I racconti del Premio Energheia Europa

Profumo di prezzemolo, Annelore Hermann_Monaco(Germania)

Racconto vincitore Premio Energheia Francia 2016

Traduzione di Flavia Ruscigno

   Era un giorno di settembre. Ero partita a Parigi, e qualche ora dopo il mio arrivo, mi sono ritrovata in un negozio di abiti da sposa. Ogni volta che ci vado a Parigi, mi chiedo se sono fatta delle città che ho visitato, delle conversazioni che ho condiviso, dei libri che ho letto, della musica che ho ascoltato e delle opere d’arte che ho contemplato. Molto a lungo e intensamente, ho osservato la “Rue de Paris, Temps de pluie” di Caillebotte. A 17 anni, durante un esame di arte, corso intensivo. Madame Bonnet, la mia prof. chiedeva la descrizione e l’analisi dell’opera.

   Mah! Io vedevo una coppia sotto un ombrello. Il loro sguardo cupo. In fondo, gli stessi ombrelli blu-acciaio trasportati da varie silouhettes in questa strada di Parigi. In alto, a sinistra, il palazzo tipico in stile Hausmann, da lontano somiglia quasi alla Piramide del Louvre. E poi quel lampione verde-bottiglia che divide l’immagine verticalmente in due parti disuguali.

Mi sento esattamente così con Luigi sotto il suo ombrello. Apre il suo ombrello blu scuro. “non ho avuto il dolce”, diceva il 27 maggio in Rue des cinq diamants e su questa frase, mi baciò. Io ero il suo dolce, un lampone, una crème brulée, una tarte tatin, tutto ciò che poteva desiderare. Me ne infischiavo totalmente. La strada scendeva dolcemente e io perdevo completamente la ragione.

I suoi baci avevano il gusto dell’espresso che avevano appena bevuto assieme. Le nostre braccia si sfioravano sempre meno per caso, avevamo pagato il conto rapidamente.

Non ho nessuna idea della durata di quei baci. Forse quattro secondi, forse quattro minuti. Il tempo girava attorno a se stesso, la lancetta dell’orologio aveva le vertigini.

Più a lungo e più intensamente ci baciavamo, più chiaramente un gusto di prezzemolo si univa ai nostri baci. Lui aveva ordinato un confit de canard. Un espressso al prezzemolo, la bibita più deliziosa che si potesse immaginare. A volte, assaporo ancora questa delizia nei miei ricordi. Mi nutro di questo ricordo. Di quel bacio. Il bacio di espresso al prezzemolo.

Era tutto così elegante nel negozio di abiti da sposa. Non ero venuta per scegliere il mio abito, visto che non avevo previsto di sposarmi prossimamente. Io figuravo tra le amiche privilegiate, ed ero rientrata in Francia solo tre giorni prima dal mio viaggio in Libano.

Da Beyrouth, un giorno su due chiamavo la mia famiglia a Monaco per assicurarli che stavo bene e che non ero stata ancora fucilata da una rivolta per la strada.

Stavamo cenando in un ristorante molto caro tra Saida e Nabatiye, quando l’attenzione di Mona, la madre della famiglia, fu catturata dalle manifestazioni violente di Beirouth alla televisione. Non sapevo esattamente se ne era affascinata o disgustata. Né le sue intenzioni, né l’espressione del suo viso, mi consentivano di comprenderlo.

I camerieri ci salutarono, tutti, cinque volte e ci augurarono buon appetito – o perlomeno, pensai che quel contenuto fosse uscito dalle loro labbra sorridenti, il mio arabo è insufficiente. Si inchinarono leggermente in avanti e, quando cercai les toilettes, mi sentii come un’imperatrice bavarese.

Qualche minuto dopo, raggiunsi la tavola, che era coperta di ciotole e vassoi argentati pieni di cibi meravigliosi. Non c’era quasi più posto per i nostri piatti e il pane che sostituisce il coperto in Libano.

Mi ricordo soprattutto quanto le delizie fossero decorate con cura e savoir-faire: foglie di indivia, lamelle di carote trasformate in rosoni, di prezzemolo.

Ancora questa erba! Il prezzemolo mi accompagna apparentemente in tutti i grandi momenti della mia vita!

Spero di non avere il prezzemolo tra i denti, o tra i miei seni… qunado mi sposerò, sì per il mio matrimonio… ancora lontano. Effettivamente, non mi piace molto questo condimento. Che sia condito o semplice. Trovo che abbia un gusto troppo incisivo. Sulle patate cotte a vapore. Sui piatti più semplici, è sempre presente quest’erba svolazzante.

In dialetto bavarese, il prezzemolo cambia genere grammaticale, passando dal maschile al femminile, proprio come la cipolla, il peperone e la patata. Ma il piatto, in tedesco aulico dal genere maschile, diventa neutro! Come si vive quando si è una giovane di Monaco? A scuola, non ti capisce nessuno, e quando vai dalla nonna in campagna, ti guarda male se scarti “la” prezzemolo. E sì, era proprio così, quindici anni fa, all’incirca.

Ora, ho 23 anni, e viaggio in Libano. Che cambiamento nei luoghi che attraverso! Ad ogni modo, telefonavo un giorno su due ai miei genitori e raccontavo con tanta gioia le belle giornate e le belle serate nel Sud del Libano. A quasi 12 kilometri dalla frontiera israeliana.

Un giorno, abbiamo visitato un belvedere. Si poteva vedere chiaramente che i campi in Israele erano verdi, al contrario di quelli del Libano, piuttosto color sabbia. I campi al di là della frontiera erano irrigati con cura e rigorosamente delimitati.

Un altro giorno, andammo alla casa natale del padre di famiglia. Era abitabile soltanto il piano terra. Davanti alla casa riposavano una vecchia pompa e un pallone sgonfio, completamente scolorito dal sole. Attraversammo tantissimi tappeti e alcune pentole arrugginite prima di raggiungere il primo piano dallo sbieco di una scala di marmo. Le dita del padre passeggiarono lungo i buchi del muro… ricordi dei colpi da fuoco. A terra, i resti di una vasca da bagno e alcuni cucchiai d’argento che Hassan raccolse con precauzione e lentezza. Le sue dita facevano sparire la polvere, la ruggine e la violenza con i manici del cucchiaio. Vedevo nei suoi occhi che il cuore si spezzava in mille pezzi e che gli costava molta fatica ritornare in quella casa. Avevo trovato a terra una pietra vulcanica nera, era leggerissima grazie alle numerose cavità che la caratterizzavano. Hassan mi guardò dicendo: “Portatela, è eccezionale contro i duroni dei piedi!” sorrideva un po’, l’emozione sconvolgente del cucchiaio d’argento non gli consentiva di scoppiare a ridere. Ci sono stati molti momenti forti, quelle due settimane di settembre mi hanno segnata tanto.

Dopo, ritorno felicemente sana e salva a Parigi.

Passano due mesi. Siamo al venerdì 13 novembre. Un messaggio proveniente dalla Germania da parte di mio cugino Florian, un cugino appassionato di calcio e della Francia, mi fece sobbalzare. Mi chiese se avevo sentito le esplosioni. Lui ne era venuto al corrente dallo schermo di casa sua in Franconia. Non sapevo di cosa parlasse. Ho ricevuto innumerevoli messaggi dalla Germania, dalla Francia, dal Libano, e mi occorse un minuto per capire. Un attentato terroristico. Al Bataclan, allo stadio di Francia. In un ristorante asiatico. In un bar in Rue Oberkampf. In tutta Parigi.

Nelle settimane seguenti, ogni lampeggiante, ogni sirena, mi trafiggeva. Piena di angoscia, mi rigiravo sul marciapiede. Il 21 novembre, c’era un incendio nel nostro palazzo.

Il fumo era così fitto e soffocante, che avevo male ai polmoni. Una giovane donna aveva bevuto troppo, aveva lasciato cadere una sigaretta sul letto e il materasso aveva preso fuoco.

Per lo meno, è quello che farfugliava alle quattro e trenta del mattino nel pianerottolo. I suoi occhi erano rossi, i capelli mal curati e il suo accappatoio grigio le dava un’apparenza ripugnante, disperata e malefica al tempo stesso. La polizia e i pompieri le imposero una terapia di disintossicazione; gli infermieri del pronto soccorso auscultarono la mia pressione arteriosa, la mie pulsazioni, chiesero il mio none e il numero del mio appartamento. Da quel momento, ho avuto paura di incontrare la ragazza dell’accendino sul pianerottolo. La casa aveva preso fuoco, 136 persone erano state uccise dai proiettili la settimana precedente. È atroce. Tutto ciò mi aveva tolto le forze. Ma la vita continua. Le persone continuano a mangiare del taboulé e a comprare abiti da sposa.

La testa e il cuore pieni di sole, di generosità e di magia dopo un soggiorno in una famiglia libanese, la seguente frase mi ha poi riportata ai miei sogni di veglia: “so bene, signorina, che cerca un abito stile bohème, ma non va bene con la sua corporatura!”, che commessa odiosa!

Il suo ombretto scintillante di strana provenienza, nascondeva il suo cuore glaciale. E questo, poi, in piena Parigi! – la città dell’amore. È ancora un posto da sogno? Si può ancora cadere sotto il suo charme? La commessa era una bestia senza cuore. Sì, lei non incarnava altro che la bestialità. Una parola strana. Sfogliavo sul larousse.fr per vedere ciò che dicevano a tal proposito i linguisti francesi.

Carattere: arial. Dimensione del carattere: 8. in grassetto. Pagina: 328. Colonna destra. Terz’ultimo rigo.

   È il posto che occupa il sostantivo “bestialità” nella Larousse.

   Origine latina: bestia – l’animale, la bestia.

   Definizione: comportamento umano assolutamente opposto alle norme etiche.

   Contrario: Umanità.

   Sinonimo: Brututalità.

   Esempi: la bestialità dei concorrenti, la bestialità in prigione.

Ciò significa una privazione del potere. Privazione della libertà. Ciò che distingue l’uomo dall’animale, è che questi si serve della ragione.

La bestialità implica lo strazio e la distruzione. Causa di disordine, di inquietudine, di turbamenti. Angoscia, panico, terrore.

Parigi è sempre un luogo da sogno? O la bestialità ha preso il sopravvento?

No. per me Parigi non è un sogno, ma la realtà!

Una ragazza si è eclissata nella cabina di prova.

Per la giovane rossa con gli occhiali color glicine, un sogno si è spezzato. Il matrimonio in bianco avorio. Si preparava alla giornata più bella della sua vita. E poi, questa frase assurda rovina tutto. Il suo labbro inferiore si mise a tremare e i suoi occhi iniziarono subito a cercare la sua migliore amica che scrutava nello stesso momento i diademi di diamanti in una vetrina accanto alla cassa.

Io non mi vedrei mai con quel diadema. Troppo principessa Disney: mi immagino piuttosto con una corona di fiori sulla testa. Papaveri rosso lampone o giallo sole.

Delle ciocche chiare, libere, ai lati del volto. Un trucco discreto. Sì, un viso naturale. Un colorito rosa, labbra rosse e carnose per baciare gli invitati ed accoglierli esplodendo di gioia. Metterei una collanina in oro, messa perfettamente in risalto dalla leggera abbronzatura del mio décolleté, che seguirebbe i movimenti del busto e che brillerebbe come un ciotolo in un torrente. Delle perle come orecchini.

Vorrei anche una giarrettiera blu. Solo le mie migliori amiche avrebbero il diritto di vederla. Solo mio marito il diritto di toccarla e di togliermela. Indosserei delle belle scarpe bianche. l’altezza dei tacchi è indefinita tanto quanto l’altezza del mio futuro marito, è tutto proporzionale. Queste variabili non sono ancora definite. Nel mio immaginario, io dovrei arrivargli alle sopracciglia, il tacco che ci vorrà lo scopriremo solo vivendo. Sì, così può andare.

Il mio abito da sposa dovrebbe andarmi come un guanto, dovrebbe sposare le mie forme ed esaltare le mie curve. Sogno un lungo abito bianco tagliato dalle anche che abbellisca la mia silouhette.

Forse qualche perla, forse un po’ di pizzo translucido sulle spalle affinché si possa scorgere la mia pelle di traverso. E durante questa notte di lunedì.

Ero partita per incontrare la sua famiglia in Normandia, per tre giorni. Sono arrivata alle 23:05 a Granville-sur-mer. I miei occhi si misero a luccicare quando scorsi la chiusura lampo arancione del suo giubbotto nero in fondo al binario, a distanza di pochi metri. La luce della stazione era insufficiente. Alla sua sinistra c’era una piccolissima signora, era senz’altro sua madre. Le dissi subito buonasera e la ringraziai per essere venuta a prendermi così a tarda ora. Mi disse di non preoccuparmi e come capii solo più tardi, tutti i membri della famiglia qui si coricavano spesso più tardi. Raramente prima di mezzanotte. In ogni caso, erano circa le 23:08 e salutai anche Louis con un bacio. “Io, sono sempre Louis”.

Sì, ne dubitavo, specie di burlone. Siamo andati verso la macchina in cui suo fratello minore manteneva il posto al volante. Come mi aveva raccontato Louis, si chiamava Samuel. La madre prese posto sul sedile anteriore del passeggero, io e Louis sul sedile di dietro. Avevano la stessa macchina che la mia famiglia aveva preso da circa 8 anni. Ho dovuto mettere un freno alla mano sinistra, voleva sfiorare ad ogni costo il braccio di Louis. La notte nera scendeva bene, così ogni nostro piccolo sguardo si scorgeva appena, mi lasciava nel vago, e ciascuno trovava il suo piccolo bozzolo pieno di mistero. Facemmo per circa un’ora la provinciale, prima di arrivare alla proprietà isolata della sua famiglia. La casa di pietra, in stile tipicamente normanno, era decorata da persiane blu e da fiori blu nel giardino. Mi avevano offerto latte caldo e torta di mele, anche se avevamo superato già da un po’ la mezzanotte. Non vedevo l’ora che mi si mostrasse il luogo in cui avrei dormito, non solo perché ero davvero stanca, ma soprattutto perché volevo ritrovarmi da sola con Louis.

Non avevo alcuna idea su come Louis mi avesse presentata. Chi sono, cosa faccio, da dove vengo, che relazione c’era tra di noi. “Mamma, un’amica di Monaco verrà a trovarci, ok?” È così che lo immagino. Loius si era preso gioco di me in macchina dicendomi che i suoi erano convinti che avrei perso il treno. “hai già perso tanti treni in vita tua…”

Grazie, è veramente simpatico da parte vostra. E quando dicevo che ero stranamente con 20 minuti d’anticipo alla stazione, non credevano ad una sola parola. Montparnasse Vaugirard. Hall 3. ascoltate, tutti, ora riesco anche a sbrigarmela nelle grandi stazioni parigine, arrivando in netto anticipo. In sintesi, in un modo o nell’altro, poco importa se sua madre mi prendeva per una ragazza tedesca disinvolta venuta a far visita a suo figlio.

Alla fine, salii la vecchia scala di legno con Louis. Le sue gambe muscolose conoscevano a memoria quelle scale, lì era cresciuto. Al secondo piano, la porta di sinistra apriva la sua stanza. “Ecco, c’è un letto singolo qui, oppure se vuoi dormi con me qui in alto”. Mi mostrava col dito un letto nel mezzanino che aveva sistemato sulle travi trasversali, giusto sotto il tetto. Al momento, ero timida e imbarazzata. Ma poi, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo abbracciati e la cosa era già decisa. Ho salito le scale per raggiungere il suo palazzo del sonno, lui con me, e mi ritrovai cullata nella sua oasi di pace. Il letto era in disordine, vicino c’era una vecchia bottiglia d’acqua. Aveva appeso il suo jeans sulla scala, un po’ più tardi avrei capito per quale motivo. La tasca era il luogo sicuro per l’indispensabile nei momenti d’intimità.

Era così da sempre, un gran numero di domande si formava nella mia testa senza sosta. Ma trovavo presto o tardi una risposta in silenzio. Nella sua testa devono passare cose che si trasformano nei miei punti interrogativi e che mi fanno spesso sorridere interiormente. È sempre infinitamente bello essere tra le sue braccia. Mi piacerebbe tanto che questi tre giorni non toccassero mai la loro fine. E così mi sono addormentata in pace.

Il giorno seguente, mi sono svegliata alle otto e mezza perché il sole filtrava attraverso la finestra mansardata. Scesi più silenziosamente che potevo dal letto e passeggiai nella sua biblioteca. Trovai un libro corrispondente all’ora e al mio umore. “il senso della vita”, con grandi foto di animali, e due righe sotto che cercavano di illustrare la vita.

Delle scimmie divertite si lamentavano delle calze puzzolenti di un negozio di scarpe e due bradipi  in un’amaca suggerivano la gioia di vivere. Mentre leggevo, accanto a Louis, ridacchiai, e questo lo fece svegliare dopo venti minuti passati. Aveva ancora il viso un po’ segnato dal sonno. Preparò la colazione che facemmo al sole, sulla scala in pietra, davanti alla casa. Gli ho rubato qualche bacio prima del risveglio di suo fratello e del ritorno di sua madre che era al lavoro fino alle quattro del pomeriggio. Partimmo verso le città nei dintorni, mangiammo alle quattro in un ristorante e giocammo a biliardo fino a mezzanotte.

Questa volta, Louis guidava e commentava sulla ragazza che suo fratello aveva trovato. L’avevamo incontrata per caso nel bar col biliardo e si era unita al nostro tavolo. Dopo averla lasciata davanti a casa sua, Louis disse: “Ha una bellissima voce, Marie”. Mi piacque molto la sua osservazione. Mi sarebbe tanto piaciuto scoprire quali complimenti aveva riservato a me. Forse sui miei occhi blu cielo? Oppure, che dico cose incidentalmente profonde? Non so cosa gli piaccia di me. Con Louis è così, e così va bene. Indefinitamente bene.

Il mio abito dovrebbe essere bello e seducente al tempo stesso. Dovrebbe accompagnarmi in questo giorno straordinario e farmi risplendere indossandolo. Vidi dalla vetrata la chiesa sull’altro lato della strada. Un posto perfetto per quel negozio di abiti da sposa.

D’altrocanto, la sposa potrebbe passare al volo al mattino anche semplicemente per farsi aiutare a indossare l’abito e le commesse potrebbero approfittare per sistemarle l’acconciatura. Tutto compreso nel servizio.

In quel momento, gli anelli della tenda cigolarono sul bastone quando la commessa li fece scivolare verso sinistra, dopo aver assistito la giovane dai capelli rossi nella cabina di prova.

Il velluto spesso in verde scuro faceva posto alla futura sposa.

Con la mano sinistra, sorreggeva disperatamente l’abito senza bretelle, ricamato di pizzo all’altezza della clavicola per lasciarle un po’ di spazio. Il seno non lo riempiva. Con la mano destra sollevava il ponte degli occhiali che non andavano per niente bene con i suoi capelli rosso-arancio. Quel gesto era marcato dal suo imbarazzo quando le lacrime salirono disperate agli occhi e velocemente iniziarono a scendere sulle sue guance.

“Deborah, aiutami un attimo!” siamo venute per me. Io mi sposerò il 23 marzo, non tu!” Deborah si girò verso la sua migliore amica.

Vedeva una futura sposa deformata. L’abito scendeva mollemente e senza brio su di lei. Un sacco di color avorio imballava l’indossatrice dagli occhiali color glicine.