L'angolo dello scrittore

Il tempo di vivere

di Padre Kizito Sesana

Chi come me è cresciuto quando non c’era internet fa spesso ancora fatica a adattarsi alla quantità di notizie che ci raggiungono continuamente. Anche se ogni tanto mi vanto di essere stato uno dei primissimi ad usare internet a Nairobi, e il primo comboniano con un indirizzo internet, nel 1992, a volte non riesco a vincere la tentazione di spegnere telefonino e computer per dare tempo al mio mondo interiore di lavorare a ritmi più umani..

Il pomeriggio dell’Epifania, per esempio, col lentissimo collegamento di Mthunzi, a Lusaka, in pochi minuti vengo a sapere che a Roma è morto Don Franco, un punto di riferimento per tutto il gruppo di miei amici di Monteverde, che i bambini di Ndugu Mdogo Rescue a Nairobi hanno completato l’incisione in studio del loro primo CD con nove canzoni, che a Verbania mi aspettano per il fine settimana del 14 e 15 gennaio, che la Casa di Pulcinella a Bari del mio amico Paolo Comentale è stata oggetto di un attacco vandalico, e che lui si è vendicato facendo tradurre in inglese la poetica favola che ha scritto per ricordare George e Marco, che gli scouts che ci hanno visitato a Nairobi lo scorso luglio hanno organizzato una veglia per il 28 gennaio a Cernusco e mi chiedono di essere presente, che Josè da Manila si lamenta perchè non scrivo più per Worldmission, che Ian a Nairobi è stato il migliore dei nostri ragazzi all’esame finale di classe ottava ed ha vinto una borsa di studio di Equity Bank… Come si fa ad assorbire tutto nei pochi minuti che mi restano prima di incominciare la Messa con in bambini di Mthunzi? Come avere il tempo per interiorizzare e pregare e accettare l’assenza di don Franco? Coi ragazzi di Mthunzi stiamo ancora cercando di accettare la morte di Stephen. Tutto si insegue troppo velocemente, i fatti belli e quelli che ti provocano dolore si accavallano senza respiro. Senza contare le note minatorie che io e altri di Koinonia abbiamo ricevuto nelle ultime settimane, e tutto quello che succede nel resto del mondo, gli attacchi contro i cristiani in Nigeria, la Siria senza pace, il Sud Sudan sempre più travolto dalla violenza tribale… Era meglio quando le notizie viaggiavano più lentamente, o la mia capacità di restare al passo con la vita si sta ottundendo?

Nel flusso delle notizie e degli scambi, gli incontri più belli, che ti riposano dagli affanni quotidiani, sono quelli inaspettati, con le persone semplici che hanno la delicatezza di farti sapere che ti ricordano e, magari, perfino ti ringraziano.

Il 31 dicembre, al matttino presto, mentre partivo dall’aeroporto di Nairobi per Lusaka, un commesso di un negozio duty free mi blocca “Padre Kizito, ti ricordi me? Sono Leonard, sono stato a Kivuli per un anno, nel 2000. Vieni ti voglio offrire un caffè, ti voglio ringraziare.” Onestamente non riesco a riconoscere in lui uno dei bambini di Kivuli di 11 anni fa, non posso neanche fermarmi per il caffè perchè il volo è stato chiamato, ma mi imbarco contento e rilassato.

L’aeroporto di Nairobi, di solito cosi impersonale, sta diventando un posto di amici. Le ultime due volte che sono rientrato dall’Italia a Nairobi, c’era Benjamin, figlio di un pastore protestante di una chiesa all’inizio di Kabiria Road. Cinque o sei anni fa Benjamin giocava a pallacanestro nella squadra di Kivuli, adesso fa il manovratore dei tunnel di attracco degli aerei. Appena si apre il portellone, ed io cerco di essere fra i primi a scendere, è li che mi dice, anche lui con un sorriso sorpreso “Welcome back to Kenya, Sir”. “Sir”” non “padre”, perchè come tanti protestanti non riesca a chiamarmi cosi, ma il calore del benvenuto è genuino.

E l’altro ieri, tornando da Lusaka, l’hostess indiana della Kenya Airways che mi è passata accanto con fare professionale mille volte durante il volo, all’arrivo mi saluta “Sono nipote di Julian, ricordati di noi, padre”. Julian è un anziano indiano cattolico, famiglia originaria di Goa, che ogni anno non si dimentica di portare un regalino ai bambini di Kivuli.

L’ultima volta che sono andato a Mombasa, in un parcheggio, sto chiedendo indicazioni per andare a visitare una scuola vicino al mare dove poter mandare per una settimana di vacanza le ragazze della Casa di Anita. Passa un trentenne, si ferma “Ma tu sei padre Kizito! Io sono venuto per due o tre anni a fare karate a Kivuli. Non ti ho mai parlato, non sono cattolico e mi mettevi un pò di soggezione. Cosa posso fare per te?” Gli spiego il problema, Mi dice senza esitazione che conosce la scuola, è solo ad una decina di chilometri di distanza, però la strada è complicata, ma lui è pronto ad accompagnarmi, poi si arrangerà a tornare indietro. Ma è un giorno feriale, non lavora? “Si lavoro, ma posso prendermi un paio d’ore per accompagnarti.” Durante il percorso insieme mi racconta che i suoi vivono ancora sulla Kabiria Road, e che lui si è laurato in Economia e Commercio. Come tanti, dopo la laura ha fatto due anni di “tarmacking” – da “tarmac”, asfalto in inglese, verbo inventato in Kenya per indicare gli interminabili pellegrinaggi a piedi in cerca di lavoro – poi finalmente ha trovato lavoro per una ditta cinese. Cosa fa? Gli hanno dato un’auto e gira per tutte le strade del Kenya, localizzando le carcasse di auto e bus che sono state abbandonate sul posto dopo un incidente. La ditta manda un camion a prenderle, le carica su un cargo a Mombasa, e spedisce tutto in Cina, perchè in Kenya non c’è un fonderia.

Incontri veloci, semplici, ma che ti fanno sentire parte di una comunità, ti possono perfino far pensare di essere importante, cosa che non fa male. Se a me fa cosi tanto piacere sentire un “grazie” spontaneo e sincero, devo anche abituarmi a dirlo agli altri.