I racconti del Premio letterario Energheia

Il testamento di Heiligenstadt_Stefania Contini, Cagliari

_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia 2000.

 

Il cavallo nero avanza e inghiotte un pedone sfinito, come vedi non ho perso la mano, dannato amico mio, è maledettamente strano ritrovarsi su questa nave a parlare del più e del meno e per di più giocando a scacchi, come ai vecchi tempi, ma te li ricordi, dannato amico mio?

I nostri vecchi tempi, voglio dire.

Grazie, sì. Un sorso di buon vinello. Basta così.

Dunque stai tornando da un convegno di astronomia, ma guarda un po’ tu, un tempo le pulsar e le nubi di Oort ti erano in odio come il diavolo l’acqua santa, ma come no, non eri tu quello che giocava a scacchi per mantenere il tuo nasone porroso e bitorzolato sottomesso alle leggi di gravità? E c’è stato un periodo in cui volevi scrivere un trattato dal titolo “La fisica applicata agli scacchi”, sottotitolo inquietante: equazioni matematiche e calcolo delle probabilità di vittoria quando il bianco perde i due alfieri, una cosa mostruosa, Dante, dunque adesso ti sei arreso, e meno male.

Mossa intelligente, vecchio mio, detesto i giocatori che si arroccano in difesa e che non muovono mai le torri, allora, che accidenti mi racconti, certo. Che dici?

Se sono un po’ triste? Bah, che diavolo vuoi che ti dica,certo: con questa pancia straboccante e questo doppiopetto butirroso e ‘sti quattro peletti impomatati all’indietro per non far vedere che sono quasi calvo, certo, diciamo che non sono felice, e comunque l’unica cosa che mi rende allegro è che sto tornando a casa dopo due mesi di trasferta.

Proprio così, a Praga.

Ero a Praga, sì.

Conosci la storiellina che gira su Paul Morphy, il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi, quello che poi uscì fuori di testa, proprio lui, ascolta: Morphy contro Paulsen, all’epoca negli incontri non si usavano ancora gli orologi, siamo a metà dell’Ottocento circa, ma c’è qualcosa che non va e quei due rimangono zitti e fermi come cretini per undici ore di fila, ho detto undici, allora Morphy – che probabilmente si sta rompendo le balle e che non ne può più eccetera eccetera – guarda l’altro con aria inferocita e l’altro, senza scomporsi, dice: “Non dirmelo. Toccava a me?” Sì, certo che sto lavorando ancora lì,  aspetta un momento però ti stai distraendo, vecchio mio, hai aperto una falla a centrocampo, hai divaricato le cosce come una puttana, guarda il mio alfiere, piazzato in mezzo ai due cavalli neri quale dei due vuoi mollare, eh, vecchio? Sì, sto lavorando sempre lì, e che diavolo vuoi che faccia altrimenti, ho qui pronto un pezzo dal titolo

“Tracce di cultura jazz nei canti dei Mbuti africani”, e scusami ma credo di non aver capito bene.

Il mio violino. Ma vuoi scherzare?

Io non lo so, a volte ti vengono in mente delle idee strane, lo sai che non lo tocco più da dieci anni e sai benissimo che è tempo sprecato, lo uso solo per insegnare ai bambini la domenica pomeriggio, ma che fesserie, ma non che non sono ubriaco per questo, anzi, facciamoci un altro bicchierino di Barolo, ecco qua, e adesso muoviti che tocca a te.

Non sono zitto. E’ che tocca a te.

E va bene e va bene che diavolo vuoi che ti dica sono triste per via del viaggio sono così giù che se potessi mi farei un tuffo nel Letè tanto a te non sono riuscito a nascondere mai nulla nemmeno quando mi piaceva tua cugina e tu a sputtanarlo davanti a tutti e certo che c’entra la musica e tutto il resto però adesso aspetta, fammi parlare, se te ne stai zitto e ti calmi forse te la racconto, la mia storia, okkey?

Dunque, vediamo. Hai mai sentito parlare del Testamento di Heiligenstadt? “…tuttavia non mi riusciva di dire alla gente parlate più forte, gridate:perché sono sordo” e bla bla bla. Il testamento di Heiligenstadt, mai dimenticato.

E come diavolo farei a dimenticarlo. Qualche tempo fa è entrato nel mio ufficio il direttore, un gran seccatore, quello, un vecchio sui sessant’anni con una corona di ciuffetti unti e giallicci sul cranio e le borse livide sotto gli occhi da miope, io stavo finendo di scrivere un articolo che mi pareva interessante, l’influenza della musica fiamminga nell’Europa del nord, quando ad un tratto quello sputa il sigaro per terra e mi dice muovi le chiappe che si parte, ti aspetta un aereo domani a mezzogiorno, destinazione Repubblica Ceca, voglio che tu segua il festival della Primavera di Praga, e mi raccomando con i pezzi: concisi e asciutti come sempre.

Io ho alzato gli occhi dalla mia Olivetti lettera 35 e ho detto: non posso.

Che diavolo significa, non posso?

Significa che non posso andarci perché quest’anno suona un tizio che io non…

Santa. Pazienza. Santa, ancora con questa storia. Qui.

Maamenonmenefregaunaccidentedichinonvuoivedere, io so soltanto che ti pago la trasferta e ti mollo pure due milioni in più puliti puliti e adesso voglio che tu muova il culo da quella sedia e che parta domani stesso per Praga, mi sono spiegato?

Eccome no. Albergo Koruna, due settimane prenotate, vicino al Teatro Nazionale. Il primo giorno ho seguito il Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35 di Tchaikowskj, che è un’opera stupenda ma facciamo che non lo dico. Secondo posto in parterre, completamente solo. Per l’occasione avevo comprato un costume du soir di lino color fumo di Londra, ma mi sentivo tremendamente a disagio con quelle code di rondine che mi ciondolavano sotto il sedere, mi facevano sentire un vecchio cretino a cavallo del secolo, un po’ Gattopardo e un po’ romantico-decadente.

Ad ogni modo, quella sera suonava lui. Evgenij Evtushenko. Lo guardai con attenzione, in fondo è per lui che non volevo venire. Osservai le sue mani straordinariamente lunghe e nodose che muovevano l’archetto come se fosse un prolungamento naturale delle dita, il busto eretto e disciplinato, le sopracciglia cespugliose che gli invadevano la fronte sudata. Osservai i suoi occhi sempre piegati verso il basso, non li rialzava neppure quando gli piovevano in faccia le frequenze sincopate degli applausi, bravi bravi bis e lui sempre lì, immobile come una statua di gesso, a contemplare le sue scarpe lucidate di fresco e con la punta laccata di bianco. Una cosa pazzesca. Finito il concerto sono schizzato fuori in strada e ho comprato una bottiglia di Primatorske. Ottimo per annacquare gli umori. Ho lasciato che le mie scarpe mi portassero in giro per Praga, non importa dove, così sono finito nello Starè Mesto e lungo le rive melmose della Moldava, succhiando il collo della mia bottiglia di vino.

Dannato signor direttore, che quel tuo giornale di merda vada a farsi sfottere domani stesso, che precipiti negli abissi della bancarotta. Dannato Evtushenko.

Io che mi sono preso una nevrosi dopo le dieci ore al giorno che dedicavo a pizzicare le corde del violino io che c’ho un callo orrendo appena sotto il mento io che non sono nemmeno riuscito ad entrare nella formazione del teatro lirico io che mi sbuccio le unghie a forze di insegnare ai bambini come si tiene un violino e come si suona e perché si suona, io che. E quello lì che a ventisette anni è entrato nella Tonhalle di Zurigo e poi nella Filarmonica Ceca come primo violino.

Bella roba. Ed io che mi sono dovuto inventare un lavoro come critico musicale per un quotidiano di provincia che c’ha gli uffici pieni di topi e le pareti che puzzano di piscio di cane.

Ho deciso di rientrare in albergo e ho fatto una telefonata al direttore, tutto bene il primo pezzo glielo mando domani via fax, e poi, mentre stavo per entrare nella halle, ho visto un gruppo di uomini fermi davanti ad un locale stile liberty praghese con le luci azzurrate, e sono entrato. Indovina un po’, dannata volpe che sei: un circolo scacchistico. Non ci volevo credere. Ho chiesto un tavolo e mi hanno indicato un uomo che aspettava uno sfidante da più di due ore. Allora sono andato da lui, ho ordinato una bottiglia di Becherowka e gli ho chiesto se potevo sedermi.

Prego, si segga e non ha detto altro. Aveva un cappello di feltro bianco con le falde completamente abbassate sugli occhi. Io ho versato il vino sui bicchieri e quello ha spostato immediatamente un pedone in avanti. Caspiterina, allora si fa sul serio, ho detto. Ho fatto la mia mossa preferita, cavallo sinistro piazzato davanti alla regina, e mentre guardavo quel viso massiccio tagliato a metà, quelle labbra carnose, non so perché ma pensavo: io questo qui l’ho già visto da qualche parte, vediamo se riesco a ricordarmi dove, e mentre rimuginavo nella mente all’improvviso lui mi dice: comunque non è lei che stavo aspettando, mi ha detto proprio così, non è lei che stavo aspettando, ad ogni modo resti pure dov’è, un bicchierino di Becherowka non si rifiuta mai. Si è sollevato il cappello di trequarti sulla fronte e per poco non mi veniva un colpo apoplettico. La prima impressione è stata: ci vedo male, Ludwig van Beethoven, ma va’ là, quello lì è crepato da un pezzo, lo sapevo io che intorno ai cinquant’anni l’arteriosclerosi inizia impietosa a produrre i suoi effetti, un altro sorso di vino, coraggio, un sorso grande così, su. Poi mi sono fermato, ho riflettuto un istante – nel frattempo lui mi ha bruciato con un en passant – e quando ho visto uscire dalla penombra soffusa le sue mani tarchiate, pelose e con le dita piatte, il mio bicchiere. Mi è scivolato. Giù.

Dalle mani.

Era lui.

Klaus Ptacha.

Non dirmi che non ti ho mai parlato di lui. Il più grande pianista del mondo. Me lo ricordo ancora, quando giravo l’Europa con un quartetto d’archi, avevamo messo su un gruppetto per suonare nei locali di Roma e ogni tanto ne approfittavamo per spostarci all’estero, e una volta siamo finiti anche lì, a Praga, e mi ricordo quando giravo nello Starè Mesto alla ricerca di qualche stupidaggine da comprare, mi piaceva arrivare fino al mercatino delle pulci o al mercato della Città vecchia di Havelsky Trh, e come diavolo potrei dimenticarlo, l’ho visto per la prima volta lì, dentro un negozio di cianfrusaglie poco lontano dalla Moldava, dove un vecchio rigattiere con la cispa sotto gli occhi vendeva un po’ di tutto, dalle finte porcellane di Meissen a fermacarte di vetro, cartoline ingiallite e vecchie caffettiere in ottone, e Klaus Ptacha era lì dentro, io stavo comprando un finto Stradivarius e all’improvviso ho sentito le note di un pianoforte scordato che provenivano dal retrobottega, e ci sono rimasto malissimo, le dita scivolavano sui tasti con una leggerezza impressionante, saltavano le ottave inseguendo suoni a volte inascoltabili e aspri, a volte sorprendenti.

Diamine d’un boia, suonava come se ci fosse nato, sul piano.

Quella sera Klaus ha le mani sudate e si guarda sempre intorno, avvisami quando vedi entrare un uomo sulla quarantina, mi ripete in continuazione, stempiato e con la pelle butterata, indossa, quasi sempre, una sciarpa bianca e un gilet blu sotto una camicia color crema, ed io lì a fissare l’entrata come un cretino, ma chi diavolo è, gli ho chiesto, lui ha spostato la regina in avanti e senza scomporsi ha detto: Alexander Nimitov.

Ho portato Klaus con me. A Roma, voglio dire. Quando era ancora un ragazzino. L’ho iscritto al Conservatorio e gli ho comprato uno Steinway a coda. E’rimasto a casa mia per poco più di un anno e dovevi vederci, Dante, io col violino e lui che mi veniva dietro inanellando note una dietro l’altra, tutti i santi pomeriggi così, soltanto che ad un certo punto è cambiato tutto, più andava avanti e più Klaus non riusciva a staccarsi dal pianoforte, se ne stava accovacciato sulla tastiera per otto ore di fila e se sbagliava il tempo di una nota ricominciava tutto daccapo, ed io che gli dicevo Klaus alzati da lì, adesso basta, fatti una doccia perché puzzi di sudore marcio, Klaus mangiati le tartine al burro cazzo rispondi o ti levo quell’accidenti di piano, cose così, insomma.

Ogni giorno mi guardavo allo specchio e mi dicevo sei stato grande, vecchio Aldo, hai avuto un fiuto eccezionale perché quel ragazzino suona dannatamente bene, suona meglio di chiunque altro, soltanto che gli devi dire di non esagerare perché alla sua età ci sono anche le pivelline e c’è il cinema e ci sono i porri, e c’è.

Ma la situazione mi è scivolata dalle mani dopo una serie di concerti che avevo organizzato in Germania; lui insisteva come un matto perché lo portassi ad Amburgo, a vedere la Stadtbibliothek, ma che diavolo ci vai a fare lì dentro, gli dicevo, e se solo adesso ci penso, se l’avessi saputo prima. Il testamento di Beethoven. “…che umiliazione quando qualcuno che è di fianco a me può sentire un flauto lontano, mentre io non riesco a sentire proprio nulla…” eccetera, eccetera.

Il testamento di Heiligenstadt.

Io non lo so che diavolo gli è successo, se provo a ragionarci vado di matto col cervello, ma da quel giorno Klaus ha iniziato a perdere la testa; durante la notte lo sentivo parlare da solo, ripeteva spesso che non riusciva a crederci, che non era possibile che un musicista sordo – che non ci sentiva un ficco secco se non usando uno dei suoi tanti cornetti acustici – che non era possibile che uno come lui fosse riuscito a scrivere i Quartetti Razumovskj e tutta quell’opera demoniaca e celestiale insieme, non riusciva proprio a capacitarsene, è come dire che Picasso disegnava con i denti, ecco, questo lo diceva spesso, e raccontava che gli amici di Beethoven erano costretti a comunicare con lui per iscritto, caro Ludvig hai la idropisiae devi startene a letto, e lui che rispondeva su un pezzo di cartacaro Karl puoi indicarmi un bagno o la faccio qui subito, e questo lo faceva ridere come un matto, rideva così forte che le ganasce scricchiolavano e sembravano decomporsi, poi sedeva al pianoforte e d’un tratto, mandando al diavolo il suo stile limpido e scientifico, iniziava a suonare d’impeto, calcava le dita sui tasti come se fosse invaso da una rabbia schiumosa e parossistica, non rispettava più i tempi, rompeva gli schemi.

Nell’ultimo periodo si era fatto crescere i capelli e se li lasciava annodati sulle spalle, faceva delle innumerevoli abluzioni quotidiane e beveva quantità enormi di caffè, girava per la città con addosso pantaloni e scarpe bianche e una marsina di stoffa blu con i bottoni metallici, e frequentava un locale della periferia, dove pretendeva che gli servissero maccheroni e luccio del Danubio con contorno di patate lesse e tokay delle colline di Buda. Ogni tanto lo vedevi seduto su qualche panchina che parlava da solo e blaterava parole senza senso, e alle persone che si avvicinavano chiedendogli se avesse bisogno di un’ambulanza lui gridava: voi non sapete chi sono io. La gente stava iniziando a ridere di lui e a dire che c’aveva le rotelle fuori posto e che bisognava evitarlo, un tipo così. Naturalmente fu espulso dal Conservatorio.

Ma non sembrava che gliene importasse molto. A lui, voglio dire. Mi ripeteva cantilenando che non dovevo più rompergli le scatole e che dovevo lasciarlo in pace, perché aveva in mente di fare qualcosa di grande e presto se ne sarebbe andato.

Un goccetto di Barolo, Dante, versa qui, così faccio anche una piccola pausa. Ne approfitto, sai com’è.

E chi diavolo sarebbe questo Alexander Nimitov, gli ho chiesto, chi diavolo sarebbe? Klaus mi ha guardato con una strana luce in fondo agli occhi, il più grande giocatore di scacchi della Russia meridionale, ha sussurrato, dicono che abbia battuto perfino Boris Spassky nel salotto di casa sua. Naturalmente Spassky nega. Mai perso un incontro in vita sua. Circolano delle strane voci su di lui, dicono che sia nato con una patologia all’orecchio e che proprio per questo suo padre decise di insegnargli a giocare a scacchi. A tredici anni passa in terza categoria. Dicono che sia in grado di governare fino a sessanta istantanee e che organizzi almeno quattro incontri al giorno. Ogni sera.

Vincere è per lui come fare pipì, una cosa naturale, e pensa un po’ tu che cosa significherebbe per lui una sconfitta, prova ad immaginartelo nel momento in cui sta per ammettere a se stesso che questa volta ha perso, che non c’è più niente da fare, ed è tutto un mondo che ti crolla addosso, gli psicanalisti direbbero che ha un conflitto infantile irrisolto e che il gioco rappresenta per lui la rivincita freudiana sul padre, su quel Re che è il pezzo più importante di tutta la scacchiera ma che è anche il più inutile, un po’ come Bobby Fisher, hai presente?

No che non ho presente, gli dico, e non ho capito neanche che cosa c’entri tu con quell’uomo.

Eccolo, è arrivato. Klaus mi ha guardato distrattamente e si è alzato, provo a batterlo, mi ha detto semplicemente, ed io ho sentito una rabbia sovrumana che mi stava divorando il cervello, gli ho afferrato un polso e gli ho gridato siediti e apri bene le orecchie, se avessi un briciolo di coraggio ti mollerei un ceffone, io dico che ti sta dando di matto il cervello, Klaus, piantala con questi scacchi, mi dici che accidenti ti è preso? La musica, ragazzo, ricordi cos’era per te la musica, e a proposito vorrei sapere che fine ha fatto il tuo Steinway a coda, l’hai venduto, che diavolo significa che l’hai venduto? Significa che non suoni più?

Lui ha sorriso in modo violento fissando le mie labbra in continuazione, non ho detto questo – balbetta – mi servivano i soldi per pagare delle lezioni di scacchi, è da due anni che mi preparo a questo incontro, Maestro.

Sì, maestro un accidente, sentimi bene ragazzo mio, forse è meglio se vieni un’altra volta con me, ti faccio conoscere mia sorella che è anche un’eccellente arpista e ti prometto che magari riprenderò a suonare anch’io, pensa tu che roba, noi tre in giro per l’Europa, coraggio, vieni con me, Klaus Ptacha. Non fartelo ripetere due volte.

Lui si gira di trequarti e corruga la fronte, mi chiede se posso parlare più lentamente perché altrimenti non ci capisce niente, e solo dopo un po’ mi risponde no grazie, non questa volta, ho un progetto più importante da portare a termine, e adesso scusami ma tocca a me.

Ha buttato giù l’ultimo sorso di vino e si è spostato al tavolo di Nimitov.

Io ho ordinato una bottiglia di whisky e mi sono avvicinato, e così hanno fatto una decina di persone, dicevano che il russo attirava come il miele le api e che non si sarebbero persi quell’incontro per niente al mondo, e insomma, credo di non aver mai visto nulla di simile, in tutta la mia vita, quattro ore e mezza, Klaus non faceva altro che fissare gli occhi di Nimitov per quattro ore e mezza, muoveva i pezzi ostentando una sicurezza maniacale, la stessa che aveva quando si metteva al piano e suonava quella musica impossibile, mentre quell’altro no, quell’altro non staccava il muso dalla scacchiera e sembrava che non gliene importasse niente di chi aveva di fronte, appoggiava il mento su un pugno chiuso, guardando me, così, per vedere i pezzi alla loro altezza attraverso i pertugi di faggio e noce, e scomporre geometrie e mettere a fuoco prospettive asfittiche.

Di colpo la gente ha preso a rumoreggiare in modo strano, Nimitov si è portato due dita alle labbra e qualcuno gli ha acceso un Garcia y Vega, e nel frattempo un uomo si divertiva a farmi notare come il suo cranio fosse diventato lucido e untuoso come una mela, un j’adoube di Klaus Ptacha e Nimitov che risponde con un arrocco corto, soltanto che non può muovere la regina imprigionata com’è fra un alfiere e un pedone, e ad un certo punto Klaus divincola una torre e mette sotto offesa il Re.

Panico generale, eccitazione nervosa. La gente diceva che Klaus aveva fatto un errore colossale, che avrebbe potuto azzardare direttamente lo scacco invece di muovere avanti e indietro quell’accidenti di torre, ma lui stava giocando al gatto e al topo e la gente iniziava a mormorare che il russo stava perdendo per la prima volta e che proprio non era possibile, e Nimitov ha fatto un gesto con la mano, qualcuno gli ha portato un quarto di brandy – a quel punto Klaus ha capito tutto – e mentre quello beveva ha preso la torre e l’ha fatta scivolare lentamente fino al lato opposto della scacchiera. Scacco al Re. Scacco matto.

Nimitov ha guardato la scacchiera con orrore e ha rovesciato tutti i pezzi sul tavolo, dovevi vedere la sua faccia, poveretto, il sangue gli pulsava freneticamente nelle tempie e all’improvviso si è portato le mani sulle orecchie e ha iniziato ad emettere dei mugugni e delle urla terrificanti, una cosa spaventosa, qualcuno l’ha subito afferrato per le braccia e gli ha fatto dei gesti veloci, sta’ calmo Alexander sta’ calmo, ma era tutto inutile perché lui non ci sentiva proprio, così l’hanno dovuto portare fuori con la forza.

Klaus è rimasto davanti al tavolo a raccogliere tutti i pezzi e a rimetterli in ordine uno affianco all’altro. Ad uno ad uno li guardava ma l’espressione dei suoi occhi era sempre la stessa, sembrava che non gliene importasse niente della vittoria. Si è alzato e mi ha detto andiamo a berci qualcosa, usciamo.

Abbiamo attraversato il most Legil e ci siamo infilati nella Narodnì, in silenzio siamo entrati in un locale che si chiamava Osteria del monastero e abbiamo ordinato due arrosti dell’abate. Nessuno di noi sapeva cosa dire. Abbiamo mangiato senza fiatare e quando l’osteria era ormai vuota Klaus si è alzato all’improvviso dal tavolo, ed è scomparso dietro un separé con luci azzurrate e divani di velluto bordeaux; sentivo che parlava animatamente col gestore, chiedeva se poteva suonarlo, soltanto per un attimo, soltanto per l’ultima volta. Io mi sono precipitato lì e ho visto Klaus seduto di spalle, che tastava il pedale di un vecchio pianoforte verticale, e di colpo ha attaccato una musica inascoltabile, decisamente, violenta e dissonante, con salti frequenti dal grave all’acuto, la mano sinistra tamburellava su un solo accordo mentre la destra scivolava avanti e indietro sulla tastiera con un’impetuosità disumana, e a me quello lì sembrava dolore vero, non so come spiegartelo ma quella musica mi faceva male, non è che mi facesse pensare alla solitudine o alla sofferenza, quello era dolore vero, tu ascoltavi quella musica e non potevi che pensarla così. Io gli guardavo le spalle che riflettevano convulsamente le luci azzurrate delle lampade e dentro di me sorridevo, adesso sì che ti ho riconosciuto, Klaus Ptacha, ma adesso basta così,basta con questa musica o ci sbattono fuori.

Lui ha continuato a suonare, ho pensato che non mi avesse sentito.

Sono io, Klaus, sono Aldo. Gli ho messo una mano sulla spalla ma per un attimo mi sono lasciato invadere da un dubbio sottile. Vieni fuori, andiamo a fare quattro passi.

Ci siamo incamminati verso il Ponte Carlo e intanto Klaus si arrovellava le mani una sull’altra, allora ti è piaciuto come ho suonato, maestro, ed io gli ho detto che non ho mai avuto dubbi, lo so che eri sempre il più grande, ragazzo, però non chiamarmi più maestro, va bene? Certo che va bene, lui si è appoggiato alle inferriate del ponte e mi ha detto che gli piace da morire guardare la Moldava scivolare quieta sotto i suoi piedi.

Klaus, posso chiederti una cosa?

Dimmi.

Il vero motivo che ti ha spinto a giocare a scacchi? Solo questo.

Lui mi guarda. Inarca le sopracciglia e balbetta che questo è il mio segreto, maestro Ti ho chiesto di non chiamarmi maestro Ridacchia e Alexander Nimitov, gli scacchi sono la sua ossessione, dice, quarantaquattro anni, sordomuto. Una cosa vitale, una cosa che per te è pelle e sangue, l’hai mai avuta?

Non so che rispondere. Credo di sì.

Volevo riuscire a suonare una musica nuova, Klaus si gira di spalle e guarda la Moldava che scivola melmosa sotto di lui, una musica che nessuno è mai riuscito a scrivere prima, dovevo vedere fino a che punto arriva il dolore, fino a che punto può distruggerti e cambiarti i lineamenti del viso e sconvolgerti la vita, capisci? Nasce quasi tutta da lì, la musica, senza dolore non sei nessuno, e guarda che non sono mai stato più serio di adesso, il fatto è che dovevo trovare gli occhi di uno che ha appena perso la cosa per cui vive, e non importa se questa cosa è infinitamente stupida e se alla fine sei pure contento di avergliela levata, ci sono tanti modi di vivere ma pochi di esistere, volevo rapire il terrore dai suoi occhi nel momento in cui nasce, non dopo, rapire quelle note immaginarie e trasferirle sul pianoforte, ad una ad una, la musica del dolore, proprio così, suona da scemi ma chisseneimporta, altro che quartetti e ballate e notturni e sinfonie, la partitura del dolore non è melodiosa ma terrificante e inascoltabile, è il trionfo della disarmonia sull’ordine e delle dissonanze sulle simmetrie, è un insulto alle orecchie cheti fa venire voglia di scappare via e di spaccare in quattro l’hi-fi che vomita l’inferno, e in effetti se ci pensi bene è una cosa stupida quell’ometto ha vissuto per quarant’anni piegato su una scacchiera e non gliene è mai fregato niente di tutto il resto, mai avuta una donna, mai desiderata, mai cercata, solo lui e le varianti e l’odore del legno che impregna l’aria e i cavalli e le torri e quel Re da proteggere e da uccidere, e se ci pensi bene è una cosa davvero stupida, ma non per lui. Nella sua mente gli scacchi sono tutto.

La cenere del mio sigaro mi è caduta tutta quanta sulla punta dei mocassini neri. Vorrei dirgli che sono contento per lui, che non importa se non ci ho capito un accidente di quello che ha detto e che probabilmente lui è più intelligente di me, anzi, sicuramente è così, in fondo io che cosa sono se non un volgaruccio cronista di provincia mentre lui è il più grande di tutti, Klaus Ptacha, figurati se non ha ragione lui, la musica del dolore, un’idea grandiosa, vorrei dirgli che qualsiasi cosa faccia, l’importante è che non smetta mai di suonare.

Sono proprio uno stupido – gli dico. Prima ho addirittura pensato che le tue ossessioni… insomma, quelle su Beethoven. Ho creduto che non le avessi dimenticate.

Nessuna risposta. Un pensiero terrificante.

Non prendertela, parlavo del tuo udito, Klaus.

Sai cosa penso, Aldo – lui mi copre la voce e sembra che non abbia sentito niente di quello che ho detto, penso che esista un dolore più insopportabile di tutti gli altri, adesso provo a spiegarmi, è il dolore muto, quello di chi urla fino a farsi male e che alla fine non riesce neppure a sentirlo, il suo grido disperato, il dolore di chi non può sentire le proprie urla deve essere terrificante, tu sei lì che hai appena perso la cosa più importante della tua vita e lasci che la gola sputi fuori tutto quello che hai dentro, contrai i muscoli e ti strappi i capelli e piangi e dici parolacce e pensa se per un attimo non dovessi sentirla più,tutta quella rabbia disarticolata e quelle grida e quel dolore,intendo con le orecchie, deve essere terribile rendersi conto che quel frastuono non ha più voce, e adesso da dove diavolo lo faccio uscire il dolore, eh, dal buco del culo?

Miseriaccia ladra, Klaus. Ma che diavolo stai dicendo?

Lui si gira lentamente. Ha la faccia di uno che non ha capito niente di quello che hai detto.

Riesci a sentirmi, Klaus? Dannazione, riesci a sentirmi?

Sorride piano.

E no che non ci sento, maestro. L’aria ha cambiato umore, la tua voce l’ha riscaldata e alla fine mi ha sfiorato il collo. Divertente, non trovi? Ad ogni modo te l’ho già detto, la prossima volta parla più lentamente e quando lo fai guardami negli occhi, per favore, altrimenti non riesco proprio a leggertele, le labbra, e non guardarmi così che non sono pazzo,non vorrai che adesso mi metta a scriverti le cose su un pezzetto di carta, pensa un po’ tu che balle, maestro attacchi un mi bemolle maestro cortesemente può indicarmi un cesso maestro, però  si sbrighi perché l’inchiostro mi sa che sta finen…