I racconti del Premio letterario Energheia

Mero riflesso dei miei strani pensieri_Carla D’Ugo e Vincenza Rizzo_Bagheria(PA)

_Racconto finalista ventunesima edizione Premio Energheia 2015.

 

castello1

”Tutti mi dicono cosa devo fare o cosa devo pensare, cosa deve piacermi e cosa invece

no, quali devono essere i miei modelli da seguire… ma io non so.

Ho paura di sbagliare, di fare la scelta sbagliata, di scegliere e di non essere abbastanza

felice e perdermi, perdere me stessa.”

 

Mary scriveva incosciamente nel suo diario.

Mary era una di quelle ragazzine di 16 anni sempre distratte, le si poteva leggere negli

occhi marroni. Il suo modo trasandato di vestire la distingueva da quelle solite ragazzine

da film anni ’80. I suoi capelli nero corvino erano sempre legati, in una coda o in una

treccia semi-sciolta.

Non si curava molto di sé, odiava la gente che glielo ricordava, e chiunque la conoscesse

sperava che qualunque altra persona non glielo avrebbe imposto.

Quella mattina decise di alzarsi presto così da poter annotare queste strane frasi che le

ronzavano in testa.

Si sentiva cosi perché per la vita di Mary era arrivato quel momento in cui doveva

prendere una di quelle decisioni che avrebbe segnato in qualche modo la sua esistenza.

Quel giorno doveva fare il test per potersi preparare all’esame di maturità e come aveva

lasciato intendere una professoressa, si trovava all’interno del test una domanda sul

proprio futuro, e lei, che solitamente rimaneva basita a questa domanda, entrò nel panico.

Mary si era sempre chiesta quale fosse il motivo della sua nascita.

Lei credeva che ogni persona nascesse per un motivo, anche solo per fare il porta borsa

di una riccona o il mendicante.

Per lei ognuno doveva avere il suo posto nel mondo, e appunto per questo semplice

motivo aveva paura.

Niente le era andato bene e voleva capirlo.

Voleva capire se era lei che non si era impegnata abbastanza a cercarlo o se ancora non

fosse arrivato.

Fra l’altro desiderava che fosse quel qualcosa che avrebbe voluto raccontare, un giorno, ai

propri nipoti. Si chiedeva se mai si sarebbe sposata e se, infine, sarebbe diventata la

donna modello che tutti si aspettavano che lei diventasse.

 

Molto diversa da lei era la sua migliore amica Sophie. Lei, al contrario di Mary, era la ragazza di 16 anni che ha sempre odiato, sempre alla

moda, bionda, occhi chiarissimi, molto studiosa, ma anche molto popolare e sempre

ammirata dai ragazzi.

La cosa che invece le aveva legate, da sempre, era l’amore per la fotografia.

Di solito amavano fare lunghe passeggiate per catturare scatti imperdibili, e poi in

occasioni di festeggiamenti, regalarsi nuovi gadget per le macchinette che portavano

avanti la loro fantasia.

 

Poche ore dopo aver buttato giù i suoi pensieri, Mary sentì il bisogno di parlare con

Sophie, così provò senza sosta a contattarla, ma Sophie non rispondeva nemmeno a delle

banalissime chiamate.

Così, dato che doveva comunque passare da casa sua, scese da casa e prese le chiavi

dell’auto, per essere più veloce.

 

Mary salì nella sua piccola utilitaria e in quel piccolo tragitto non poté smettere di sentire

dentro di sé una strana sensazione, quella stessa sensazione che ti avverte dicendoti

:”ehi, stai in guardia, oggi non andrà tutto bene”.

Questo la fece preoccupare.

Pensò che avrebbe avuto qualche brutto incidente.

Deglutì e continuò il suo percorso, facendo attenzione anche alla più piccola mosca che le

si posava sul parabrezza.

Ma fortunatamente, arrivò sana e salva davanti al portone di Sophie.

Tirò un sospiro di sollievo e scese dal suo trabiccolo.

Appena scesa, Mary notò che l’auto dell’amica non c’era.

<<L’avrà presa suo padre…>>, pensò.

<<…o suo fratello…>> continuò, ed un suono gutturale le sgusciò dalle viscere dello

stomaco.

Mary provava una ‘certa simpatia’ nei confronti di Lucas, il fratello già maggiorenne di

Sophie.

 

Lucas era di carnagione biancastra, quasi sembrava fatto di porcellana.

”Cadaverico” avrebbe detto Sophie.

Occhi castano-scuri, sguardo quasi assente, capelli neri come il carbone, andatura molto

elegante e raffinata. Nell’istante in cui Mary lo immaginò, la sua mente quasi di scatto lo associò alla sua nuova

fidanzata, Chiara Mori; la tipica ragazza ”perfetta’ ma che viste le sue poche aspirazioni

terrene, Mary avrebbe comunque odiato e ritenuto una di quelle – che, anche se dolci con i

ragazzi – avessero tanta di quella puzza sotto il naso, che neanche riuscivano a sentire

l’odore del proprio profumo, per quanto forte potesse essere.

Le scappò un ghigno.

Quando Mary e Lucas si scambiavano il tradizionale ‘bacio in guancia’, i loro corpi erano

presenti, i loro occhi si incontravano, ma le loro menti erano assenti, persi in chissà quale

dimensione parallela a quella data.

Lei si era innamorata per quei semplici e insignificanti atteggiamenti che a volte Lucas

aveva, tanto da farle scattare dentro, quella scintilla d’Amore con la ‘A’ maiuscola.

 

Persi quei pochi istanti, Mary cercò di citofonare davanti alla grande villa, aspettando che

la sua amica le rispondesse.

Ma a risponderle fu Lucas, riferendole che Sophie era uscita di casa per andare da lei.

Rimasta un po’ confusa, Mary risalì in auto e andò a scuola, pensando che sarebbe

arrivata, prima o poi.

Durante la ricreazione Mary riprovò a chiamare Sophie, ma senza ottenere risposte. Così

chiamò Lucas…

Dopo pochi squilli, il ragazzo rispose.

 

-Dimmi Mary …

-Ehm.. sì, Lucas, hai notizie di Sophie? Sono preoccupata per lei… ho paura!

-No, Mary, non so niente di mia sorella. Anche noi siamo molto preoccupati, non abbiamo

notizie di lei da ieri sera. Credevamo che fosse venuta a dormire da te.

-Ma di cosa stai parlando?! Sophie non è mai arrivata ieri sera a casa mia!

Ci fu un momento di silenzio incolmabile, che sembrò durare un infinità.

-Bene!…- rispose Lucas, con voce rotta. – chiameremo la polizia…- e ci fu ancora quel

silenzio agghiacciante – Grazie dell’informazione!

-Lucas, aspetta …

-Mary, tranquilla. So che sei preoccupata per me e la mia famiglia, però stai tranquilla,

andrà tutto bene. Anzi, appena esci da scuola, ti aspetto a casa. Ora lo dico anche ai miei,

almeno se esco con la prima pattuglia disponibile, non si spaventeranno al suono del

campanello. -Va bene… sarò lì alle 13.00.

”Mary, vieni qui!” Una voce lì vicino la risucchiò fuori da quel turbinio continuo di emozioni

che le provocò quella telefonata.

-Mary, chi è? – continuò Lucas, con voce agitata.

Mary non sapeva cosa dire, tanta era la confusione nella sua mente stanca.

-Un ragazzo ti ha appena chiamato, Mary!

-Si, ehm.. il mio ex… Dai, su, devo entrare a lezione a dopo …

-Aspetta e chi …

Mary chiuse la chiamata, evitando così una successione d’eventi catastrofica.

Si sentì scossa della telefonata appena avuta con Lucas.

Non si aspettava un simile accanimento su una semplice voce.

Questo la confondeva.

 

Scosse la testa, come per cacciare via i pensieri, e cominciò a camminare su e giù per

l’aula, tentando di inviare messaggi a Sophie.

Dulcis in fundo, il telefono le segnalò la batteria scarica.

Imprecò e lanciò il cellulare sul banco.

-Mary…

Da dietro l’angolo si poté intravedere Marco, il suo ex fidanzato.

Marco era quel genere di ragazzo ispano-americano, che dopo chissà quante generazioni

credeva di sentire ancora quel “fuoco” della terra nativa che lo richiamava. E per questo

suo stupido atteggiamento, dava l’impressione, ai ‘nuovi arrivati’ che ancora non lo

conoscevano, l’idea del ragazzo ‘sangue caldo’ che tanto aveva -stupidamente- fatto

invaghire Mary.

I suoi occhi scuri e la sua carnagione olivastra dicevano poco, ma i suoi modi di fare,

invece, raccontavano tutto.

Dopo tutto quello che era successo nella loro breve relazione, Marco ancora provava

qualcosa, ma Mary ormai ricambiava le sue avance rispondendo con ‘Appartengo a

qualcun’altro’.

<Lucas> pensava.

 

-Hermosa! – disse, spavaldo, appoggiandosi alla cornice della porta.

-Marco…- improvvisò stupore – cosa ci fai qui? Sono a lezione.

-Cosa t’importa delle lezioni, se sei con me? -Marco, per favore, smettila!!– disse, cercando di camminare più velocemente possibile

per raggiungere il suo armadietto.

-Mary, non puoi negare o impormi di negare quello che provo!

-Ma io non provo quello che provi tu! Mi dispiace ripetertelo ancora. Sai che ci tengo

all’amicizia dopo la fine di un rapporto, ma l’unica cosa che posso provare per te è affetto.

Affetto fraterno. Per favore, lascia stare.

-Ok… – rispose, sorridendo – … posso anche sembrarti pazzo, pesante, o qualsiasi cosa tu

voglia, ma da qui – si toccò il cuore – anche volendo, non potrò mai strapparti! – proseguì

andando via.

 

Mary sprofondò in un limbo di pietà e negatività.

<<Come posso fargli questo? Come posso negargli di sentire ciò che sente solo perché io

ormai quasi nemmeno lo tollero? Che male può mai farmi, amandomi? L’unico problema,

l’unico ”male’ qui, sono io. Per lui sono un ricordo che come un coltello, taglia e scava

all’interno del suo cuore! Non posso continuare a fargli questo, forse dovrei andare via per

un po’ o magari cercare di allontanarlo… Ho trovato! Magari dovrei farmi detestare!>>

pensò, aprendo e chiudendo freneticamente il suo armadietto, sembrando quasi pazza.

 

Quella giornata scolastica finì così. Mary in preda al panico delle lezioni, preoccupata per

la sua amica.

Mary decise di non tornare ancora a casa dell’amica.

Troppi pensieri le attanagliavano la mente, ed egoisticamente, si concesse un sonno

ristoratore.

 

La mattina seguente, la sveglia suonò un’ora prima per Lucas, visto il suo tradizionale

jogging .

Prese le cuffie e l’mp3, e, facendo zapping tra le playlist, scelse una canzone dei ‘The

Mortal Instruments’, un piccolo gruppo rock-metal che era molto in alto nelle classifiche, e

corse per alcuni isolati.

Tornò a casa dopo una mezz’ora circa, fece una doccia e prese il cellulare – che

distrattamente aveva lasciato sotto carica per tutta la notte, tenendolo lontano da sé.

Lesse le varie notizie, come faceva ogni mattina.

Notò di aver ricevuto, nel bel mezzo della notte, un messaggio di un numero non salvato in

rubrica. Il messaggio diceva chiaramente: LUCAS, SONO SOPHIE, SMETTETELA DI

CERCARMI!! IO STO BENE. NON VOGLIO CHE LA POLIZIA SAPPIA DI QUESTO

MESSAGGIO!

SONO ANDATA VIA PERCHE’ VOGLIO RIFARMI UNA VITA LONTANO DA TUTTI E

NON VOGLIO NESSUNO, RIPETO, NESSUNO DI VOI ALL’INTERNO DI ESSA!

PER FAVORE , PER IL VOSTRO BENE, DIMENTICATEVI CHE IO ESISTO. IO L’HO

FATTO!!!

 

Alla lettura del messaggio, Lucas restò esterrefatto e cercò di richiamare il numero. Ma

invano. Il numero risultava inesistente, come se dopo quel messaggio, inviato la sera

precedente, fosse stata disattivata la scheda così da non potergli più dare la possibilità di

chiamare.

Lucas non seppe che fare, a parte partire ancora in una corsa sfrenata, a casa di Mary.

 

Suonò ripetutamente al campanello e dopo un paio di minuti Mary aprì la porta in pigiama,

con un nido al posto dei capelli e un umore poco socievole.

 

-Mary!- urlò. E le lacrime che scorrevano sul suo viso candido furono come un campanello

d’allarme per la serenità di Mary.

-Cos’è successo?. ..- Mary deglutì, pensò il peggio, ed il viso si fece paonazzo…

-Sophie… Sophie…- seppe dire, in un singhiozzo.

Le lacrime sgorgavano dagli occhi di Mary, come un fiume in piena.

-Sophie…- ripetè lui, deglutendo – Mi ha mandato questo messaggio questa notte…- Lucas

quasi tirò il cellulare nelle mani di Mary, tanto forte era la sua agitazione.

La ragazza lesse velocemente, quasi felice. <C’era ancora una speranza>

– Sai…-asciugò le lacrime -non me lo aspettavo da Sophie, non può essere stata lei a

inviarlo, non può! Non può lasciarci cosi, senza una spiegazione, un addio, un

arrivederci… Lei non è cosi fredda e calcolatrice, non lo è mai stata con me. Perché ora,

proprio ora, ha cominciato ad esserlo? Cascasse il mondo, io la troverò.

-No –disse Lucas, afferrandole il braccio – Dobbiamo rispettare la sua scelta-confessò –

non possiamo intrometterci così solo perché noi la vogliamo nella nostra vita, lei ha scelto

di vivere la sua senza di noi e noi dobbiamo rispettarla … anche se mi fa male pensarci, lo

ha scelto lei. Impedirò a chiunque di venire a conoscenza di questo. Avvertirò solo mia

madre. Piange da quando non si hanno più notizie. Del resto, in questo schifo di famiglia … -Nello stesso modo in cui Lucas era arrivato, se ne andò.

Lasciando Mary sola, a pezzi, emotivamente a pezzi.

 

Scuro.

Denso.

Sinuoso.

‘Il whisky non è la soluzione’, diceva la mia analista.

Tutte ipocrisie.

Ogni volta che entravo nel suo studio, era quasi palpabile, il fetore di quei bicchierini

misteriosamente spariti dalla sua bottiglia di “Jack Daniel’s” che teneva -e ci teneva a

puntualizzare- solo per esposizione.

Una persona esaurita, che ne analizza un’altra.

Sogghignai, e feci danzare sulla mia lingua ancora un goccio di quello che era il mio caffè

mattutino.

-Signor Brown…- Interruppe i miei silenzi assordanti la tirocinante che avevo appena

assunto, o per meglio dire,che mi avevano costretto ad assumere.

‘Lavorare a contatto con qualcuno, aiuterà’.

-Dimmi, Angie.

Una ragazza di appena 19 anni, minuta e biondina.

Timida agli antipodi del sopportabile.

-C’è un caso per lei.

Annuii, e con la voce tremante, Angie lasciò la stanza.

La porta scricchiolò, e si chiuse in un dolce silenzio, lasciandomi da solo, come amavo,

con la sola luce che filtrava dalla finestra.

L’unica gioia che restava in quella stanza.

La cartella sopra la scrivania rovinata, mi diede quell’unica spinta ad interrompere i

pensieri.

Quel giallino sbiadito, era come il mio lascia passare per delle disavventure peggiori delle

mie.

Era il mio ‘tranquillo, a qualcuno va anche peggio’, che portava avanti il mio cinismo e la

mia stupida saccenza.

Vantavo successi nel mio lavoro, stupendo mogli tradite, paranoiche, che pagavano il loro

peso in oro, pur di avere fra le mani almeno una, una sola prova del loro matrimonio fallito

per colpa delle paure. Stupivo padri che versavano sangue amaro sul loro stipendio settimanale per scoprire in

quale pub le proprie figlie andavano a guadagnarsi i soldi per le sigarette.

Stupivo perfino madri, che invano cercavano la pace di una perdita, rifugiandosi nelle mie

doti, perché secondo il loro modesto giudizio,’la polizia non era abbastanza brava’.

Loro stupivano me, ogni giorno.

‘Quanto si può pagare la disperazione?’

 

La storia era interessante.

Una diciassettenne scomparsa dai radar, che invia perfino un messaggio per fare ‘notare’

a tutti, il suo non volere essere ‘notata’.

Mi disgustava quanto l’essere umano potesse essere megalomane, il più delle volte.

 

Parcheggiai nel vialetto di casa Anderson e mi lasciai percuotere dalla bellezza di quella

villa.

La grandezza e la moltitudine di dettagli erano ben sufficienti a far intendere che il denaro

non era un problema.

<Sarà scappata perché il paparino non le avrà voluto regalare un’isola privata> pensai, e

mi disgustai al solo pensiero dell’avidità dei ricchi.

Il portone in legno massiccio non nascondeva l’omonima figura che si nascondeva dietro

la porta.

– Signora Anderson…- dissi piano, e la porta si spalancò.

 

Betty Anderson: donna curata, apparentemente molto soddisfatta della vita, piena d’oro

fino al collo e con un leggero velo di puzza sotto al naso.

-Signor Brown…- sospirò Miss Anderson.

-Sì, signora…-

-Mi chiami Betty – Mi interruppe in modo molto franco.

Feci un cenno col paco, e continuò.

-Non ho notizie di mia famiglia da giorni…- Miss Anderson scoppiò in un pianto silenzioso

ed io non seppi come aiutarla.

– Betty …- sospirai – piangere è l’ultima cosa da fare adesso.

Lei alzò il viso e capì che non c’era compassione nei miei occhi.

-Sì…- asciugò le lacrime e tirò su col naso.

-L’ultimo contatto con sua figlia?- presi carta e penna e misi in moto il cervello. -Due giorni fa, con quell’assurdo messaggio…- Cercò di mantenere un’aria professionale,

che si perdeva un po’ nello sbiadire del suo trucco.

-E’ successo qualcosa di strano nel periodo precedente alla scomparsa? Una lite con

papà, con un ipotetico fidanzato, un voto brutto?

-Mia figlia e Tom hanno un ottimo rapporto ed è la prima della classe…- Continuava a

stropicciare un foglietto di carta.

-Rapporti amorosi?

Sospirò in modo molto rumoroso.

-Mia… mia figlia non tiene molto ai rapporti di questo genere. Crede di essere ancora

molto giovane per i ragazzi- Betty fissò il vuoto, come se ci fosse qualcosa di non detto.

-Quindi… immagina il motivo di questa fuga?

Scosse la testa, mentre il suo sguardo non ritornava al suo posto.

– Betty…- la chiamai con voce cauta.

Lei alzò subito il capo, come se fosse stata appena colta in flagrante.

-Tutto quello che mi dirà, rimarrà fra noi

I suoi occhi fissarono a lungo i miei.

-No, signor Brown, penso sia tutto – sorrise e ricompose la sua figura.

– Sophie frequenta delle amiche…o pure…-

– Mary… Mary Portland.

E’ la sua migliore amica- mi interruppe subito.

-Perfetto…

Penso di non avere altre domande… – Mi alzai dal comodo sofà e mi diressi verso la porta.

Mi bloccai sull’uscio per un saluto e tornai all’auto.

<Va sempre tutto bene nelle case dei ricchi, vecchio e stupido Tobias> Mi concessi un

risolino, e montai in macchina.

 

L’indirizzo di famiglia Portland portava ad una stradina di periferia, dove vi erano case

piccole e anonime.

Un enorme abisso differenziava le due amiche.

 

Parcheggiai in strada, di fronte la casetta bianca e mi avviai verso la porta.

Suonai al campanello e dopo un paio di secondi, mi accolse in casa Portland una donna

alta e mora.

-Desidera?…- chiese, con tono autoritario. -Detective privato Tobias Brown.

-Ci penso io…- dalle scale si intravide una ragazzetta bassina e gracile.

– Mary Portland?- chiesi.

– Sì…- tentennò appena, ma senza nemmeno il bisogno di spiegazioni, mi fece

accomodare nel ‘rustico’ salotto.

-Ci sono novità di Sophie?…- non aspettò nemmeno un secondo prima di cominciare con

le domande.

-No…- risposi, mostrando come sempre un pizzico di fastidio.

La ragazza deglutì e accavallò le gambe.

-Da quanto non vedi Sophie?

-Da diversi giorni…

-Hai provato a contattarla in qualche modo?

-Le avrò riempito il cellulare di chiamate e messaggi vari – si interruppe per poi guardarsi le

ginocchia – ma senza alcuna risposta.

Sospirai e continuai con le domande.

-Sai se aveva dei problemi con qualcuno?

– Sophie era amata e ammirata da tutti.

Scuola, famiglia, ragazzi.. Non c’era nulla che non andasse nella sua vita. La cosa che più

mi disturbava era il non trovare alcun ‘disturbo’ nelle sue parole.

Ogni persona con cui parlavo, rispondeva in questo modo.

<La perfezione a quanto pare non è così perfetta> pensai, accartocciando di nuovo

l’agenda.

Avrei potuto torchiarli tutti per giorni, avrebbero sempre dato la stessa risposta, gli stessi

elogi, gli stessi connotati.

Quasi li sentisse qualcuno.

Quasi avessero ormai la certezza in tasca che i loro elogi l’avrebbero riportata a casa e

invece erano perfettamente consapevoli che non c’era più niente da fare.

 

 

I giorni passavano, i sospetti aumentavano.

Braccavo ogni pista possibile: dal professore depravato al giardiniere povero.

Nulla sembrava quadrare e questo mi faceva imbestialire.

I casi complicati mi intrigavano, ma questo non lo era.

<E’ solo una ragazzina ricca, scappata alle sue paia di scarpe. Cosa c’è da scoprire ancora?> pensavo.

Ma non quadrava nulla.

 

Dopo cinque giorni fitti di interrogatori e nessuna notizia apparente, rifeci il mio giro iniziale

di domande.

In casa Anderson le cose peggioravano e premevano sulle mie doti di indovino –

inesistenti – pur di trovare una soluzione a questo rompicapo.

Tornai in casa Portland dove ad accogliermi, fu come sempre Sasha Portland.

– Signor Brown…- Mi strinse la mano, ma non mi invitò ad entrare.

– Sua figlia è in casa?- domandai, dopo minuti interi di silenzio.

– No, è uscita un paio di minuti fa.

Ha detto di aver bisogno di un po’ d’aria .-

– Capisco…- sbuffai -Posso farle alcune domande?

Guardò interrogativa, ma poi mi fece accomodare con gentilezza.

– Cosa fa sua figlia nel tempo libero?

-Non capisco il motivo di queste informazioni…

– Signora Portland, ogni informazione potrebbe essere rilevante. Luoghi, gente e hobby in

comune, potrebbero dare luce a questo caso.

Tentennò prima di cominciare a parlare.

Mary e Sophie non avevano nulla di simile.

Luoghi e persone erano l’una agli antipodi dell’altra.

Sophie andava in locali pieni di gente e usciva con persone di alta ‘società’ come figli di

banchieri e di grandi imprenditori.

Mary, invece, frequentava la parrocchia cittadina e faceva volontariato per i senzatetto.

Niente le accumunava, se non la fotografia.

 

Dopo l’ennesimo bicchiere d’acqua, l’impellente bisogno di andare al bagno interruppe la

chiacchierata.

-..in fondo alle scale a destra..- mi indicò Sasha.

 

Tirai l’acqua, lavai le mani e uscii dal bagno.

Proprio di fronte al gabinetto, c’era la cameretta di Mary con la porta aperta.

Guardai giù per le scale: <la signora Portland non mi sentirà> pensai, prima di investigare

più a fondo nella vita di una sedicenne.

La stanza era dipinta di un azzurro chiaro, le tende erano di un colore magenta molto

accesso e le mura erano cosparse di foto, poster e disegni.

Il letto era ordinato ma i vestiti erano sparsi per tutta la stanza ed infine, ad attrarmi più di

tutto fu la specchiera che vi era di fronte al letto: era una scelta particolare quella di

inserire uno specchio di fronte al proprio letto.

<Non l’ho mai pensata una ragazza felice di vedere se stessa appena sveglia>

Lo specchio era pulito fin nei minimi dettagli, come se l’avessero lucidato poco prima.

Sul comodino sotto, però, un foglietto bianco attirò la mia attenzione.

Quei tipici foglietti bianchi e rigati di verde acqua erano tipici di chi aveva appuntamento

con uno psicologo privato.

Decisi di annotare il nome e di procedere secondo il mio metodo di investigazione.

 

Erano passati dieci giorni ormai, dalla scomparsa di Sophie, e Mary segretamente

cominciava a perdere le speranze.

Era intenta a guardare le ultime foto scattate che ritraevano lei e la sua amica, quando

notò in lontananza quella vecchia casa dove erano solite entrare quando cercavano di

scappare dal mondo intero.

Mary stava ancora guardando quella foto, ma qualcosa le diceva di andare dalla sua

amica, qualcosa le diceva che la sua amica era là, forse era il suo sesto senso o forse

erano solo delle voci …

 

Mezz’ora dopo Mary si trovava davanti alla porta di quella vecchia casa, quella stessa

casa che era stata di loro conforto quando avevano litigato con le loro famiglie e si erano

nascoste lì per due giorni. Ricordava quella casa come se fosse stata la sua casa delle

bambole.

Salì le scale della casetta sgangherata e malandata che considerava comunque parte

integrante della sua vita.

 

Alla sua vista appariva un corridoio lunghissimo che portava a tante stanze in entrambi i

lati. Quando stava per addentrarsi in una di esse, Mary sentì un rumore provenire da una

delle stanze di sinistra, così camminò svelta verso la camera, precisamente la settima

stanza a Nord.

Stava per aprire la porta, quando risentì un rumore, questa volta non era un singolo colpo secco, ma un tintinnio che andava attenuandosi sempre di più.

Così, cercando tutto il coraggio che non aveva mai avuto, poggiò la mano sopra la

maniglia.

Un gran dolore alla testa la pervase, e poi, fu come fare un tuffo nel passato.

 

Era a casa di Sophie, distesa sull’erba morbida del giardino, con la sua Nikon in mano,

speranzosa di catturare chissà quale meraviglioso momento che la natura aveva da

offrirle.

 

Mary guardava ancora il cielo e non facendoci molto caso cominciò a guardarsi intorno

alla ricerca di qualcosa da fotografare, qualsiasi cosa da fotografare. .. – Guarda, Sophie –

disse – guarda quelle formiche.

Mary velocemente si avvicinò e, senza farsi accorgersene dall’amica, scattò una foto con

la sua Nikon. Mary aveva appena fotografato un gruppo di formiche che uscendo dal

formicaio erano andate a raccogliere la loro vittima appena uccisa. Avevano ucciso un

punteruolo rosso, sgozzandolo, così un gruppetto portava la testa, mentre l’altro stava

ancora dilaniando il resto del corpo mozzato.

Sophie non aveva capito ancora perché Mary avesse fatto quella foto, ma anche inorridita

dalla scena appena catturata, tornò a guardare il cielo che stranamente l’attirava. Anche

Mary dopo aver guardato la foto tornò a sdraiarsi sull’erba fresca. Subito dopo voltò il capo

verso Sophie. I suoi lunghi capelli biondi le incorniciavano il viso e quella silhouette le

risaltava le curve.

Sophie era quella meraviglia che Mary non sarebbe mai stata.

Aveva tutto: amici meravigliosi, una famiglia ricca, dei genitori amabili, molti ragazzi che

avrebbero pagato oro pur di passare una sola notte con lei, e poi, beh, poi aveva Lucas.

Il sogno della sua vita.

Il bel tenebroso che aveva sempre segretamente amato.

<Che cosa da sfigate> pensò, ed un respiro gutturale le portò alla gola una brutta

sensazione, come un vomito d’acido.

-Sophie, prendo qualcosa da bere – si alzò da terra e Sophie le fece cenno di sì.

 

Pochi passi e fu in cucina.

Si versò un bicchiere d’acqua e, a piccoli passi, stava per tornare in giardino.

Dei bisbigli le fecero drizzare l’udito. Mary era sempre stata una ragazza molto curiosa, quasi ficcanaso, e non poté fare

altrimenti che avvicinarsi a questi bisbigli.

La sua curiosità la portò nella stanza accanto, dove da uno spiraglio, ascoltò tutto quello

che poteva ascoltare.

 

– Tom, no, non possiamo più tenerglielo nascosto…- Era la madre di Sophie.

– Betty, non dire sciocchezze…- Il padre di Sophie, era seduto nel suo studio, e stringeva

forte fra le dita il giornale del mattino.

– Sciocchezze? Hai perfino il coraggio di chiamarle sciocchezze? Li abbiamo trovati a letto

insieme, capisci Tom? A letto, insieme – sbatté piano i pugni sulla scrivania del marito e

scandì bene le ultime parole.

-Non osare più pronunciare queste parole!- Tom lanciò il giornale verso il muro e si alzò,

non aveva un’aria serena.

Betty cominciò a respirare in modo affannoso, quasi stesse per soffocare.

-Non è mia la colpa…- Tom si mise le mani al viso, coprendosi gli occhi. -Tu hai deciso di

dirglielo…- Si sedette di nuovo e stavolta si chinò su se stesso.

– Facevamo del male ai nostri figli in questo modo Tom, li facevamo soffrire…-

-Per una stupida cotta tra ragazzini, hai rovinato una famiglia Betty…-

– Cotta? Una ragazza di 16 anni non dovrebbe provare attrazione per il proprio fratello!-

Betty cominciò a singhiozzare, stavolta forte.

– Ma non è suo fratello, Betty, è questo il punto! Non è nostro figlio!

Mary sentì solo uno schiaffo, dato in modo violento.

-Non dire mai più una cosa simile. Lucas è nostro figlio tanto quanto Sophie! – Tom si

portò una mano al viso, sentendo il calore dello schiaffo e la freddezza delle lacrime.

-La verità è che non lo è davvero. Non è sangue del mio sangue, o del tuo, o di quello di

Sophie. Lucas è stato adottato!- Il signor Anderson scaraventò la sedia per terra e indicò

in malo modo Betty.

– E tu, proprio tu che credi tanto nella famiglia, hai deciso di confessare tutto solo perché

tua figlia aveva una cotta per qualcuno che in fondo non appartiene al nostro DNA. Vedi?

Vedi qual è il risultato? Adesso vanno a letto insieme, perché in fondo non sono fratelli,

per loro non c’è niente di innaturale in questo- sbatté ripetutamente i pugni al muro.

 

Mary venne catapultata di nuovo nel presente.

La prima cosa che vide fu il suo viso, riflesso allo specchio in fondo alla stanza. Non si riconobbe, non riconobbe il suo viso.

Non sapeva chi fosse quella ragazza con la testa piegata su un lato, che sogghignava,

quasi ridendo delle disavventure altrui.

Cercò le sue pilloline gialle che l’avevano sempre accompagnata nei momenti più bui.

Sua madre diceva che con quelle i brutti pensieri sarebbero andati via.

<Con queste ritorneranno i pensieri belli> così, diceva sua madre.

 

Il traffico di Londra poteva essere pericoloso a volte, specialmente se si ha un caso di

omicidio da risolvere.

Le volanti della polizia erano già arrivate sul posto e nonostante tutti chiedessero delle

spiegazioni, io sapevo già tutto.

<Soffre di schizofrenia, prende delle pillole, ma a volte non bastano.

In questi giorni è venuta più volte e quando le chiedevo di dare forma ai suoi pensieri con

la pittura, lei dipingeva una casa, una stanza, una figura con lunghi capelli biondi appesa

per i piedi al soffitto…ed il pavimento sommerso di sangue.> Ricordavo con amarezza le

parole dello psicologo e l’odore del sangue era già pungente.

L’ambulanza portò via il corpo dissanguato della povera Sophie, sgozzata come un maiale

per la gelosia di una schizofrenica.

 

La signora Anderson aveva parlato: i suoi figli avevano una relazione e a quanto detto

dallo psicologo, Mary ne era a conoscenza già da tempo.

La ragazza urlava, sgomitava e continuava a piangere sul pavimento della casa e

nonostante i medici e le urla strazianti della famiglia Anderson, quelle di Mary sembravano

contenere molto più dolore.

 

Restai allibito dinanzi alla differenza che le cose potevano assumere: la ragazzetta ricca

era la vittima di genitori immaturi per essere definiti tali, di un amore che non rientrava nei

canoni di ‘famiglia’, di una società che l’aveva portata ad essere un mostro di indifferenza.

Mentre la ragazza che sembrava la fonte perfetta di verità, si era dimostrata una crudele

psicopatica troppo complessata perché delle pillole potessero fermarla.

Ma Mary Portland era solo una delle tante colpevoli di quell’omicidio: era solo la povera

pazza di turno che aveva personificato tutti i mali dell’amica.

Era la colpevole della morte del corpo della povera Sophie, ma ad ucciderle l’anima, ci

aveva già pensato qualcun altro.