I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2024 – Taou blanc, Ugo Criste_Genova

Anno 2024 (Le stagioni: Inverno) – finalista

Per raggiungere in estate la cima del Taou Blanc è sufficiente avere una buona forma fisica, non soffrire di vertigini e possedere alcune competenze alpinistiche: escursionisti esperti. Il sentiero inizia dalla frazione di Thumel e con sei o sette ore di cammino, sostenuto, si raggiunge e si torna dalla vetta che, posta a 3450 metri sul livello del mare, è la seconda montagna, per grado di altezza, della Val di Rhemes. Salirci a cavalcioni in inverno è altra faccenda. È soprattutto la nuova frontiera per il movimento alpinistico. È risaputo che le montagne della Terra sono state quasi tutte conquistate. Persino sugli ottomila, i cosiddetti tetti del mondo, si organizzano scalate per clienti danarosi desiderosi di provare emozioni. Agli alpinisti genuini rimane poco. Qualche parete. Qualche sperone. Rimangono, però, le conquiste in inverno.  E Pietro non poteva non essere attratto da questa sfida. Partì dalla piana di Thumel che era mattino. Il gelo che da mesi batteva senza sosta sulla valle aveva ghiacciato a tal punto la coltre nevosa che gli scarponi di Pietro neppure affondavano. Dietro di lui rimanevano solo lievi impronte non più profonde di due o tre centimetri, che il semplice spolverio della brezza, che spazzava di continuo il manto nevoso, ricopriva. In breve del passaggio di Pietro non ci sarebbe rimasta traccia.

Superato un tratto, che attraversava una fitta abetaia, s’inoltrò in un aperto vallone interno. Giganteschi parallelepipedi di pietra emergevano, simili monoliti, dalla neve e alcuni rovi, perfettamente tondeggianti, ricoperti dalla coltre nevosa, davano l’illusione di trovarsi alla presenza di un villaggio di igloo. Superò una serie di rocce divenute infide per la presenza di ghiaccio e trovò delle orme fresche; erano di stambecco. Di trovarle a quella altitudine, ma soprattutto con quelle condizioni ambientali e atmosferiche, si meravigliò. Di solito, quando la neve ricopre i pascoli, gli animali selvatici scendono a valle. Vanno alla ricerca di terreno sgombro da cui poter brucare. È quindi insolito trovare nella neve, specialmente quando è abbondante, segnali di un loro recente passaggio. Forse, pensò Pietro con un velo di amarezza, quello stambecco si era allontanato dal branco perché malato, perché respinto, e ora vagava per la montagna alla ricerca di un luogo giusto per morire. Forse, in attesa di quell’evento, era alla ricerca dei luoghi di quando era cucciolo, o di quando aveva visto, nel caso fosse stato femmina, nascere la propria prole. Oppure si sarebbe accontentato di un posto qualsiasi, scovato nel momento in cui avesse ceduto il cuore. E allora avanzava nella neve. Senza cibo. Soffrendo. Inseguendo la fatica per avvicinare l’attimo. Un modo per penare di meno. Gli animali quando sono alla conclusione della loro esistenza di solito si rifugiano nelle loro tane e attendono, con rassegnazione, la loro fine in un angolo appartato, forse invece quello stambecco, immaginò Pietro, era un po’ come lui. Amava la solitudine. A un certo momento le tracce dell’animale s’inoltrarono in una fitta pineta posta su un fianco della montagna. Forse, pensò Pietro, lo stambecco aveva individuato il suo estremo rifugio.  La punta della montagna era lassù. Della nuvolaglia, spinta dal vento, accarezzava la vetta. Lasciva le passava sopra, e poi scendeva a rotta di collo per una insenatura. Fece per rimettersi in cammino, per dirigersi verso la vetta, ma poi scorse, fra quella pineta, una macchia scura. Non se la sentì di essere, a quella vista, indifferente. Un qualcosa, dentro di sé, gli comunicò che avrebbe dovuto rinunciare alla scalata e fare qualcosa di giusto, di umano. Entrò nella boscaglia. Lo stambecco stava adagiato su un fianco. Pietro gli si avvicinò. L’animale, impaurito, gli dedicò uno sguardo. Con un sussurro Pietro lo tranquillizzò e accarezzandogli il capo gli tenne compagnia in attesa che l’inverno della sua vita concludesse il ciclo della sua esistenza.