I racconti del Premio Energheia Europa

Il primo canto, Alen Golež_Maribor

Racconto finalista Premio Energheia Slovenia 2020.

Traduzione a cura di Laura Renesto, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari.

Posò le braccia sulla legna e accese le pareti di mattoni con le fiamme. Sistemò gli arnesi del lavoro precedente dal tavolo alla parete, rimosse polvere, segatura, limatura e le soffiò oltre la finestra al vento della sera. Dal muro tolse l’orologio che aveva smesso di oscillare e si levò le scarpe per sentire il freddo del pavimento. Come in una fornace dentro di lui ardeva un fuoco, ma di colore blu cielo dei suoi occhi, che tentavano di vedere ancora qualcosa di proprio.

Un mese prima lui stesso aveva gettato la chiave nel fiume; dovette rompere la serratura. Mai più sarebbe dovuto entrare nella bottega, ma ci andò di nuovo. Questa volta sarà diverso.

Dal ramo di un albero che lui vide crescere da un pinolo di giorno in giorno, prima intagliò le gambe, otto dita e artigli per lacerare la preda. Semplice. Dopodiché prese una pietra fra le mani, per la quale aveva nuotato nel fiume esondato durante una tempesta, affinché potesse prendere quella giusta. Da essa, il busto e il cranio.

La mano lo guidò, le linee del suo piano erano sfocate, eppure continuò a lavorare per battere sul tempo il mattino. A causa delle fiamme si asciugava il sudore dalla fronte sempre più spesso, mentre fuori la notte avanzava. Una volta, quando il vento borbottava nel tetto dissestato, perse la presa, percosse la pietra e ne ruppe un pezzo. Per cui si fermò, chiuse gli occhi e ascoltò il vento, cosicché non lo sorprendesse di nuovo.

Rincorreva sempre la bellezza. Costruì la sua casa, dipinse le pareti con immagini dai propri sogni, il soffito del seminterrato come un cielo d’estate senza nuvole. Per una notte intera ogni mese scolpiva dal legno la luna piena, poi disponeva le statuette in uno schema, che trovava espressione solo quando lo guardava dall’alto degli alberi. Ma non gli fu possibile crearlo. Ogni volta falliva e, un pezzo dopo l’altro, dopo avergli infuso la vita, marciva. Moriva fra urla di dolore o follia.

Si interrogò, e quando concluse, capì cosa desiderava da sempre. Un corpo che non poteva essere ridotto in polvere o spazzato via da un pugno. Potenza, non bellezza. Infervorato, si allungò sotto il tavolo e scolpì il pezzo che era precedentemente caduto a terra in un becco lungo e affilato.

Gettò i cadaveri dei precedenti esperimenti in un fossato proprio accanto al fiume. Il vento soffiò il loro odore nei boschi, per far puzzare ogni albero di fallimento e morte. Di sangue in decomposizione; fino a quando non ebbe serrato il laboratorio, seppellì ogni corpo separatamente e lo segnò con un palo.

Infine, si chinò sulla teca. Era vuota, nemmeno la luce delle fiamme la raggiungeva. Ma quando ci lasciò cadere le braccia quasi fino alle spalle e le sollevò di nuovo, sorreggevano una sostanza scura. Piume nere quanto piume colorate con la notte, che si tenevano insieme non come mille, piuttosto come un’essenza unica. Sul tavolo separò le penne l’una dall’altra e le unì con le gambe, il busto, il cranio ed il becco. Lungo e affilato.

Aveva finito.

Intorno al laboratorio, la nebbia irrigava sequoie, pini, abeti e larici. Con il mattino, il vento si placava e al suo posto lasciava quiete, così si sentiva solo lo scroscio sulle sponde di un fiume remoto. Solo le piante, solo gli alberi respiravano. Desiderava una nuova, diversa creatura, che avrebbe potuto controllare nei movimenti, nei sentimenti, nel dolore e nella morte. Gli alberi continuavano a tacere.

Finì e posò le mani sull’uccello nero. Scuro e pericoloso, dissonante, lo nauseava. E solo un essere tale può prendere vita, pensò. Avvicinò le labbra ad esso, respirò profondamente e teneramente, e soffiò a lungo. Chiuse gli occhi in modo da non vedere quando si sarebbe animato; attese un movimento nelle mani.

Tuttavia il primo fatto non fu il movimento, come per gli altri, ma il suono. Il suo uccello nero cinguettò. Per la paura di quale atrocità avesse creato la cornacchia cinguettante con il respiro, aprì gli occhi.

L’uccello non era la morte, le sue piume erano, invece che nere, blu e marroni. Era bellezza e non un presagio. Con un respiro gli artigli svanirono, il corpo si rimpicciolì con un respiro, un respiro privò l’uomo di tutto il suo potere sulla creatura. Solo la forma rimase quella prima idea che lo spingeva verso gli altri.

L’uccello si raccolse e cantò fra le sue braccia. Il primo bellissimo canto. Quello era il corpo che aveva già seppellito mille volte.