Le parole dei giurati

“Scrivere per gli occhi”_Fabio Ilacqua

Giuria Premio letterario Energheia 2024_XXX edizione

Ora vorrei spiegarvi perché torno a partecipare all’esperienza di Energheia a Matera, e
perché mi sembra così importante.
Per riuscirci devo prenderla un po’ alla lontana.
Qualcuno ha detto: “Ogni film inizia con una riga scritta.”
Credo si tratti di Ennio Flaiano.
Uno sceneggiatore, appunto.
Eppure c’è sempre questo indicibile pregiudizio col quale, noi che lavoriamo con suoni e
immagini in movimento, guardiamo alla scrittura.
Al testo.
Idea. Soggetto. Scaletta. Trattamento. Sceneggiatura.
E magari anche peggio: liberamente tratto da, adattato per, ispirato.
È un pregiudizio figlio di un rancore antico: in un giorno del 1899, a Parigi si proietta
per la prima volta Cenerentola di Méliès, probabilmente il primo adattamento di un testo
letterario al cinema.
Erano solo sei minuti di film, ma non faccio fatica a immaginare che subito dopo quella
prima proiezione, a proiettore ancora caldo, qualcuno abbia sospirato per la prima volta:
“Bello! Ma il libro è meglio”.
Il libro è meglio.
Dalle origini del cinema ad oggi, fiumi di inchiostro sul tema: scrittori, e sceneggiatori
inclusi, da una parte, e poi registi e cineasti dall’altra.
La critica in mezzo a fare sintesi: il libro è meglio perché il suo regista è il lettore, e sue le
scelte dei luoghi, dei volti dei personaggi, del colore dei luoghi e dei tramonti, e di tutto il
resto.
Ne consegue che per 500 milioni di copie vendute come dicono, almeno cinquecento
milioni di diversi Don Chisciotte hanno cavalcato per altrettante innumerevoli,
inimmaginabili eppure immaginate terre della Mancia “con infinite lance nella rastrelliera,
altrettanti scudi antichi, e tanti e tutti magri ronzini e cani di mille razze da caccia.”
Tralascio il conto degli infiniti volti di altrettante Dulcinee, lo raddoppio nel riflesso dei
visi delle Aldonze che sono il loro specchio, e ancora raddoppio per il numero dei loro
occhi e infine moltiplico il tutto nella vertigine esponenziale dei mulini a vento,
inghiottiti dal vortice delle loro pale, nel vento, nelle menti e nei cuori di cinquecento
milioni di lettori.
Il film, lui poverino, è stato costretto a ridurre questo infinito intrattenimento alla scelta
registica degli attori in scena, umani e a volte anche troppo umani; ha adattato

scenografie e costumi per renderli compatibili con budget che non bastavano mai, si è
concesso l’invenzione occasionale di qualche effetto speciale per stupirci e ricordarci che
siamo comunque al cinema, e soprattutto ha imposto tagli severi al testo per confinarlo
dentro i minuti concessi (o sopportati) dal futuro spettatore.
Ma ovviamente, il libro era sempre meglio.
In cerca del testo che ne definisse meglio la sua identità e uno scopo più alto, il cinema arte
ultima ha anche tentato di riprodurre il grande teatro, sedendosi in sala e riprendendolo
mentre recita, ma scoprendosi spettatore sordo, capace di raccontare solo di un
palcoscenico fantasma, di ectoplasmi senza voce e senza odore, né polvere né sipario.
Seguono anni e poi decenni di storia triste: pur dopo aver trovato il suono e la sua voce,
il cinema continua ad essere bullizzato e stigmatizzato come puro intrattenimento, e “teatro
filmato” è il peggior epiteto col quale lo bollano le arti cugine.
Eppure, qualcosa di misterioso ed inedito stava iniziando ad accadere, e accadeva
proprio nel buio delle sale cinematografiche. Un lento processo di disgregazione della
trama lineare, della geometria strutturale della narrazione del romanzo, che lasciava
filtrare l’inchiostro di una nuova scrittura per immagini, quella materia oscura che scrive
negli occhi, senza testo nè parole. È soprattutto la psicanalisi, sua coetanea, a spiegare al
cinema – con quel suo modo sibillino di dire e non dire che sappiamo – che superati il
racconto e il testo, a luce spenta nella notte nera, le immagini si infilano sotto le coperte
del nostro inconscio, nei sogni dei nostri desideri e delle nostre paure.
Insomma: il libro sarà sempre meglio, ma ora Nosferatu morde davvero.
Questa materia oscura descrive un’altra verità, trascende la vita e la rigenera come fisica e
tangibile, crea un’esperienza fenomenologica, sensoriale ed emotiva capace di esprimere
significati profondi spesso indicibili, quindi non scrivibili.
Eppure: ogni film inizia con una riga scritta.
È vero.
Il cinema ha capito però che il testo di cui ha bisogno e più un pretesto: un presupposto di
gioco e di genere, un omicidio, un’astronave, il mostro da mostrare. Il cinema scopre
l’altezza della letteratura bassa, la cerca e l’innalza, riempie le sue ellissi e colora gli spazi
vuoti.
E dopo tanto cercare, chilometri e chilometri di pellicola, il cinema scopre di non aver
bisogno del grande romanzo, della complessa architettura di una trama, né della puntuale
descrizione dell’intrico dei suoi nodi. Al contrario, lui ha bisogno dei vuoti del racconto, di
ciò che là manca e che l’inconscio riempie, della forma snella con la quale una trama si
descrive intera ma confondendo causa ed effetto, materia per l'oggetto, simbolo e cosa,
astratto per concreto.
Non il romanzo finito, ma l’inizio del racconto.
Il racconto, prima di tutto, prima di fare immagine di tutto.

Ecco come ho vinto la diffidenza con la quale la mia categoria guarda al testo, e scoprire
e avvicinarsi al laboratorio che Energheia ripropone e reinventa con rinnovata
freschezza ogni anno è stata un’esperienza creativamente vivifica, condivisa con molti
partecipanti di di tutte le età, cosa davvero infrequente, che sempre stimola a nuovi
confronti e spunti di riflessione.
Nel paesaggio stralunato e metafisico di Matera, un laboratorio del racconto, l’innesco
della materia oscura, che lascia spazio per immaginare immagini, e scriverle dentro ed
oltre la scrittura, negli occhi aperti nel buio della sala.