I brevissimi 2024 – Il tempo in letargo, Samuele Chiapperini_Ruvo di Puglia(BA)
Anno 2024 (Le stagioni: Inverno) – menzione
Il cielo era più buio di un sogno della morte. Il freddo era più aguzzo dei denti di un bianco lupo feroce. I rami delle betulle erano secchi e sembravano tante donne che, in un mesto girotondo, chiedevano al cielo di smettere di nevicare. Ma le betulle sono solo alberi, e quindi non furono minimamente ascoltate da quel cielo spietatamente gelido.
E buio. Inesorabilmente buio.
E poi c’era lei. Lei, dalla bellezza eterna, lei, più gelida di quel cielo invernale, lei più antica dei sogni e più giovane di ogni sorriso.
Per ogni fiocco di neve che cadeva, il suo volto mutava aspetto: prima era una dolcissima bambina, poi una ragazza curiosa, diveniva quindi una donna fiera e dallo sguardo languido e crudele e, infine, la più sapiente e saggia delle anziane. Il tutto avveniva ogni singolo istante. Ogni fiocco di neve, quando cadeva, le faceva mutare aspetto.
Quella notte non trovavo pace. Vagavo e vagavo sul mio fido destriero, finché non giunsi a quel cimitero, avviluppato in quella nevosa veste bianca che accarezzava dolcemente le lapidi.
E lì la vidi per la prima volta. Lei. Non riuscivo a spiegarmi come riuscissi a vederla in quel cimitero atro, stretto nella morsa dell’inverno nel cuore di quella notte senza luna. Forse quella donna era così bella che brillava di luce propria. E ancora, cos’era quel gelo che mi stava invadendo non solo da fuori, ma anche da dentro, inerpicandosi simile a una rapida serpe in ogni parte del mio corpo? Smontai di sella ed affondai qualche passo nel soffice manto di neve sul prato del cimitero verso quella donna eterea. Lei alzò un braccio pallido nella sua veste gloriosamente semplice e di colore bianco e morse una mela verde che aveva in una mano ossuta. Se solo avessi notato che il succo della mela era di un colore vermiglio, ma che dico, rosso sangue, e quel succo stava colando libidinoso sul collo di lei, fra i suoi pallidi seni, fino a macchiare di delitto il sacro mantello della neve regina; non sarebbe successo niente di ciò che sto per raccontarvi.
Lei lasciò la mela verde sulla sua lapide, si mise in piedi su di essa, e mi mostrò anche l’altra mano: ci teneva un oggetto alquanto strano e la cui visione iniziò a inquietarmi ogni fiocco di neve caduto di più.
Mentre mi fissava, infilzandomi l’anima con mille e mille daghe ghiacciate ed incendiandomi gli occhi con le più ardenti fiamme dell’inferno da cui forse proveniva, aveva già iniziato a far suonare il carillon che teneva in mano.
Quando la melodia iniziò a danzare nella pungente notte invernale, i fiocchi di neve arrestarono il loro inesorabile cadere. Mi guardai intorno, stupito, per scoprire che le lancette del grande orologio sulla facciata della chiesa annessa al camposanto si erano fermate in quell’istante.
La donna venne verso di me, mi prese le mani ed iniziò a danzare nella neve con me, sulle note di quel malinconico carillon che aveva fatto fermare persino il tempo con la sua diabolica musica.
Poi, stringendomi le mani, la donna misteriosa mi baciò, e poco dopo allontanò le sue labbra profumate di sogni di virtù e le usò per parlarmi: “Da adesso, ogni istante dura mille anni.”
“No, aspetta … non so neanche come ti chiami …”, le dissi, notando che si stava allontanando sempre più da me.
“Da adesso ogni istante dura mille anni. E per mille anni sarai mio schiavo. Il mio comandamento potrà essere annullato solo se mi porterai la falsità di ciò che è vero.”
Da quel momento le ore non invecchiano, la natura non cambia. Vago sempre senza meta, in cerca della menzogna nella verità, da Nord a Sud e da Oriente ad Occidente, spinto da un ucronico desiderio di libertà, eppure indugio sempre nello stesso istante invernale. Inseguo nei sogni lo spettro della donna della lapide, che sono costretto a servire in questa eternità immobile, in questo eterno inverno in cui non sorge più il Sole e la Luna non brilla.




