposato il jazz. Il clarinetto è uno strumento ancora più complicato del flauto traverso: alla meccanica si aggiunge l’ancia da far vibrare se no non suona ma quando impari a farla vibrare, allora qualcosa suona proprio come il flauto. Ma non come la tromba. La tromba gliela portò il suo caro amico, compagno di studi fin dalla prima ora, che aveva capito la ricerca che stava facendo: “Suona questa – disse – è poco più di un tubo ripiegato, la meccanica è di tre tasti e serve solo ad aggiustare un po’ le note ma quelle devi mettercele tu. Se ce l’hai!”
E Partenope di note ne aveva tante, addirittura un mare.
Sì la tromba è così: pochissimi tasti e non c’è niente che produca il suono, né fischietti, né ance né altro. C’è solo un foro dove appoggiare la bocca: la musica ce la devi soffiare dentro tu, se ci riesci e se ce l’hai, come disse il suo amico. Provateci a soffiare in una tromba, ma vi avverto: procuratevi prima delle note se no resterete delusi. Se soffi senza avere dentro la musica esce solo il rumore di un soffio, un po’ amplificato, ma sempre solo un soffio. Non sono i tasti a fare le note, quelli servono solo a cambiare “timbro e colore”, come dicono i musicisti.
Il pianoforte no. Il pianoforte ce le ha lui le note, perciò è così grande. Tante corde con il proprio tasto. Pigi su quello ed esce un do vai su quell’altro e suona un la, qualunque sia la mano che usi. Oh, s’intende: il pianoforte è uno strumento meraviglioso. Il mondo non sarebbe lo stesso se non l’avessero inventato ed è vero che un conto è far uscire una singola nota ed un altro è fare musica, ma non era lo strumento di Partenope, la sua anima non si completava con quello, si sentiva costretta: di note lei aveva le sue. Partenope prese la tromba, la portò nella sua camera, la studiò e la capì e capì anche di aver trovato lo strumento della sua vita.

Ormai Partenope era una musicista, non soltanto una diplomata al conservatorio. La differenza sta tutta inbiscrome e semi biscrome. Lo studioso bada che la prima sia un trentaduesimo e la seconda esattamente un sessantaquattresimo e guai se non è così. Il musicista certamente lo sa, ma non può fare a meno di ascoltare altre cose come, ad esempio, se ad ospitarlo è una notte d’estate o l’aria chiusa di un teatro: è diverso. E allora la prima può anche diventare un ventottesimo e la seconda un sessantacinquesimo; l’orecchio esperto farà il piacere di chiudere un occhio e lasciare aprire il cuore degli ascoltatori. Ed allora nasce il concerto unico, il momento d’arte, la differenza fra un disco e una musica dal vivo. Su questo Partenope non transigerà quando farà i suoi concerti.
Ora quando le chiedevano, per risparmiare, di suonare su basi preregistrate o anche solo, orrore fra gli orrori, di usare una batteria computerizzata gira sui tacchi e se ne andava. Perché in realtà Partenope il suo bel carattere ce l’aveva . Non era sempre buona e accondiscendente, di sicuro non sulla musica.
A volte era davvero antipatica, come quella volta che le chiesero: “Perché ti piace il jazz?”
“Il jazz è una tempesta calma!” rispose.
“Spiegati meglio. Così non si capisce!”.
“E allora non può capire la musica!”.
Antipatica davvero, soprattutto perché a farle la domanda era stato un maestro del conservatorio che lei, evidentemente, e non poco altezzosamente, non stimava affatto.

Fu sciocca, poi se ne pentì, ma certe volte un po’ presuntuosa lo era, un lato del carattere con cui chi la conobbe prima o poi dovette fare i conti. Tranne il suo caro amico, quello della tromba e non perché lei non fosse capace di essere antipatica anche con lui, ma perché fu lui a sviluppare una specie di sesto senso che gli consentiva di evitare ogni questione. Fiutava l’aria.
Solo con il padre fu sempre gentile. Un po’ perché lo vedeva poco, era sempre fuori per lavoro, ma soprattutto perché come poteva essere altrimenti con un padre così?
L’aveva capita poi la storia della balena. L’aveva capito che il padre stava per dirle: “Sarà stata la radiolina accesa di qualche pescatore su una barca!”
Ma poi si era fermato, non si può dire così ad una bambina. Un bravo padre una storia più bella se la inventa.
“Una balena che canta sul mare luccica accompagnata da un’orchestrina, ma si può?” pensò ridendo dentro di sé quando capì la bugia.
O come quella volta che il padre, seguendo una cadenza a lei allora misteriosa e che solo da adulta capì, restò in casa.
“Oggi faccio l’intellettuale” diceva in quelle mattine con marcata autoironia.
Già perché il suo lavoro era di quelli manuali, ma a volte il titolare gli chiedeva di fare certi conti da riportare in complicate tabelle.
“Sarà mica perché doveva riepilogare i lavori fatti e le spese sostenute per stabilire la paga” pensò un giorno Partenope quando cominciava a comprendere i sacrifici che avevano fatto i genitori per lei.
Comunque al padre era venuto un gran mal di testa, aggravato da quella benedetta bambina che continuava a soffiare in quel flauto micidiale. Ma non se la sentì di vietarglielo con l’autorità e allora le disse: “Perché non vai nei giardinetti a catturare un uccellino? Così poi ce lo teniamo in una gabbietta!”.
“E come si fa?” chiese lei.
“E’ facile, basta che gli metti il sale sulla coda!”.
Lei ci cascò ancora una volta e passò tutta la mattinata a saltellare per le aiuole appresso ai passerotti con il pacco del sale rubato alla madre.
“Bastardo” pensò poi intenerita quando da adulta ricostruì l’accaduto.
Proprio così: Partenope era una credulona e per sua fortuna. È proprio vero che chi crede alle bugie è fortunato. Il tipo sveglio, diceva, vive in un mondo logico, chi ci casca tutte le volte scopre un mondo fantastico. Così era per lei: ci cascava tutte le volte.
Ma si sa, il tempo passa e insieme alle cose belle ne porta, per forza, anche qualcuna di brutta. La cosa bella è che le sue mani ora non erano più le pagnottelle di una bambina. Quella mano sinistra con cui premeva i tasti della tromba ora era una mano snella con dita affusolate di donna. La cosa brutta è che i genitori erano, diciamo, andati a vivere altrove e lei aveva dovuto imparare ad abitare da sola in quella casa, ora addirittura con una stanza di troppo. A farle compagnia ci pensava il suo caro amico, quello della tromba. Bussava a volte la sera all’improvviso con due pizze margherita, una birra da 60 cc e un’idea da discutere.
A Partenope faceva piacere: era un ragazzo sufficientemente scombinato da incontrare la sua simpatia e provava riconoscenza. Se il padre le aveva regalato una balena, era stato lui a regalarle una tromba. E poi era un bravo pianista.
Ci si intenda, lei per lui provava affetto, simpatia e gratitudine non per la tromba, ma per le belle conversazioni e discussioni che il giovanotto sapeva intavolare. Ora se si vuole usare quella parola che si scrive “amore”, si può, nella storia ci può stare: Partenope dovrà pur innamorarsi una volta almeno. Però questo forte sentimento, comunque si chiami, non le impediva di essere obiettiva sul suo essere pianista, perché lui era un bravissimo pianista e lei ne aveva una grande stima. Quando fece il saggio finale lei ovviamente volle essere lì. L’amico portò il concerto per piano in si bemolle maggiore di Tchaikovsky. Fu un successo: complimenti da tutta la commissione, ma fu lei a fargli il regalo più bello. Pianse.
Era una cosa che solo lui poteva capire, ne avevano parlato. Partenope non sapeva resistere: quando una musica era veramente bella, un’esecuzione veramente perfetta a lei venivano le lacrime agli occhi. Ne aveva parlato con lui una volta, una rarissima volta, e sicuramente era l’unica persona, con cui si era lasciata andare ad una confidenza. L’aveva fatto perché si sentiva stupida a fare una cosa del genere. Si vergognava di essere una ragazzina emotiva che piange. Fu lui allora a liberarla da questo peso. Lui la conosceva, aveva capito che in realtà lei non aveva nessuna voglia di smettere di piangere. Era solo che aveva bisogno di una motivazione colta, di una copertura intellettuale. E allora improvvisò la risposta giusta per lei, la solita bugia da credere vera.
“Le lacrime – disse – sono parole d’amore che si vorrebbero dire a chi non può più ascoltarle. A Beethoven non potrai mai dire grazie, allora l’unica cosa che puoi fare ora è regalargli le tue lacrime!”
Una frase bellissima, fatta apposta per lei e da dire solo a lei. Certo da non dire assolutamente tra amici in una serata in pizzeria: avrebbe provocato un coro generale di ilarità ed un fitto lancio di tovaglioli e pezzetti di pane. Però funzionò e da allora lei pianse tutte le volte che volle.
Ma Partenope non sempre era sincera con il suo caro amico: lei era un po’ più pop di lui, o forse è meglio dire più democratica, nel senso che a lei piacevano tutti i generi musicali, l’importante era che fossero eseguiti bene, con buon gusto, tanto che una volta pianse a dirotto mentre sentiva un disco di Peppino Gagliardi. Così quando lui, che per quanto riguarda il discorso pianti era rimasto a Beethoven, incontrò il suo sguardo pieno di lacrime dall’ultima fila di poltrone della platea, gli sembrò il complimento più grande.
Partenope non ebbe mai il coraggio di dirgli che aveva pianto anche per Peppino Gagliardi e non fu l’unica mancanza di sincerità, perché una cosa è l’affetto e una cosa è l’essere obiettivi. Lei gli rimproverava, ma beninteso non glielo disse mai, di essere un po’ troppo perfetto, proprio esattamente uno tutto biscrome e semibiscrome. La sua musica ne risentiva: troppo ordinata. Mentre lui, lei lo sapeva, mancava di ordine. Ecco lei avrebbe voluto un equilibrio fra le sue parti, avrebbe voluto che lui all’indiscussa conoscenza musicale legasse quella capacità d’improvvisazione che manifestava quando bussava con due margherite e una birra alla sua porta.

Partenope dunque abbracciò il jazz. Mise su un piccolo gruppo e iniziò a suonare nei locali. Niente di elettronico ovviamente, batterista e bassista in carne ed ossa, quando spesso in nome del risparmio e della tecnologia sono le prime teste che cadono. Con lei no, o tutta arte viva o non se ne fa niente, pretendeva con la sua antipatica presunzione. Si esibiva un po’ in tutti i locali della città , ma in particolare era apprezzata e richiesta in un locale che stava lungo corso Vittorio Emanuele, ai margini del centro storico, proprio sopra ai Quartieri spagnoli ben noti come covo di qualche fuorilegge poco perbene.
Partenope suonava lì il suo jazz, regalava le sue note e rendeva la vita migliore a chi sa apprezzare la buona musica. Suonava e si esibiva la sera fino a tarda notte sul palco del locale mostrando la sua bravura, il suo carattere forte, il suo successo, la sua passione per la musica e certo anche la sua bellezza di donna. Nessun problema se non fosse che il mondo non è quello che vorremmo.
“Troppo in mostra” disse il bigotto.
“Se le va cercando” disse il menagramo.
E purtroppo così fu. Così fu quella notte che l’aspettarono all’uscita del locale per trascinarla al buio senza rispetto di lei e senza vergogna di se.
Nessuno lo seppe mai perché a nessuno lei disse mai. Tornò a casa, chiuse la porta e non la aprì per molti giorni.
Che cosa fece in quei giorni è veramente difficile dirlo.
Certo un po’ d’acqua dovette pur berla, ma mangiare anche solo un boccone no.
Altre due cose sono certe: non suonò la tromba e non pianse. Quello no di sicuro! le lacrime lei le regalava ai grandi autori, alla bella musica, all’arte pura.
“Le lacrime sono parole d’amore” . No, non diede le sue lacrime ad una storia così brutta.
Restò in casa Partenope e nessuno può sapere di sicuro per quanti giorni, finché finalmente qualcuno bussò. Il suono la fece sobbalzare, lei si impaurì, ma allo stesso tempo fu colta da un’incredibile rabbia. Andò in cucina e si armò di un coltellaccio poi aprì la porta. Naturalmente era il suo caro amico carico di: due pizze margherita, una birra ed un’idea da discutere. Lei però dopo giorni di rabbia e solitudine vide soltanto uno schifoso essere umano che abita questo mondo schifoso e non si trattenne, piena di disgusto sferrò un violentissimo colpo di coltello. Non su di lui è chiaro, ma sulla porta. Tanto violento che la punta si conficcò nel legno ed il coltello arrestò all’istante la sua corsa, ma la mano, la solita mano sinistra, scivolò sul manico fino a raggiungere la lama che la ferì. Iniziò a scorrere il sangue che l’amico, preso un tovagliolo, tamponò.
“Mi dici che ti ha preso?”
“No!”
“Poco male”, si disse il giovanotto: era proprio una di quelle volte in cui è meglio cambiare discorso.
“Ho scritto un pezzo – riorganizzò veloce lui la conversazione – ero venuto per sapere che ne pensi!”.
Partenope prese i fogli che lui le porgeva e si abbandonò sopra una sedia. Era esausta ma iniziò comunque a leggere lo spartito.
Lui sapeva quello che doveva fare: doveva stare zitto. Lei lesse per un po’ poi si alzò prese una matita e ritornò sulla sedia, poggiò i fogli sul tavolo della cucina ed iniziò a fare delle correzioni. Lui non protestò, né fece obiezioni. La loro lunga amicizia si era tacitamente assestata su questo equilibrio: lui era un ottimo pianista, ma nel componimento la più brava era lei. Terminò le correzioni e ordinò:
“Suonala!”
“Sei dura!” disse lui, provando ad aprire un dialogo.
“Sì!”
Ecco, appunto, meglio obbedire. Andò al piano accese la piccola luce sul pianoforte che illumina solo lo spartito ed iniziò a suonare. Per un attimo lei ascoltò poi provò un senso di fastidio e si allontanò, aprì il balcone e uscì sul terrazzo a guardare il mare. Era una notte d’estate con la luna che disegna il suo nastro d’argento. Il pezzo era buono, le note c’erano, lei lo aveva capito subito eppure qualcosa non funzionava e quando la musica non va forse è meglio non sentirla.
All’improvviso proprio dall’attracco sotto casa si staccò un gozzo che con il suo tipico rumore di motore diesel iniziò a navigare dritto verso il largo. “Se non gira – pensò Partenope – arriva dritto a Sorrento, ma se il mare lo sposta ad ovest arriva a Capri”.
Poi ebbe l’intuizione: “L’andamento, ecco che cosa non va nel pezzo!”.
“Segui il tempo del motore” gridò dal terrazzo all’amico.
L’amico si fermò, ascoltò, ricalcolò e ricominciò a suonare. Perfetto, ora si che funzionava. Lui suonava con maggior entusiasmo e il pezzo era così buono che lei ne fu scossa tanto da sentire il bisogno di riprendere la tromba. Come al solito si rivolse al mare ed iniziò ad improvvisare. Lui ascoltò e capì di averla scossa, da che cosa non lo seppe mai, ma l’aveva scossa. Lei soffiava nella tromba la tempesta che aveva dentro e lo strumento diffondeva sul mare le note calme del jazz.
Lei suonava e guardava il gozzo e pensava: “Anch’io voglio partire, vado anch’io a Sorrento oppure a Capri oppure vado a trovare la mia balena. Devo partire perché qui non si può fare niente”.
Poi fu di nuovo raggiunta dal disgusto, poi da un sentimento senza nome. E’ un senso di tristezza, di solitudine, di scoraggiamento, di malinconia, uno di quei sentimenti per cui dire: “voglio partire” non basta più, è un sentimento che ti fa dire: “voglio morire!”.
La tromba subito lo raccolse e fece uscire frasi blues, lo raccolse l’amico che continuando a premere i tasti si girò a guardala affascinato dal perfetto tempismo, dalla scelta delle note, dalla fantasia che lei sapeva aggiungere ad ogni musica e lo raccolsero i suoi occhi che provarono a riempirsi di lacrime. Ma lei aveva deciso: no, non piangerò, aprì quanto più poté gli occhi e guardò fisso il mare lungo la scia della luna perché il vento potesse asciugarli. Ricominciò a soffiare tempesta e dallo strumento uscirono le note del jazz più duro.
Così fu che gli occhi le si asciugarono e la vista ritornò nitida. E il suo spirito ne ebbe subito giovamento, ma dalla mano sinistra ferita, da “chella manella”, dalla pagnottella di un tempo, forse perché sollecitata dal movimento delle dita, lentamente iniziarono a scendere gocce di sangue.Intanto lo strazio rabbioso si scioglieva in un fluire di cosciente dolore che rimase da allora sottotraccia nella sua musica.