L'angolo dello scrittore

L’Italia e le sue colonie. Axum, per non dimenticare

Amani – 6 Maggio 2011

Dopo la Libia, l’Etiopia. Nell’estate del 2008 l’Italia ha concluso un’operazione politica e simbolica con un’altra delle sue ex-colonie. Axum, Etiopia, 5 settembre 2008: c’erano trentamila persone con il naso all’insù a guardare due bandiere – quella italiana e quella etiope – che venivano giù e lasciavano scorgere, tra le impalcature, la stele. Tornava nel luogo originario un monumento che rappresenta molti dei legami tra l’Italia e l’Etiopia: quella pietra di basalto è un pezzo di storia che punta dritto al cielo, alto 24 metri e pesante 160 tonnellate, antico di forse 1.700 anni, trafugato dagli italiani nel 1937 per festeggiare il quindicesimo anniversario della marcia su Roma e – nella retorica celebrativa fascista, che pretendeva di equiparare l’impero di Mussolini a quello degli antichi romani – il bimillenario di Augusto. È stato restituito alle autorità di Addis Abeba solo nel 2005, dopo lunghissimi negoziati diplomatici e tecnici; poi ci sono voluti altri tre anni per erigerlo nel luogo originario.

La stele di Axum non è solo un monumento: è un pezzo d’identità. Perché l’Etiopia è un universo di simboli, un concentrato di storie, culture, religioni che si è stratificato, secolo dopo secolo, come una pietra. Come una stele. Da un territorio vasto oltre un milione di chilometri quadrati, sprigiona un fascino che ha in più modi avviluppato gli esploratori di ieri, i viaggiatori e perfino i turisti di oggi. Con un elemento comune: la religiosità.

D’altronde Axum viene considerato da molti etiopi il luogo dove sarebbe stata conservata la biblica arca dell’Alleanza; l’antichissima tradizione cristiana, orgogliosa e per molti secoli isolata, è una caratteristica di tutto il Paese; e poi c’è Lalibela, la Gerusalemme d’Africa, con le sue chiese scavate nella roccia.

La religiosità etiope si intreccia anche verso Israele e – con un balzo geografico e storico, quasi impensabile – verso la Giamaica: i falascià sono ebrei neri e africani che la tradizione riporta ai viaggi e agli amori tra il re Salomone e la regina di Saba: oggi moltissimi sono tornati a casa, in Israele, non senza difficoltà (lo splendido film Vai e vivrai, del regista Radu Mihailenau racconta la storia di un bambino etiope portato in Israele). Gli ultimi 65 falascià, alla fine di un programma di rimpatrio, durato oltre trent’anni, sono arrivati in Israele nell’agosto 2008.

E ancora: in Etiopia vi è un testo sacro, il Kebra Nagast, che è stato adottato dai rasta della Giamaica, i quali a loro modo, venerano tanto l’imperatore etiope Hailè Selassiè che ha combattuto gli italiani, quanto Bob Marley, qualcosa di più di un cantante reggae.

È curioso che, mentre i responsabili della nostra diplomazia vanno in giro per l’Africa a chiedere perdono per i crimini coloniali fascisti, in Italia ci sia – anche a livello istituzionale – chi discute e distingue sui mali più o meno assoluti del fascismo. Nel 1935 Mussolini decise di attaccare l’Etiopia, che era, fra l’altro, anche l’unico membro africano della Società delle Nazioni (l’Onu del tempo) e il 15 ottobre il II corpo di armata entro ad Axum. Nel maggio 1936 Mussolini poteva gridare a Roma che anche l’Italia aveva il suo impero. Nel frattempo gli italiani avevano ucciso, razziato e bombardato gli etiopi. Lo storico Angelo Del Boca ha dedicato la maggior parte della vita e della propria opera a sfatare il mito degli “italiani brava gente”, portatori di un colonialismo dal volto meno crudele di quello di altri paesi europei, scontrandosi per decenni contro il negazionismo dei reduci prima e le tendenze revisioniste di storici e politici, poi.

Qualcuno vorrebbe rimuovere e molti ignorare questo pezzo della nostra storia; un esempio basti per tutti: nel 1937 a Debre Libanos i soldati italiani uccisero per rappresaglia almeno 1.600 persone, in gran parte monaci e pellegrini.

Il 5 settembre 2008 il presidente etiope Girma Wolde Giorgis, che aveva 11 anni, quando i soldati italiani invasero l’Etiopia, ha spiegato che “il ritorno dell’obelisco, rimargina le ferite del passato”. Ma rimarginare non significa gettare nell’oblio il passato. La stele di Axum è tornata a casa anche per non farlo dimenticare.