I brevissimi 2024 – Unoquattro zerotre duezeroduequattro , Corrado dal Maso_Roma
Anno 2024 (Le stagioni: Inverno) – finalista
Avviatosi oramai a finire, in Sicilia anche quell’anno l’inverno sembrava quasi non fosse neppure incominciato.
Sulla terraferma la temperatura si manteneva tiepida; il cappotto aveva preso polvere tutto il tempo e giaceva annoiato sull’attaccapanni nel ricordo di brevi giorni operosi attorno a Natale; per strada, sotto le palme del corso, a metà marzo il gelato già si scioglieva lungo il cono, e quel sapore di fondente al cioccolato – con un retrogusto tutto cerebrale di esotico, nero, amaro – che non si era neppure potuto gustare appieno in quanto attentamente distratti dalla chiacchiera del passeggio, si trasformava ben presto in un disagio appiccicoso; un fastidio che dai polpastrelli fluiva, maligno, nell’umore, e oltretutto costringeva a dispensare a destra e a manca un continuo scusa-se-non-ti-do-la-mano.
Un inverno di sole pieno, era.
Un inverno di mare calmo.
Un inverno maledetto.
Sul mare l’esotico invece non aveva, e non ha, proprio nulla di cerebrale.
Piuttosto, anche senza scomodarsi dalla terraferma a venirlo a provare di presenza, basta semplicemente affacciarvisi da un telegiornale, quasi fosse il balcone di casa, e l’esotico presenta subito il conto: un pugno in pieno volto, un’imprescindibile, immediata concretezza, prepotente e dura, eppure, in fondo, essenziale, nel modo che a volte solo alla tragedia riesce.
Un disagio profondo, che questa volta parte dallo stomaco, e passando dai polpastrelli che reggono il telecomando della televisione fluisce nell’umore, maligno, e molesto soprattutto, come ogni presa di coscienza, e si trasforma in angoscia, di fronte all’immagine in alta definizione di un gommone pressoché sgonfio, alla deriva da giorni, zeppo di esseri umani -quelli sopravvissuti- in viaggio da qualche altro mondo.
***
Quando il ronzio si era fatto rombo, sempre più vicino, e da giù finalmente avevano visto le enormi pale di quel mulino volante ruotare nel cielo, fino ad arrivare sopra di loro, oscurando a tratti il sole con fragorosa, sovrumana potenza, il loro torpore inanime, senza più illusioni, si era fatto improvvisamente agitazione parossistica, e il gommone un vulcano in eruzione, una bolgia: urla, un agitare di braccia e di stracci, uno strabuzzare di occhi, di orbite ancora più bianche; una gioia incontenibile, che pure sapeva altrettanto di dolore, per quanto non ancora tutto quello che sarebbe loro toccato … .
Alla fine, però, solo uno spreco delle poche forze rimaste; perché, quasi che il Dio dell’Occidente, invece di portare misericordia e salvezza, fosse venuto soltanto a dare un’occhiata, per curiosità, o per caso, l’elicottero aveva fatto un’ampia, scenografica virata e si era allontanato, vigliacco, fino a sparire oltre l’orizzonte.
Ora, molto tempo dopo, piegato in ginocchio tra i tanti corpi stesi e di nuovo inerti -lava tramutata in cenere- Alim carezzava il volto di suo figlio. Il bambino sembrava ancora più piccolo, riverso sul bordo del gommone che, floscio com’era, pareva volerlo accogliere in una specie di giaciglio fatto apposta per lui. La pelle nera era chiazzata di grandi macchie rugose, che in alcuni punti lasciavano scoperta la carne viva, come l’avevano fatta venire fuori gli schizzi di benzina e acqua di mare che l’avevano colpito fino a corroderla.
Sembrava arrugginita, la pelle del piccolo e di tutti gli altri, ma quello era suo figlio e Alim aveva ancora l’assurdo desiderio di riservagli qualche tenerezza. A lungo aveva esitato a toccarlo, per il timore incongruo di potergli fare del male, ma poi non aveva resistito ed adesso passava i suoi polpastrelli chiari, anzi sbiaditi, sulla pelle del bimbo con una delicatezza infinita, e gli sussurrava parole segrete di padre sconfitto, o forse preghiere, o invece consigli, raccomandazioni per il viaggio che aveva da fare. Non c’era speranza nei suoi occhi, né dolore o paura, né alcun altro sentimento, come se il cuore riuscisse a pulsare solo un apatico distacco all’involucro che era rimasto di quell’uomo che recitava, genuflesso, il suo ineffabile dhikr all’orecchio del figlio.
Soli sembravano; un padre e un figlio, nella loro intimità. E nessuno pareva badargli. Ma in un rigurgito di coscienza Alim sapeva che erano pronti a chiederglielo, lo avevano fatto per tutti gli altri, e così si stava preparando, e con sé preparava anche il piccino.
Era morto da ore
Oramai, però, comprese Alim, tutto sarebbe stato semplice, e il bordo del gommone sembrava messo lì, e fatto in quel modo, proprio per assecondarlo. Dunque, era il momento di agire, il momento che scocca inesorabile per ogni cosa per cui non potrà mai esserci un momento giusto. Allora prese le gambe di suo figlio e le cinse, quindi scese verso i piedi, in quell’ultimo abbraccio, lo sollevò e lo fece scivolare fuori bordo, con un tonfo fin troppo gentile nell’acqua chiara, e la corrente lentamente se lo portò via, come fosse il suo funerale.
Perché, anche in quell’inverno maledetto, per centinaia e centinaia di marinai di speranza e disgrazia condannati ad un porto sicuro, l’unico porto certo ancora una volta sarebbe stato il fondo del mare.




