Vedo la gente scrivere_Omar Di Monopoli
Componente Giuria Premio Energheia 2024_XXX edizione.
Vedo la gente scrivere.
No, non è una citazione sbagliata del film “Il sesto senso”.
È che per lavoro tengo sovente dei corsi di scrittura e così una delle cose cui mi capita con più frequenza di assistere è il reificarsi dell’atto creativo di aspiranti scrittori. Spesso, quando faccio bene il mio mestiere, contribuisco a tirare fuori la parte più virtuosa, di quel processo, quella carica di sollecitazioni e potenziale (un corso di scrittura non ti fa «diventare» uno scrittore, ma aiuta a identificare e scartare le parti meno proficue del tuo lavoro per mettere invece meglio a fuoco ciò che conta sulla pagina scritta: trama, dialogo, personaggi e ritmo sono punti essenziali su cui concentrarsi mentre sicuramente non lo sono buona parte dei convincimenti degli allievi circa fama, carriera e altri sfarfallii dell’ego).
Pertanto, ho imparato presto a riconoscere la luce unica di questo incommensurabile dono: quello di saper raccontare storie. Con una lucida consapevolezza di fondo però: quel dono, quel talento, in realtà ce l’abbiamo tutti. Fa parte di noi. È insito nel nostro corredo genetico, e costituisce la spina dorsale di tutta la nostra cultura sociale passata, presente e futura. Raccontiamo tutti, di continuo, delle storie. E ce le raccontiamo, anche. Incessantemente. Per sopravvivere, per riconoscerci. Oppure semplicemente per comunicare sensazioni, avvenimenti. Cose. A volte cose buone, altre meno. Lo facciamo sin dalla notte dei tempi, dal momento in cui cioè l’Homo Sapiens, accomodandosi al calar del tramonto in una grotta dinanzi a un piccolo falò con amici e familiari, ha cominciato a srotolare le proprie mirabolanti prodezze di caccia arricchendo di particolari e aneddoti la propria narrazione, inventando dettagli, esagerando scontri, pericoli, turbamenti. Quel momento, incredibile, prodigioso, ha suggellato e reso manifesto quanto ogni Homo Sapiens sia anche, indiscutibilmente, un Homo Narrans, e quindi, in ragione di ciò, un perfetto “fabbricatore di storie”.
Uno storyteller si direbbe oggi.
Tale è infatti la casalinga nel momento in cui racconta ai figli la propria avventurosa visita al supermercato per gli acquisti quotidiani o l’infermiera che ragguaglia i colleghi su quanto l’hanno fatta impazzire oggi i pazienti del reparto in cui lavora. Ma anche il camionista che sciorina ai compagni le proprie peripezie di viaggio lungo autostrade deserte o il pescatore della domenica che amplifica sino all’inverosimile le dimensioni del pesce gatto che gli è sfuggito stamattina in barca non sono da meno. Tutti narratori nati, tutti scrittori in potenza.
I bambini poi, non ne parliamo, sono strabilianti inventori di storie, capaci di allestire seduta stante scenari perfettamente plausibili, accadimenti vividi e versicolori in cui la fantasia e la creazione di mondi alternativi – zeppi di nomi di animali impossibili, di verbi sperimentali – non ha alcun freno.
Mio padre non ha mai scritto un solo rigo in vita sua, eppure quanto ci deliziava l’ormai classico racconto famigliare di come fosse diventato un giocatore di baseball, in giovinezza (alle prese con la pulizia del campo sportivo della Polizia di Stato, a Bologna, gli rotolò tra le mani una palla a bordocampo: nel rilanciarla alla squadra in allenamento il coach si accorse della potenza del suo lancio sicché venne arruolato tra le file dei giocatori diventando effettivo per quasi 25 anni).
Nessuna pratica della cadenza dei tempi drammaturgici, nessun manuale di narratologia studiato fino alla noia, poche regole grammaticali di base (classe 1931, era “un quinta elementare”) eppure mio padre aveva una storia da raccontare, una storia forte, lineare, che affascinava chiunque e che ogni volta che veniva riproposta guadagnava in ritmo, in pulizia, e scansione temporale: ogni volta che ri-raccontiamo un episodio stiamo calibrando gli strumenti a nostra disposizione, verifichiamo cosa funziona e cosa no. Una prassi cui nei miei corsi dedico ore e ore di lezione: è la revisione, un caposaldo dei temi su cui è costruita l’intera ars rhetorica.
Ogni volta che affronto uno scrittore in erba, la mia priorità è quella di renderlo consapevole delle armi in suo possesso per esporre al meglio la propria storia. Ma non manco mai di ricordargli quanto là fuori la concorrenza sia spietata, serratissima. Ogni essere umano sul pianeta ha, al pari suo, una storia da raccontare. Storie con tutta probabilità interessanti e vivide almeno quanto la sua. Ma, a dispetto del perenne calo dei lettori e della furibonda distrazione di massa inoculata dal costante martellio dei nuovi media, la competizione non deve assolutamente preoccuparci perché – questo è ciò che davvero tengo a sottolineare nei miei incontri – essa è in realtà drogata a monte da un semplice dato di fatto, un dato che deve incoraggiarci a non desistere mai e a continuare a sforzarci di trovare la nostra voce. E la nostra storia.
Il fatto è che avremo sempre bisogno di storie.
Storie nuove, originali, uniche.
Storie capaci di percorrere sentieri mai battuti, e di farci sognare.
Storie che danno nuovi nomi alle cose, e che definiscono sentimenti mai provati, emozioni mai sentite.
Storie che in fondo sono sempre la stessa storia: quella di noi poveri abitanti di questo gigantesco macigno rotante che nomiamo Terra, costretti a raccontarsi ogni giorno di avere un senso e contare qualcosa, e di non essere soli.
Un senso di abbandono latente cui si sopperisce in un unico modo: raccontandosi la vita.
Per riconoscerla, e darle valore istante per istante.




