I racconti del Premio Energheia Europa

Il Quinto Respiro, Daphné Lecoeur

Menzione Premio Energheia Francia 2020

Traduzione a cura di Chiara Baietta

Coordinamento progetto: Sidonie Larato

Ancora una volta, quel giorno non uscii. Benché mi fossi trasferito a Parigi da poco, non avevo affatto voglia di conoscerne ogni angolo. Avevo un progetto ben preciso quando, un mattino di qualche settimana prima ero arrivato alla stazione di Saint-Lazare. Allora, mi diressi immediatamente da Félix Potin, boulevard de Sébastopol, per comprare tutte le provviste che sarei riuscito a trasportare, e poi dalla Belle Jardinière, nei pressi del Pont-Neuf, per procurarmi qualche indumento di ricambio e qualche camicia. A piedi, carico di tutti questi acquisti, avevo attraversato la Cité1 e avevo poi percorso il boulevard Saint-Michel, senza degnare di uno sguardo né i numerosi passanti, né le facciate degli edifici Haussmaniani che splendevano al sole dell’estate del 1893. Avevo girato l’angolo del Lycée Saint-Louis, trovando così, in rue Vaugirard, la camera che mi ero premurato di affittare.

Nonostante fosse imbarazzata dal mio fare frettoloso, oltre che irritata nel vedere che avevo già acquistato il necessario per rimanere in assedio diversi mesi, la locatrice non batté ciglio quando mi consegnò le chiavi della mia nuova stanzetta al settimo piano, in cima ad una catapecchia sbilenca. Tuttavia non si poté trattenere dal guardarmi di traverso a causa della mia grande statura, della mia barba e del mio completo, essendosi chiaramente preparata ad accogliere uno studente. Mentre la seguivo su per la scala a chiocciola per visitare il posto, non poté evitare di ricordarmi con la sua vocina nasale che il pasto, da lei preparato, era compreso nell’affitto. Continuai a salire senza risponderle, cullato dal ritmo costante dei miei passi sulle assi di legno e dal mio fiato affannato a causa dello sforzo. Aspettai di arrivare in cima e, non appena ella aprì la porta, lanciai i miei numerosi pacchetti sul letto, sbattei la porta dietro di me e sprofondai nel mio nuovo alloggio. I borbottii indignati e i passi pesanti irritati che si allontanavano nel corridoio mi fecero ravvedere: rincorsi la locatrice nella tromba delle scale e le risposi che qualche giorno a settimana non avrei disdegnato un pasto caldo. Così, con un peso in meno sulla coscienza, cominciò la mia reclusione volontaria.

Non avevo contato i giorni da allora. La luce del sole di mezzogiorno che attraversava il lucernario mi dava una vaga idea del passare delle settimane. Essa e il rumore in lontananza proveniente dalla strada che passava davanti all’edificio erano gli unici elementi che mi ricordavano l’esistenza di un mondo al di là di quella stanza. Quando presi la decisione irremovibile di isolarmi totalmente, posi un panno bianco davanti all’abbaino per fare in modo che solo una luce pallida potesse entrare nella stanza. Così, al riparo dal caldo soffocante di giugno, sdraiato sul letto o ricurvo sulla scrivania, scarabocchiavo qua e là tutto quello che mi passava per la mente, senza alcuna coerenza, neanche per me. Nel frattempo, la locatrice aveva abbandonato l’idea di chiacchierare e mi lasciava i pasti sul pianerottolo; i miei cari e i miei soci non conoscevano il mio indirizzo, quindi non potevano scrivermi, e la mia situazione d’isolamento mi rendeva invisibile al tout-Paris2. Avevo nascosto sotto le lenzuola i pochi effetti personali che possedevo ancora: in questo modo speravo scampare alla tentazione di rimembranze inopinate. Per raggiungere un’autarchia assoluta, avevo inoltre spostato lo specchio appeso al muro sopra alla bacinella del lavabo. I miei occhi non potevano vedere altro che la luce lattiginosa d’estate. I raggi facevano sbrilluccicare nella mansarda migliaia di granelli di polvere, il cui odore farinoso si era impregnato in tutti i miei averi. Mi ero rifugiato nella solitudine con un unico scopo: annullandomi speravo di poter descrivere meglio gli altri.

Tuttavia, dopo aver riempito quasi tutti i miei taccuini, dovetti arrendermi all’evidenza: mi trovavo in un’impasse. La versatilità inaudita della mia immaginazione non era tanto dovuta al ritorno dell’ispirazione, quanto la conseguenza sintomatica dell’isolamento sensoriale. Un mattino però, un forte boato mi strappò via da questo torpore lunare. Senza rendermi conto di quello che facevo, sollevai di qualche centimetro il panno che usavo come tenda e vidi, attraverso l’apertura, degli omnibus, coinvolti in un tamponamento a catena, che bloccavano completamente la rue de Médicis, in prossimità dell’incrocio con il boulevard Saint-Michel. Come uno di quei curiosi attirati dai disastri, guardai divertito la scena, ancora avvolta nel fumo nero del carbone, tutt’intorno i conducenti discutevano animatamente con i gendarmi, che erano già sopraggiunti. Mi accorsi troppo tardi che avevo rotto la quarantena. Infatti avevo ostruito l’apertura della finestra facendo attenzione a non lasciarmi tentare dall’esterno proprio per evitare qualsiasi tipo di distrazione: in quel momento realizzai che, con questo trattamento, i miei sensi erano stati trascurati. In quell’istante gustai ogni frammento del mondo davanti a me come non avevo mai fatto prima, come se fosse stato un dipinto, i cui dettagli si rivelavano poco a poco dilettando i miei occhi. Non mi ero mai reso conto che l’esposizione a sud della mia camera e la sua altezza mi offrivano una vista mozzafiato sul Jardin du Luxembourg. Dall’École des Mines al Palais du Sénat, spiccava l’accostamento dello smeraldo vegetale e del concio, una natura ordinata e ammaestrata, meticolosamente organizzata. Era un mattino di luglio e i flâneurs3 passeggiavano già sulle promenade in terra battuta, i lavoratori indaffarati con la ventiquattrore sotto il braccio li sorpassavano, mentre i giardinieri curavano i parterre di dalie dai colori accesi. I grandi castagni e gli altri alberi verdeggianti, ordinati in viali geometrici ai lati dei quali erano disposti degli aranci in vaso, proteggevano dal caldo i parigini indaffarati.

Restai così diverse ore, incantato, a guardare la città animarsi attorno a questo vasto polmone, i cui bronchi erbosi emanavano tranquillità per alcuni e fermento per altri. Lasciai il mio osservatorio solo quando sentii bussare alla porta: significava che il mio pasto era pronto. Ritornato nella stanza con il piatto fumante, ritrovai tra le cianfrusaglie sparse sulla scrivania l’ultimo taccuino intonso che mi era rimasto, un Windsor & Newton in pelle nera, che possedevo da anni senza averlo mai usato. Usai poi la sedia di vimini della scrivania per arrampicarmi sul lucernario e mi sistemai sul davanzale con piatto, carta e penna, appoggiando i piedi sulle tegole del tetto. Avevo in mente di seguire qualche passante a caso e di osservarne meticolosamente ogni azione, per quanto fosse possibile da quella distanza. Il mio rifugio d’eremita si era così trasformato in osservatorio antropologico. Giorno dopo giorno, nonostante non avessi cambiato idea sul fatto di non uscire, imparai a scovare e riconoscere i vicini e gli habitué del parco e feci il ritratto di ognuno di essi. Riconoscevo il postino dal cigolio della sua bicicletta, riuscivo a prevedere quando sarebbe passato il lattaio e distinguevo le passanti dal colore dei loro abiti. Poco a poco, senza accorgermene mi affezionai ad alcuni viandanti: il loro portamento e alcuni dei loro tratti mi ricordavano delle persone che avevo conosciuto in altri tempi, altrove. Mi sembrava addirittura che si trattasse di un’altra vita.

Un mezzogiorno, mentre abbozzavo delle descrizioni sul taccuino e delle rondini, che avevano nidificato sotto al tetto, beccavano la mia pagnotta, la mia mente divagava in luoghi lontani, gli stessi da cui mi ero esiliato all’inizio dell’estate. Ma mi sforzai di scacciare questi pensieri portando l’attenzione su un gruppetto che riconobbi.

Era tanto rumoroso quanto affascinante, e ne avevo riconosciuto il baccano ancora prima di distinguerlo: cinque bambini sovreccitati agghindati con pizzi elaborati e fiocchi di raso percorrevano a tutta velocità il viale del parco che costeggiava il Senato per arrivare agli stagni artificiali, dove avrebbero fatto galleggiare le loro barchette a vela di legno che tenevano sotto il braccio. La loro bambinaia esasperata li seguiva a stento, portando il bambino più piccolo. Questa famigliola passava tre pomeriggi a settimana al parco e ogni tanto anche i genitori partecipavano alla passeggiata. Le grida gioiose e i battibecchi giungevano facilmente al settimo piano, dove non potevo non sorridere guardando quella scena innocente. Eppure ciò non bastò a distogliere la mia attenzione dalle reminiscenze e mi persi nei meandri della memoria: in quel luogo dove i viali non erano di sabbia, ma solchi lasciati da fiumi e pioggia, non all’ombra di giovani platani, ma di castagni la cui cima toccava il cielo. Non mi sentivo vecchio, eppure quest’immagine sfuggente della mia infanzia mi sembrava così distante che sarebbe potuta essere quella di qualcun altro. La vista di tutti quei bambini che giocavano insieme mi ricordava sicuramente i miei fratelli e le mie sorelle, ma niente era più distante dall’Uppland della mia infanzia di questo allestimento ben sistemato. L’idea di uscire dal mio rifugio per mescolarmi a questa gente mi faceva addirittura rabbrividire.

Ciò non diminuiva il piacere che mi arrecava la contemplazione della biocenosi del parco, nonostante lo stupore del primo giorno fosse scemato, poiché i miei nervi sopportavano a fatica il fermento cittadino. Ammiravo comunque la varietà delle specie rappresentate, dai pini della Macedonia agli aceri del Giappone: ma non potevo sopportare l’idea di contemplarli da vicino. Mi ero isolato per scelta ed ero diventato misantropo per il disgusto. All’epoca mi bastava quell’equilibrio precario dato dal desiderio di vedere e di descrivere e non speravo neanche che questa situazione arrivasse alla fine. I soldi per soddisfare questi capricci non mi mancavano. Tuttavia, Parigi mi sembrava essere la scelta migliore per varie ragioni: innanzi tutto non era la prima volta che mi recavo in questa città e durante i soggiorni precedenti avevo sviluppato una certa preferenza per la rive gauche4 della Senna. Inoltre, nonostante avessi qualche aggancio, non ero conosciuto nella capitale francese, era un lusso che non avevo mai potuto concedermi nel mio paese. E infine questa scelta mi permetteva di allontanarmi il più possibile da ciò che amavo di quest’esistenza terrena: i boschi, la quiete e l’orizzonte ampio. Di tutto ciò, nel mio rifugio, mi rimaneva solo il silenzio e la solitudine e li avevo persi aprendo la finestra.

Mentre il pomeriggio passava, smisi di scrivere per osservare solamente con uno sguardo assente, spilluzzicando. Ora, intorno agli stagni e all’ombra degli alberi vicino alla fontana de’ Medici, si accalcava una gran folla. Centinaia di ombrellini e di pagliette immacolate riflettevano i raggi del sole cocente, mentre le temperature salivano vertiginosamente. Era impossibile trovare riparo nella stanza, che era ancore più bollente dell’esterno: il mio lucernario, vedetta del parco, era diventato il mio luogo di villeggiatura preferito. Per uno come me, che non aveva mai apprezzato il caldo, restare fuori così, sdraiato sul tetto, appollaiato su un ramo di un albero di pietra e d’ardesia, era come sottopormi ad una lenta tortura, un supplizio meschino che mi permetteva di crogiolarmi nella disperazione.

Da quando avevo aperto una finestra sul mondo, gli spettri febbrili provocati dalla solitudine si erano poco a poco trasformati in incubi dalle sembianze reali. Due mesi fa, la mia partenza era stata dovuta proprio questi spettri di cui allora vedevo le ombre, ma ormai non c’era più niente tra me e me stesso. Sognavo il Jardin du Luxembourg ben ordinato, lindo e splendente sotto il sole; poi il cielo si rabbuiava, coperto da nuvoloni di carbone, i fiori venivano calpestati, gli alberi tagliati e sradicati, gli uccelli massacrati e i bambini venivano abbandonati alla loro sorte in un vepraio urbano e sterile. Avevo inutilmente sperato che, scappando lontano dai miei affetti, dalle mie responsabilità e abitudini, avrei avuto un attimo di tregua… Poco a poco mi resi conto della vanità di quest’iniziativa disperata. Detto questo, anche se ero cosciente che, nella migliore delle ipotesi, questa decisione aveva solamente posticipato la data di scadenza, mi era ormai insopportabile rimanere là, circondato da quegli estranei che un tempo furono la mia famiglia. Infatti, anche se i bambini che si divertivano in giardino, sotto al mio sguardo, potevano ricordarmi la mia infanzia con i miei fratelli e le mie sorelle, non rimaneva più traccia alcuna di quell’animo semplice e libero in un mondo in cui i bambini potevano giocare senza nessun timore.

Siccome il cielo cominciava lentamente a rabbuiarsi, rientrai velocemente per riprendere il taccuino. Mi reimmersi nei miei appunti e ritrovai i paragrafi scritti qualche giorno prima: un passaggio su un gentiluomo che passeggiava in buona compagnia, qualche parola su quell’ufficiale che passava a cavallo, un corto paragrafo su quel ragazzo dei giornali… Ma la meditazione sotto il sole cocente mi aveva riportato all’inizio della mia esistenza e mi resi conto in quell’istante che in realtà svolgevo quell’esercizio da diverse settimane. Tutti quegli sconosciuti, quelle sagome fuggevoli in lontananza avevano attirato la mia attenzione per una ragione che pensavo essere casuale al momento in cui scrivevo, ma, in realtà, rappresentavano, ognuno a modo suo, una parte della mia vita.

Al tramonto, si sentì in lontananza il motivo di una melodia briosa: un’orchestra popolare si esibiva nel padiglione dell’orchestra vicino all’ingresso Saint-Michel, dalla parte opposta della fontana de’ Medici. I parigini lasciavano la frescura degli stagni per quella degli alberi, che permetteva loro di godersi lo spettacolo dei danzatori che già volteggiavano intorno al padiglione. Era il momento in cui il caldo diventava un po’ meno afoso, ma erano le sfumature dell’orizzonte infuocato, dal viola intenso all’arancione, a fare sì che l’atmosfera serale fosse la mia preferita. In Svezia, tutta l’estate è immersa in strani riflessi cangianti, poiché il sole non tramonta mai nei giorni del solstizio. Per molto tempo, ritrovarmi avvolto così in quest’incendio senza calore è stato per me l’unico modo d’immaginare l’estate e, anche dopo aver viaggiato in tutto il mondo, questo momento particolare risvegliava in me un certo languore colorato d’affetto.

Come avrei potuto non preferire l’atmosfera immobile estiva e la luce del giardino al grigiore e alle ciminiere di carbone di Chicago? Infatti, benché mi fossi esiliato dalla Svezia, partii il 1° maggio dall’America. Ad inizio giugno arrivai in Francia, al porto di Cherbourg per poi recarmi direttamente a Parigi. Il 12 ottobre dell’anno precedente ero stato invitato in quanto finanziere alla Worlds Columbian Exposition per rappresentare il padiglione svedese dell’evento. Arrivai dopo una settimana di scalo a New York per incontrare degli azionari americani, francesi e inglesi. Era quindi da settembre che non vedevo né mia moglie, né mia figlia.

Mentre fissavo gli abiti colorati volteggiare sotto le foglie, cedetti al richiamo dei ricordi. Vent’anni prima, mio fratello mi aveva spinto a mettere a frutto le nostre terre, quei boschi e quei laghi atavici, affidatici dai nostri genitori. La nostra stirpe fu vittima di un’ecatombe di malattie e incidenti, così da sei fratelli e sorelle, eravamo gli unici due rimasti per dirigere un vasto terreno agricolo. La tenuta era coltivata solamente in parte, il terreno restante era selvaggio e veramente magnifico, non comparabile allo schema ben ordinato del giardino alla francese che si estendeva sotto i miei occhi. In quanto fratello maggiore, mi ero accollato l’amministrazione della tenuta, nonostante desiderassi immergermi nella pigrizia della scrittura e nei viaggi in paesi lontani. All’epoca non sapevo che soffocando lo scrittore, avrei risvegliato il viaggiatore mio malgrado. Mio fratello, invece, era scappato in città dopo la morte della nostra terza sorella minore. Aveva intrapreso brillantamene degli studi di giurisprudenza ed economia a Uppsala. Una volta ritornato nel nostro land, fece leva sull’affetto che provavo per lui, l’unico membro della famiglia rimasto, e mi convinse, dopo diverse discussioni di lasciargli fondare delle segherie, delle falegnamerie e dei conservifici di verdure e di pesce. Per rispetto verso suo fratello maggiore non mi aveva mia chiesto di cedergli la mia eredità, e per amore fraterno gli cedevo la direzione dei nostri affari. All’inizio mi biasimava spesso perché vedevo solamente il fascino bucolico in ciò che lui definiva rendimento, dividendi, investimenti azionari. Questi rimproveri non durarono molto, poiché non avevo più niente da difendere: la fauna, la flora, era scomparso tutto quello che circondava casa mia, e i ricordi della mia infanzia persero il loro tetto e i loro punti di riferimento.

Qui sul tetto, gli uccelli che nidificavano alla mia stessa altezza erano i primi esseri viventi che frequentavo dal mio arrivo. È chiaro che l’ironia della sorte mi colpì quando mi resi conto che una stanzetta nel cuore di Parigi mia aveva fatto sentire in comunione con gli elementi della natura più di tutti gli anni passati in una campagna ormai industriosa e snaturata. Mi resi conto troppo tardi di quanto la perdita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle avesse cambiato mio fratello. Non vedeva più il portamento maestoso dei castagni, che intrecciavano i loro rami per formare degli arabeschi gotici tra gli ombrosi boschi di noccioli. Non ascoltava più il canto dei cormorani nella laguna boscosa, né quello dei merli sotto la pioggia. Capii solo allora, davanti a quel tramonto in Francia, che anni fa, nella nostra casa, mio fratello vide solo coloro che non c’erano più.

Per gli anni successivi, costruii la mia vita aiutando mio fratello a seppellire la nostra eredità sei piedi sotto terra dentro delle casseforti. Lui dirigeva la produzione, controllava le esportazioni e verificava i conti, mentre io avevo il ruolo di rappresentanza ai balli mondani e alle cene d’affari, intrecciavo relazioni e raccoglievo fondi. Conobbi la mia futura moglie proprio durante uno di quegli eventi: mio fratello e uno dei nostri soci, un magnate delle ferrovie scandinave, si erano accordati per presentarmi alla figlia di quest’ultimo. Per questo la vista di quei giovani che volteggiavano intorno al padiglione dell’orchestra aveva fatto riaffiorare tutti quei ricordi. Fu in quel momento preciso, al ballo dove mio fratello combinò il mio matrimonio con quella donna, che compresi che mi vedeva come tutta la borghesia che avevo conosciuto per tutta la vita: un fantoccio che poteva dirigere come un burattinaio, il Pulcinella ignorante di un’immensa pagliacciata da cui non potevo sottrarmi.

Il fidanzamento e i primi tempi della mia vita coniugale sono dei ricordi più che sfocati. Allora ero assente, come in trance, il mio animo vagava nei pressi delle rive della disperazione senza mai osare avvicinarsi. Non sarebbe stato diverso se avessi fumato dell’oppio o subito un delirium tremens: il mio corpo era con loro, ma tutto il mio spirito era altrove. Ciò che mi rimase più impresso di quell’epoca fu che cessai di credere in Dio. La futilità della mia sfortuna non mi permetteva più d’implorare la sua misericordia. Allora, un evento allo stesso tempo atteso e inaspettato venne mettere fine a quest’agonia dolce: un’estate di tre anni prima mia figlia nacque nella casa dei miei avi.

La pena delle sue notti riusciva a fare svanire la mia. Viveva nel mio cuore più che sotto al mio tetto. Quell’esserino mi apparteneva totalmente e le ero completamente devoto. La scrittura era sempre stata la mia passione infamante e segreta, ma la semplice esistenza di quel batuffoletto biondo come il grano mi aveva offerto un punto di mira per tutte le mie aspirazioni. Vidi i suoi primi passi, udii la sua prima parola, mi meravigliai vedendola scoprire il vasto mondo. Mia moglie non apprezzava che congedassi spesso la balia per accudirla io stesso, e mio fratello temeva che trascurassi i mei incarichi per la nostra impresa. Ma i loro discorsi non mi importavano, quella creatura allo stesso tempo così forte e così fragile si era impossessata della mia anima fino alla fine dei tempi.

Sentii dei rimorsi atroci quando lasciai la mia figliola all’inizio di settembre per intraprendere il lungo viaggio transatlantico con mio fratello. All’inizio, andando contro il buon senso, volli rifiutare, dopo tutti quegli anni passati a lavorare senza sosta con lo scopo di essere rappresentati a livello mondiale. La piccola sopportava a fatica il freddo del nord e covava una brutta tosse. Finché era inverno nell’ Uppland, avrei voluto portarla in una regione dal clima più mite: la Costa Azzurra, Corfù o addirittura Madeira, purché la sua salute ne giovasse. Inoltre non avrei potuto passare le festività natalizie con lei, il che mi arrecava un grande dolore. Ancora una volta, mio fratello riuscì a convincermi, sottolineando l’importanza capitale di questo viaggio e le somme immense già investite per l’esposizione di Chicago. Mia moglie lo sostenne, assicurandomi che avrebbe fatto tutto il possibile per la salute della bambina. Per niente rassicurato, ma intrappolato dalla mia stessa famiglia, mi imbarcai a malincuore per un viaggio di un mese a destinazione della costa americana. Una volta sbarcati, ci attendevano diversi giorni in treno per arrivare da New York a Pittsburgh e poi a Cleveland, per, in fine, raggiungere Chicago.

La grandiosità e l’immensità dei mezzi spiegati per l’evento a Jackson Park, a sud della metropoli, mi lasciarono senza parole. Già poco dopo l’annuncio del lancio dell’esposizione, tutti coloro che erano coinvolti nell’organizzazione si vantavano di un successo incontestabile, nonostante la fiera che accompagnava l’esposizione mondiale non sarebbe stata aperta al pubblico prima del 1° maggio. Ebbi l’occasione di visitarla in veste di finanziatore – tra l’altro non potei sottrarmi a nessun evento: cerimonie d’inaugurazione, cene ufficiali, balli d’apertura, visite guidate dei padiglioni… mi hanno addirittura fatto salire sulla grande ruota panoramica, l’attrazione principale dell’esposizione, che avrebbe dovuto competere con la torre del signor Eiffel dell’ultima esposizione universale, quattro anni prima. Dall’alto della ruota si poteva ammirare una buona parte della città, i quartieri di South Shore, Hyde Park e Woodlawn.

Appollaiato su un tetto di Parigi, Jackson Park, con tutte le invenzioni faraonicamente monumentali che l’umanità potesse offrire, sfigurava messo a confronto con la piccola orchestra del padiglione, che faceva risplendere di gioia tutto il vicinato danzante. Il sole ad ovest arrivava alla fine della sua corsa in un cielo brillante d’ametista. Fui preso da uno slancio di affetto per quell’istante, la cui onda si avvolse e si infranse sul mio cuore spento. Cominciavo ad essere riconoscente a questa Parigi, che mi aveva accolto senza saperlo, Parigi che era la mia dimora senza volermi conoscere, mentre Chicago che pretendeva la mia presenza mi aveva fatto fuggire oltreoceano.

Dalla cima di quella ruota, infatti mi si presentava un’immagine cristallina della frenesia umana. Vidi degli edifici identici impacchettati in viali immensi, a forma di scacchiere rettilinee riempite di una folla spaventosa. Correvano tutti e si spingevano, soffocavano sotto delle nuvole nere come la tempesta, ma cariche di carbonio e d’idrogeno; soffocavano tutti, eppure lottavano senza pietà in una giungla di macadam nella veemenza decadente di una società che si considerava rinascente. Quando scendemmo da quell’apparecchio mio fratello si prese gioco delle mie vertigini, ma erano state causate da tutt’altro che l’altezza. L’inaugurazione del nostro padiglione rappresentò per me una breve tregua in quell’atmosfera elettrica d’esaltazione angosciante. Ero completamente soddisfatto del risultato e fiero che l’architetto incaricato dal Regno di Svezia e dalla città di Chicago avesse reso omaggio alle fattorie di legno dipinte di un rosso profondo e delicato al tempo stesso, che si trovano in tutta la campagna svedese. Tuttavia, questo ricordo di casa mia fece radicare la nostalgia talmente in profondità che mio fratello, generalmente insensibile ai mei stati d’animo, cominciò ad infastidirsi della mia cupezza, che pensava avrebbe intaccato la nostra reputazione oltreoceano. La devozione che avevo per mia figlia mi aveva allontanato dai suoi commenti insidiosi e dalle sue frecciatine discrete degli ultimi mesi, allo stesso tempo la mia tolleranza per i suoi modi di fare era diminuita drasticamente. Tutti quegli anni di logorio psichico prevalsero, non lo sopportavo più. L’equilibrio era stato spezzato, il fossato era diventato insormontabile: non eravamo più dello stesso sangue.

Come in altri periodi della mia esistenza in cui la prostrazione prendeva il sopravvento sul resto del mio essere, avevo conservato pochissimi ricordi dell’inverno passato negli Stati Uniti dopo l’inaugurazione dell’esposizione. Visitavamo le città limitrofe e le colonie svedesi nelle vicinanze, navigavamo sul lago Michigan, partecipavamo a tutte le cene e i ricevimenti noiosi all’inverosimile. Il tempo è sempre alterato quando si è afflitti e, senza che me ne rendessi conto, la primavera e il mese di maggio si avvicinavano velocemente. Da sette mesi non vedevo mia figlia, non avevo quasi nessuna notizia di mia moglie e sopportavo ogni giorno la presenza di mio fratello al mio fianco. In quel momento cominciai a contare i giorni che mi separavano dal momento di rottura, in cui, carico dei miei bagagli, avrei l’America per ritornare a casa mia, avrei preso mia figlia con me e ci saremmo esiliati in una terra lontana. Ho desiderato avere una ragione per partire e me ne è stata data una. E oggi mi chiedo: è stato Dio a condannare la mia vita in modo così crudele per punirmi della mia irreligione? Devo interpretarlo come la vendetta di uno spirito qualunque, seccato delle mie lamentele sul mio destino da privilegiato? Lo ignoro tuttora e so che non esistono risposte. A Parigi cercavo di obbligare la mia vena scrittoria a rinascere dopo averla soffocata per anni. Lo facevo sforzandomi invano di sostituire il mio dolore con una gioia dimenticata, trasformare la mia afflizione in creazione. Eppure questo lungo procedimento non era stato sufficiente per raccogliere il coraggio che mi avrebbe permesso di varcare nuovamente la soglia della mia porta. Mi girai per guardare il letto, immerso nella penombra, mentre le ultime luci del tramonto cominciavano a spegnersi. Scesi dal mio trespolo e rimasi in piedi davanti alle lenzuola arruffate e alla coperta sgualcita. Dalla finestra proveniva il suono di urla sorprese e seccate e l’orchestra smise bruscamente di suonare. Ne capii immediatamente la causa, poiché una calda pioggia serale cominciava a far risuonare la sua musica ritmata sulle tegole del tetto. Sollevai il materasso per trovare quello che vi avevo nascosto all’inizio della mia quarantena: passaporto, denaro e diverse buste. Ne presi una di quelle timbrate in rosso dalla Electric Telegraph Company e ritornai sul mio trespolo grondante di pioggia. La busta era provata dal fatto di essere stata aperta molte volte da quando mi era arrivata, poiché avevo letto il suo contenuto in continuazione. Stemperato dall’acquazzone raggiante, estrassi il telegramma il cui inchiostro si cancellava già con l’acqua. Non importava: c’erano scritte poche parole e ognuna di esse era stata impressa in me con un ferro rovente:

« ETC – from GRÄDDO SWEDEN – May 1st . 1893

Dotter Svea har dött av tuberkulos. Begravning imorgon.

TRANSLATES TO –

Daughter has died from tuberculosis. Funeral tomorrow. »5

Lasciai il leggero foglio di carta cadere dall’ultimo piano del palazzo mentre le ultime lettere finivano di scomparire. Dopo una giornata soffocante, sentire l’acqua che mi scivolava sui capelli, le spalle e la schiena fu come rinascere, mi sentii albero e foglie benedetto dalla nube. Gli ultimi visitatori se ne stavano andando, cercando riparo come potevano, tranne uno: quello che vedevo tutti i giorni da quando avevo aperto la mia finestra, quello che tutti i giorni rimaneva appoggiato alle inferiate del parco senza mai entrarvi… quello a cui non avevo mai dedicato neanche una parola. Un mendicante, che sembrava vecchio come il mondo, ma che sembrava il più felice della città, più felice di quanto io non sia mai stato. Rimaneva là, seduto tra le pozzanghere, in fondo alla via, bagnato fradicio, eppure sorrideva con gli occhi chiusi rivolti verso il cielo. E io, rimanendo così in alto, vicino alle nuvole, imprigionato nella mia torre d’avorio decisi di festeggiare come lui la prima pioggia su Parigi dopo mesi, dall’istante preciso in cui ero arrivato là, da quando ero scappato dalla morte di mia figlia, da quando avevo rifiutato di aprire la sua bara rientrando. Tutto ciò per non ritornare nella mia casa di prima, e non vedere in quei luoghi coloro che non ci sono più… Per la prima volta da quando ero bambino lasciai sgorgare il mio pianto, e pregai finalmente il cielo perché trasformasse le mie lacrime in pioggia.

1 Centro di Parigi, sede della città medievale.

2 Espressione francese che al XIX secolo indicava l’alta società della capitale.

3 Termine francese che indica un passeggiatore svagato e a momenti curioso.

4 Zona di Parigi che si trova a sinistra della Senna.

5 Ndt: Messaggio riportato nel telegramma del 1° maggio: “Figlia morta di tubercolosi. Funerali domani”.