La storia, i personaggi, gli eventi

Radiohead_exit music for the next generation. La storia

radiohead3

 

I Radiohead da Oxford sono stati tra i grandi protagonisti del rinnovamento del rock britannico a cavallo tra i Novanta e il Duemila. Pochi, come loro, sono stati in grado di rappresentare in musica il disagio esistenziale di fine millennio, l’alienazione della “X Generation”, l’umore dei “kids” del nuovo secolo. Le loro canzoni, affollate di “loser” e di “creep”, di androidi e di rottami spaziali, sono la sintesi ideale di un percorso che parte dalla desolazione post-punk di Smiths e Joy Division per approdare nelle fredde lande dell’elettronica europea. La loro storia inizia nel 1988, quando il cantante Thom Yorke e il bassista Colin Greenwood, già nel gruppo punk dei Tnt, decidono di formare una nuovo gruppo. Si uniscono subito a loro Ed O’Brien, chitarrista, e Philip Selway, batterista, seguiti dal fratello di Greenwood, Johnny, violinista e membro della Thames Vale Youth Orchestra. I cinque scelgono il nome di On A Friday, in onore al giorno in cui si riuniscono per provare, nei pochi momenti liberi. Tutti tranne Johnny sono, infatti, impegnati con gli studi universitari. Thom Yorke studia inglese e arte all’università di Exeter; Colin Greenwood frequenta la facoltà di letteratura inglese a Cambridge; Ed O’Brien economia all’università di Manchester e Phil Selway inglese e storia al Politecnico di Liverpool. Il 22 luglio 1991, gli On A Friday si esibiscono per la prima volta in pubblico, all’Hollybush di Oxford. Pochi mesi dopo, incidono il primo demo, “Manic Hedgehog”, con quattro tracce: “I Can’t”, “Nothing Touches Me”, “Thinking About You” e “Phillipa Chicken”. La Emi ne intravede il talento e li mette sotto contratto il 21 dicembre 1991. Nel marzo 1992, la band decide di cambiare nome in “Radio Head”, da un brano dei Talking Heads incluso nell’album “True Stories”. Il primo Ep della band inglese, “The Drill”, è tuttavia un mezzo fiasco. Sembra un inizio tutto in salita per i cinque studenti oxoniani, incapaci anche di sfoggiare dal vivo un’immagine accativante. E invece… Il 21 settembre 1992 viene pubblicato il singolo “Creep”, la canzone che, a detta di Colin Greenwood “ci avrebbe dato fortuna, ci avrebbe distrutto la vita e ci avrebbe illuminato il cammino”. È una sorta di inno per una generazione di perdenti ed emarginati, avvolto in un’atmosfera decadente, falcidiata da riff abrasivi di chitarra e dal falsetto disperato del cantante. Un hit mondiale che cambia la vita ai Radiohead. Thom Yorke e compagni, infatti, non sono la classica “one-hit-band” come qualcuno già profetizzava. E di sorprese, ai loro detrattori, ne riserveranno molte. Spiazzandoli costantemente. Di tutto ciò non vi è molta traccia nell’album di debutto, Pablo Honey (1993). Realizzato in tre settimane, il disco raggiunge la venticinquesima posizione nelle classifiche inglesi, ma – eccezion fatta per la summenzionata “Creep” e per la lunga cavalcata elettrica di “Anyone Can Play Guitar” – non sa offrire molto di diverso dal brit-pop di retroguardia che imperversa all’epoca (“How Do You”, “Stop Whispering”, “Ripcord”). Nel ‘94 esce l’Ep “My Iron Lung”, che anticipa l’uscita di The Bends (1995). L’album segna un piccolo passo avanti, e subito i Radiohead vengono etichettati come i “nuovi U2”. Svettano un paio di singoli di razza, come “High And Dry” e “Fake Plastic Trees”, ma sono soprattutto l’appeal psichedelico di “Planet Telex” e le atmosfere struggenti della svenevole ballata “Street Spirit (Fade Out)” a far salire di tono il disco. Yorke e soci, comunque, appaiono ancora incerti tra un hard rock venato di umori psichedelici e un pop introverso stile Smiths, e soprattutto non sembrano ancora in grado di reggere il formato dell’album. La svolta è del 1997: esce Ok radiohead4Computer, destinato ad essere annoverato tra i capolavori degli anni Novanta. E’ un album rock visionario e psichedelico, dedicato alla fantascienza. Un lavoro in cui svettano brani melodici di grande impatto emotivo (“Karma Police”, “Exit music”, “Lucky”), ma anche un singolo dichiaratamente anti-commerciale come “Paranoid Android”: una suite di 7 minuti, con un videoclip alienato e completamente sganciato dalla musica. Pervaso da una malinconia di fondo e da una musica altamente suggestiva, fusione ideale di quelle correnti noise, elettronica e pop-rock che avevano attraversato il decennio, il lavoro dei cinque ragazzi di Oxford risulta molto diretto, toccante, riesce a colpire al cuore l’ascoltatore. Che la musica sia cambiata davvero lo si capisce fin dall’iniziale “Airbag”, curioso ringraziamento alle nuove tecnologie (“An airbag saved my life”): una partenza bruciante con un riff di chitarra tagliente che si dissolve nello straordinario falsetto di Yorke, perfetto interprete vocale delle ansie dell’uomo del Duemila. Poi, “Paranoid Android”, magnifica suite da oltre sei minuti che la band scelse, in piena coerenza anticommerciale, come singolo d’apertura. Attraverso il perfetto uso di effetti “speciali” che accompagnano le disperate richieste di Yorke (“Per favore, potreste smettere di fare rumore? Sto cercando di dimenticare”), la chitarra di Johnny Greenwood traccia un assolo stupendo, che segna l’accelerazione progressiva ma graduale del pezzo. Infine, come nei migliori Pink Floyd, vengono ripescate e accennate tutte le melodie che fino a quel momento erano state tracciate, per l’esplosione finale. Ancora giocata sul concetto di alienazione, dopo qualche secondo di tregua, attacca subito “Subterranean Homesick Alien”, che richiama nel nome un vecchio successo di Bob Dylan (“Subterranean Homesick Blues”). Dolce e malinconica melodia arpeggiata, con le chitarre in sottofondo che preludono in modo inequivocabile a quello che accadrà dopo. La traccia successiva, infatti, è uno dei momenti massimi del lavoro. Partendo da un semplice, lento, ossessivo accordo di chitarra acustica, “Exit Music (For A Film)” racchiude in sé la melodia tristissima di Yorke, che declama una vera e propria poesia, culminante nella voce tremolante dell’ultimo verso (“we hope that you choke”). Una delle canzoni più belle e più tristi degli anni Novanta, che rivela la passione di Yorke e compagni per le sonorità desolate dei Joy Division. Attraverso l’eterea “Let Down” si giunge così a “Karma Police”, forse la canzone più conosciuta dei Radiohead, secondo singolo dell’album. È una classica melodia orecchiabile sulla quale viene descritta, ancora una volta, la depressione cronica degli alieni Radiohead (“For a minute there I lost myself”). Il pezzo contribuirà a far conoscere Yorke e soci al grande pubblico, facendo da traino a un album che possiede una continuità tra i pezzi davvero eccezionale. “Karma Police” è lo spartiacque tra le due parti dell’album. Infatti, dopo i suggerimenti robotici di “Fitter Happier”, critica all’utopia dell’uomo perfetto, creato ad arte dai media, si apre la sezione più sperimentale dell’album. “Electioneering”, l’episodio più duro del disco nonché l’unico pezzo “politico”: Yorke si scaglia contro le false promesse dei candidati in campagna elettorale, puntualmente non rispettate una volta al potere. Segue “Climbing Up The Walls”, forse la canzone più debole di “OK Computer”, un rock lento e dilaniato accompagnato dalla voce carica di effetti di Thom Yorke. Un pezzo di transizione, preludio alla dolcissima melodia xilofonica di “No Surprises”, ninna-nanna “spleen” che contiene altri messaggi politici (“Facciamo crollare il governo, non sono i nostri portavoce”) e invettive ecologiche. Nel finale del disco, i Radiohead non mancano di rammentarci le difficoltà che affliggono la nostra tormentata esistenza in “Lucky” e “The Tourist”. La prima, ideale continuazione di “Exit Music (For A Film)”, ricama splendide armonie sulle quali la voce di Yorke, dolce e triste al tempo stesso, si conferma straordinariamente espressiva. “The Tourist”, invece, scritta da Johnny Greenwood, è l’ultima tappa di un fantastico viaggio nei meandri della malinconia, summa ideale dell’intero lavoro. In bilico tra la sperimentazione di Pink Floyd e (primi) Genesis e il pop melodico di Bowie e Smiths, i Radiohead coniano un una formula suggestiva, che li lancia nell’empireo del rock. Le recensioni americane di Ok Computer sono esaltanti. “Questo album è la prova che i radiohead1Radiohead è una band che è pronta a guardare il diavolo negli occhi”, scrive ad esempio Rolling Stone. Solo pochi detrattori continueranno ad osteggiarli, accusandoli di produrre una musica prettamente artificiale e formale. Ma il successo produrrà effetti imprevedibili sulla band. Al dodicesimo minuto del film-documentario di Grant Gee “Meeting People Is Easy”, che segue i Radiohead nel corso del tour all’indomani di OK Computer, Yorke fa cantare al pubblico “Creep” con aria sarcastica e si porta il microfono alla bocca soltanto per il ritornello, che recita: “I’m a creep / I’m a weirdo / What the hell am I doing here / I don’t belong here”. È ironico come questo pezzo, hit planetaria della quale ben presto i cinque di Oxford si stufarono (Yorke la definirà “un buon ronzio di frigorifero”, rifacendosi alla prima strofa di “Karma Police”) e che ancora oggi si rifiutano di suonare, nonostante siano sempre in parecchi a chiederla a squarciagola, fotografi esattamente il loro disagio di fronte all’esaltazione collettiva di cui è oggetto il loro album del 1997. Disagio ribadito da uno dei brani più struggenti del successivo Kid A, “How To Disappear Completely”: “That there/ That’s not me […] / I’m not here/ This isn’t happening”. È lo sfogo disperato di un uomo (e di un gruppo) che assiste allo sgretolamento della propria identità, stordito dai flash delle macchine fotografiche, dagli advertisement radiofonici, dai vari “Best Album of The Year” e “Best Album of All Times”. Nel 2000 Naomi Klein dà alle stampe “No Logo”. Opera che impressiona profondamente la band, tanto che viene presa in seria considerazione l’ipotesi di intitolare allo stesso modo il loro quarto lavoro di studio; e non è casuale che l’artwork, dominato dai colori rosso, bianco e nero, richiami proprio la copertina del saggio definito dal New York Times “la Bibbia del movimento antiglobalizzazione”. Questa fascinazione con tutta probabilità rafforza il fastidio, che la band non ha mai avuto premura di nascondere, nei confronti dell’industria discografica (e che culminerà con il divorzio travagliato dalla Emi e la pubblicazione, attraverso internet e con la formula pay-as-you-want, di In Rainbows): non sorprende allora che l’uscita di Kid A assuma toni fortemente anti-commerciali, a partire dalla scelta di non estrarne dei singoli. E se non si può affermare che la diffusione illegale dell’intero disco su Napster prima dell’uscita nei negozi sia stata voluta dagli stessi Radiohead, forse si può ipotizzare che da parte loro non sia stata accolta poi così male. Nonostante tutto, l’album arriva (in un certo senso ironicamente) in vetta alla classifica Billboard, spinto senza dubbio dall’attesa spasmodica per il successore di Ok Computer. Se quel disco era incentrato sull’alienazione dell’uomo nella società contemporanea, in Kid A sembra che sia la musica stessa ad operare tale alienazione: è un disco tutt’altro che facile, per certi frustrante per l’ascoltatore. Molti appassionati del gruppo si ritrovano disorientati e scoraggiati, e questo fa sì che Amnesiac, un anno dopo, non replicherà tale successo di vendite. “Ok Computer – racconta la band – è stato registrato per lo più dal vivo, dopo diverse prove e tour. Kid A è stato il nostro primo tentativo di lavorare sui suoni delle canzoni in studio. Volevamo capire maggiormente alcuni dei mezzi moderni per creare musica, come ad esempio i moduli di suono e i sampler, frammenti di musica estratti da canzoni preesistenti per comporre canzoni ex-novo. Eravamo anche interessati a ricreare suoni freschi usando vecchi sintetizzatori analogici e batterie elettroniche. Alla fine suonare dal vivo ci piace ancora molto”. Kid A è un disco fatto di tracce musicali, più che di canzoni, di sonorità fratturate e scomposte. Se i primi inni dei Radiohead (da “Creep” in giù) riuscivano a risultare “esplosivi” nella loro visceralità, capaci com’erano – anche “figurativamente”, attraverso la maschera depressa di Yorke – di dar voce alla rabbia dei “loser” e degli “sfigati” di sempre, in Kid A invece i brani sembrano quasi “implodere” in se stessi, fino a dissolversi. I riferimenti principali sono il pop degli anni 80, ma soprattutto il rock elettronico di gruppi come Kraftwerk e Tangerine Dream, i viaggi interstellari dei Pink Floyd, gli acquerelli ambientali di Brian Eno e l’espressionismo mitteleuropeo del Bowie berlinese. Molti lo riterranno il miglior lavoro dei Radiohead, altri semplicemente il più pretenzioso. Parte “Everything In Its Right Place”, un riff di tastiera scandito da percussioni subliminali e la voce processata che si rincorre, snaturandosi in echi digitali. È l’inizio di una notte nero pece, stagliata su vetri rotti che infrangono l’anima, la fanno sanguinare e allora è meglio restare immobili, lasciarsi cullare da una ninna nanna straniante come la title track che recupera la lezione naif dei Boards Of Canada. Quindi è il turno di “The National Anthem”, claustrofobia di basso e di fiati debitrici di Charles Mingus che è una perfetta colonna sonora per denunciare il ricorso alla paura come instrumentum regni (“Everyone has got the fear/ It’s holding on”). Daremmo qualunque cosa per uscire da quest’incubo, per sparire, ed ecco che ci viene mostrata la via: “How To Disappear Completely”, per l’appunto. Carezze di chitarra acustica, percussioni in punta di piedi, Jonny Greenwood all’Ondes Martenot: la coda è una catarsi, la voce che si fa strumento fra gli strumenti e annega in una bordata di rumore. La strumentale “Treefingers”, immersione in un mondo subacqueo creato dalle sei corde di Ed’O Brien manipolate elettronicamente, permette di recuperare fiato e chiude la prima parte del disco; la seconda inizia con le chitarre di “Optimistic”, quasi un salvagente lanciato ai reduci di Ok Computer, ma a sparigliare le carte ci pensano un’elettronica discreta e il basso imperscrutabile. Ancora chitarre quelle di “In Limbo”, ma stavolta non c’è niente a cui aggrapparsi: il naufragio è inevitabile (“I’m lost at sea/ don’t bother me/ I lost my way”). Siamo in dirittura d’arrivo. “Idioteque” è allucinazione verbale che si innesta su ritmi da dancefloor, il corpo che perde coscienza di sé e la mente lacerata da lastre di sintetizzatori. “Morning Bell” è il capitolo più controverso, una canzone d’incredibile violenza che striscia sottopelle senza esplodere. L’atto conclusivo è “Motion Picture Soundtrack”, requiem per organo estatico che va a recuperare liriche risalenti addirittura a prima di Pablo Honey e si arricchisce nella seconda parte di arpeggi da capogiro. Le ultime parole sono insieme un commiato e una promessa: “I will see you in the next life”. Silenzio, e infine un sussurro assordante, prima che l’elettrocardiogramma si faccia dolcemente piatto. In molti hanno tentato di rintracciare in Kid A un concept, una narrazione che abbracci l’intera scaletta. La chiave di lettura più gettonata, suggerita dallo stesso Yorke, è quella del “primo bambino clonato”: ma si tratta per la verità di un’interpretazione piuttosto forzata e non supportata dalle canzoni. L’unica certezza è il carattere profondamente “contro” dell’opera. Critica nei confronti del music business. Ostica per l’ascoltatore. Allergica per molti versi alla melodia pop: il motore di tutto è il ritmo, come nei dischi di Aphex Twin e Autechre che Yorke divora nel corso delle registrazioni. In un’intervista il leader confesserà addirittura che avrebbe volentieri fatto a meno di cantare, ma che evitò di dirlo ai suoi compagni, già abbastanza in difficoltà con il nuovo approccio. Il concepimento di Kid A è in effetti un vero e proprio travaglio, e più d’una volta i Radiohead arrivano vicini allo scioglimento: è tesa persino la scelta della tracklist, aspetto essenziale poiché una delle caratteristiche del disco è proprio la sua compattezza e organicità. Le canzoni sono da affrontare necessariamente assieme e in quest’ordine.  Tanto coraggioso quanto discontinuo, tanto intrigante quanto acerbo, il progetto Kid A sarà perfezionato nel successivo Amnesiac che, pur contenendo brani incisi nelle stesse sessioni di registrazione, rappresenterà un notevole balzo in avanti nella stessa direzione, ovvero quella di una sperimentazione “digitale” sul Radiohead-sound. Amnesiac è un altro paio di maniche, a partire dalle modalità di lancio. Prima della pubblicazione Yorke scrive sulla message board del gruppo: “Con il prossimo album faremo sicuramente singoli, video musicali, foto per riviste patinate e varie interessanti interviste riguardanti la mia torturata esistenza”. L’album è molto più accessibile, perlomeno a prima vista, del suo predecessore, nonostante i brani che lo compongono siano scaturiti dalle stesse sessioni di Kid A: lo si può considerare un gemello eterozigote del suo predecessore, con il quale condivide le aperture (o addirittura le fughe) verso il jazz e l’elettronica. La differenza più marcata rispetto al “fratello” è la presenza dell’elemento umano: mentre in Kid A la voce è spesso distorta o filtrata in modo tale da renderla quasi indecifrabile, qui le parole sono chiaramente comprensibili. E la sensazione di una ritrovata “fisicità” la rafforzano pure la marcata inspirazione che apre “You And Whose Army?”, o il suono delle dita che scorrono sui tasti della chitarra in “Hunting Bears”. In un’intervista pubblicata su Rolling Stone Yorke dichiara che il titolo del disco ha a che fare con la credenza gnostica che “alla nascita siamo obbligati a dimenticare da dove proveniamo così da poter sopportare il trauma di essere giunti in questa vita”. In questo senso Amnesiac si lega a Kid A realizzando la promessa di “Motion Picture Soundtrack”: tuttavia non si tratta di vera amnesia, in quanto diversi sono i punti di contatto con il passato, anche a livello testuale. “Pyramid Song” e “Like Spinning radiohead2Plates” riprendono l’immagine del fiume di “How To Disappear Completely”, “Pulk/Pull Revolving Doors” le botole di “In Limbo”. Stavolta a dare l’avvio è il campionamento di una gamelan (orchestra di strumenti musicali d’origine indonesiana) di “Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box”, sul quale si innestano i sintetizzatori e poi la voce in autotuning. Segue il primo singolo, “Pyramid Song”: un trionfo di pianoforte sincopato al quale si appoggia uno dei testi più visionari di Yorke, accompagnato dagli archi e dalla batteria, suggestionata come mai prima d’ora dal jazz, di Phil Selway. “Pulk/Pull Revolving Doors” è sorella di Kid A, percussioni in primo piano e voce disumanizzata. Che poi torna terrena, ma drogata dai fumi di un sogno, in “You And Whose Army?”, che ravviva la vena socialmente e politicamente polemica di “The National Anthem” così come “Dollars & Cents”, denuncia dell’azzeramento delle opposizioni da parte del potere che ormai non è più politico, ma soltanto economico, e la conclusiva “Life In A Glass House”, che punta l’indice contro il panopticon odierno creato dai media di comunicazione, l’impossibilità di conservare la propria privacy. La sezione centrale di Amnesiac va alla ricerca di una nuova linfa per la forma canzone, stravolgendola con sezioni ritmiche tutt’altro che immediate (“Knives Out”) e atmosfere vertiginose (“I Might Be Wrong”, “Dollars & Cents”). La nuova versione di “Morning Bell” abbandona l’inquietudine dell’originale e si veste di una pace estatica, più melodica. “Hunting Bears” è una strumentale per verità dispensabile, mentre “Like Spinning Plates” sconvolge con la sua psichedelia di suoni in reverse. Chiude “Life In A Glass House”, abbozzata già nel corso del tour post-OK Computer e che ora si veste di jazz; nel finale i fiati si uniscono in un uragano emotivo e Yorke commuove cantando come non ci fosse un domani. Non si può veramente giudicare Amnesiac come una raccolta degli scarti di Kid A. Se quest’ultimo è la dichiarazione d’insofferenza da parte dei Radiohead verso ciò che erano diventati (una creatura impazzita, sfuggita al loro stesso controllo) ed è in qualche modo l’antitesi di Ok Computer, Amnesiac rappresenta la sintesi perfetta delle varie anime della band, l’insieme che è più della somma delle sue parti. Coraggiosamente sperimentale, ma capace di tener viva l’immediatezza dei primi lavori della band, Amnesiac viene osannato dalle riviste specializzate di tutto il mondo e vale in molti casi ai Radiohead il titolo di “miglior band dell’anno”. Forti dell’autorevolezza conquistata presso la critica internazionale con gli ultimi tre lavori, Yorke e compagni si ripresentano sulla scena nel 2003 con Hail To The Thief, abbondantemente “pregustato” su Internet dai loro sostenitori fin da tre mesi prima dell’uscita. Il titolo fa riferimento al presunto “furto” di voti compiuto da George W. Bush nelle ultime elezioni presidenziali americane. Ma di politico, nelle tracce dell’album, non vi è granché. Musicalmente, invece, Yorke e soci sembrano voler soprattutto riprendere in mano la lezione melodico-elettronica di Ok Computer. Il glitch iniziale di “2+2=5”, infatti, non deve ingannare, e se l’elettronica non viene messa in soffitta, nella maggior parte dei brani primeggiano gli strumenti del rock tradizionale, oltre alla voce, qui davvero in grande forma, di Thom Yorke. E, a ben guardare, i brani più deboli del disco sono proprio quelli che sembrano voler mantenere un legame estetico con il passato più recente, pezzi come “The Gloaming” e “Backdrifts”, ad esempio, che non reggono il confronto con l’ibrida elettronica che ha caratterizzato alcune tra le migliori opere degli ultimi due dischi. Seduce invece la triade di apertura “2+2=5”, “Sit Down, Stand Up”, e la liquida e rarefatta “Sail To The Moon”: scatti nevrastenici, sfoghi frustrati e negati, amarezza tagliente nei testi, e un’infinita malinconia annegata nell’equilibrata grazia degli arpeggi delle chitarre e della voce di Yorke, sempre più leader della band. Una capacità di alternare tensioni differenti che si rivelerà preziosa: spiccano infatti i climax emotivi del singolo “There There”, di “A Wolf At The Door”, che con il suo malinconico carillon sembra uscita da Ok Computer, o i dolorosi gospel di “We Suck Young Blood” e “I Will”, e ancora quando si permettono anche il gioco di realizzare una copia degli U2 anni 90 migliore dell’originale, con il rock dal sapore futurista di “Where I End And You Begin”. Nel 2006 Thom Yorke esordisce come solista con The Eraser. Un anno dopo, il colpo di scena. I Radiohead promuovono il nuovo disco attraverso la rete. Passando la palla agli internauti sulla questione più spinosa della musica moderna: quanto deve costare la musica oggi? Risposta: it’s up to you. Dipende da te. Vuoi per fama, vuoi per troppe aspettative, In Rainbows sembrava destinato a essere ricordato più per la sua particolare distribuzione “scegli il prezzo” che per il suo contenuto musicale. Fortunatamente non è così. I Radiohead si dedicano ora a scrivere canzoni, nel vero senso della parola, con un dettaglio in più: tanti arrangiamenti e produzione molto curata. Canzoni che possono essere sia squisitamente pop (“Faust Arp”), sia intrise di quelle chitarre rock di cui erano pieni i primi dischi del gruppo (la già citata “Bodysnatchers”, per chi scrive il brano peggiore) ma sempre con il tocco di zenzero in più di quella maturità che conferisce a Yorke e compagni il sapere quando mettere il dettaglio sonoro giusto al posto giusto. L’aggettivo che meglio definisce il disco è “morbido”. Quasi tutti i brani hanno al loro interno un netto “stacco” musicale: decisamente clamoroso quello dell’iniziale “15 Step”, riflessivo quello che accompagna “Reckoner”. Riacquista un importante ruolo il batterista Phil Selway (la finale “Videotape” è la sua rivincita) allontanando l’elettronica dietro il sipario, relegandola a dettaglio secondario rispetto alla sostanza del suono, che diventa sempre più emozionale e delicato. Almeno tre le canzoni bellissime: “Nude”, “All I Need” e “House Of Cards”. Yorke, che la sa lunga, le distribuisce sapientemente nella scaletta, e soprattutto le canta divinamente. Vale la pena di spendere due parole sulla terza, una romantica bossanova registrata in lo-fi con una chitarra reggae. È la nota stonata eppure geniale, la “Life In A Glasshouse” di quest’album. Insieme al ritorno in primo piano della batteria, è proprio la voce di Thom Yorke la carta in più di questa spicciola raccolta di mp3. Il frontman finalmente abbandona ogni pretesa di protagonismo, sfruttando la sua voce particolare al meglio, cioè senza strafare, non cercando a tutti i costi l’ottava più alta. In Rainbows è forse il disco meno immediato del quintetto inglese, persino più dell’ossessivo ed elettronico Kid A. Ed è, se volete, il disco della definitiva maturità di questa band, l’album che poco aggiungerà ai cuori di chi ha amato Ok Computer oppure i toccanti momenti di Amnesiac, ma fa intravedere che i Radiohead ci sono ancora, che la loro musica offre ancora numerosi spunti intimisti, “Nude” su tutti. Complicata, sconsolata e ricca di suoni, la musica dei Radiohead riesce ancora ad essere, a volte, di una bellezza abbagliante. Seguendo la medesima modalità promozionale dell’album precedente, nel 2011 i Radiohead tornano ad annunciare in extremis un nuovo disco. Circolava già voce che il seguito di In Rainbows avrebbe avuto un afflato orchestrale. E, a sentirlo bene, forse i rumors c’avevano preso, secondo tuttavia una prospettiva differente – riferita cioè a un concetto di orchestralità legato alle nuove declinazioni musicali. Il quintetto, al suo ottavo disco, intraprende una via non scontata né banale, che arricchisce la sua discografia di un lavoro ancora una volta differente rispetto ai precedenti. Non è un lavoro pop, non è elettronica, non è rock. Che cos’è, dunque, The King Of Limbs? È una via di mezzo di tutto, un mix nel quale possono rintracciarsi i Radiohead di sempre, seppur nel contesto di un gioco di ombre che rende questo disco forse il più misterioso e difficilmente inquadrabile della loro storia. Rimane poco della bellezza pop del disco precedente, qui si osa di più. Il sound è compatto e monolitico come non mai, senza tuttavia mancare volta per volta di variazioni sul tema. Perfetto incrocio tra la freddezza di Kid A e le languide scie di Amnesiac, The King Of Limbs offre una sorta di rivistazione dell’uno-due di inizio decennio. Uno stile inconfondibile, nel quale fanno capolino da un lato cornici elettroniche (file under: Four Tet) e dall’altro personalissime e addolcite declinazioni dubstep (file under: Flying Lotus).   La marcetta iniziale “Bloom” racchiude perfettamente il senso dell’album: in bilico tra frastagliate linee ritmiche, superficiale freddezza e aperture alla Björk di “Debut” e “Homogenic”. Il canto sinuoso di Yorke al solito si pone da contraltare rispetto alla struttura, creando un perfetto incrocio tra calore e distacco. E se il frenetico incedere di “Morning Mr. Magpie” sembra uscito dalle outtake di “The Eraser”, i primi istanti di “Little By Little” parlano il verbo dei Portishead, col canto che si fa lamentoso e strozzato. “Feral”, più di ogni altra, porta alla memoria Kid A, tra schegge ritmiche impazzite, improvvisi stop e conseguenti accelerazioni, in un moto non distante dal Four Tet più vivido. Il singolo “Lotus Flower”, giocato su beat serrato, organo e stupende linee vocali (che si riscaldano nel “ritornello”) segna lo spartiacque del disco. Da qui è una discesa nel miele più dolce. “Codex” è episodio per piano, echi lontani e un senso di avvolgimento e calore che sfiora la perfezione, “Give Up The Ghost” è un’incantevole nenia per fiati e sovrapposizioni vocali in un incastro dolcissimo e celestiale. La conclusiva “Separator” richiama alla memoria il passo felpato di “House Of Cards”, con un crescendo velatamente psichedelico, che suggella un disco breve – trentasette minuti – ma densissimo, forse il più introspettivo, difficile e granitico della storia della band.   Successivamente alla pubblicazione di “The King Of Limbs” si susseguono una serie di remix affidati ad alcuni dei nomi più caldi della club culture internazionale. Diciannove versioni alternative vengono raccolte ad ottobre 2011 in “TKOL RMX1234567”, un doppio album che sdogana definitivamente i Radiohead presso i migliori club à la page. Il lancio del disco avviene attraverso un dj set in streaming mondiale con in consolle Yorke in persona, dal Boiler Room, una via di mezzo fra un club underground londinese e una web radio. Con Thom in consolle si alternano Jamie XX, Caribou, Lone e Illum Sphere: serata iper trendy a inviti, ma chi si è ritrovato sprovvisto del prezioso cartoncino, oppure si trovava dalla parte opposta del globo, ha potuto seguire in streaming l’evento comodamente da casa. Caribou aggiunge un inatteso loop di arpa a “Little By Little”, teletrasportandola sulla spiaggia di Café del Mar, Four Tet lascia intatta l’atmosfera di “Separator”, evitando di sovraccaricarla di bassi e casse: sono due fra i migliori momenti del progetto. Jacques Greene trascina “Lotus Flower” in territori two-step, Blawan rende “Bloom” (la più remixata, presente addirittura in cinque rivisitazioni) un martello techno, mentre Jamie XX le dona un tappeto industrial-ambient, Lone accompagna “Feral” in un rave party di due decenni fa, mantenendo in parte le percussioni originali. Pearson Sound riscrive totalmente “Morning Mr Magpie” partendo da un lungo drone ambient ed approdando su strutture a metà strada fra Detroit techno e break jungle, Nathan Fake gli ritaglia invece una veste electro shoegaze, Thriller Houseghost gioca sulla ripetizione conferendo a “Give Up The Ghost” un effetto quasi psichedelico, Illum Sphere ha il coraggio di affrontare “Codex” e la trasmuta in un midtempo, preservandone gli aspetti malinconici.

Come i Radiohead da “Kid A” in poi intrapresero un percorso di scomposizione e ricomposizione della materia musica secondo una propria picassiana visione, questi diciannove remix scompongono l’anima dei Radiohead, vivisezionandola e ricostruendola secondo la visione altrui. Un viaggio senza ritorno all’interno del DNA del quintetto inglese.