I racconti "brevissimi di Energheia"

I Brevissimi 2025 – Fischia forte il vento d’estate, Gianluca Papadia_Pozzuoli (NA)

Anno 2025 (Le stagioni: Estate) – vincitore

In estate io e mio fratello facevamo sempre lo stesso gioco: quando il vento fischiava forte da sotto la porta di ingresso, uscivamo in giardino e sfidavamo la sua forza.

Salivamo sul muretto di cinta che si affaccia sulla valle e aprivamo le gambe e le braccia.

Il primo che scendeva dal muretto aveva perso.

Vinceva chi resisteva più tempo in piedi a sfidare le raffiche che spazzavano il nostro giardino.

Vincevo sempre io, nonostante fossi il più piccolo dei due.

Chiudevo gli occhi, stringevo i denti e mi opponevo con tutto me stesso alla forza della natura.

Nell’estate del 1960 il vento soffiò così forte che alcuni alberi caddero sul muretto che delimita il nostro giardino. Quegli alberi secolari, che stavano lì da prima che mio nonno costruisse quella casa, ci avevano tradito.

Avevano tradito soprattutto mio padre.

Un vecchio contadino come lui, aveva sempre pensato che gli alberi avessero una resistenza straordinaria al vento. Che al contrario delle persone, riuscissero a piegarsi senza mai spezzarsi.

Da quel maledetto giorno, mio padre mi vietò per sempre di uscire quando il vento fischiava forte sotto la nostra porta.

Ma fu un’inutile proibizione: avevo perso tutta la voglia di sfidare il vento.

Passarono molti anni prima che sentissi di nuovo il fischio del vento.

Successe all’improvviso, in un giorno noioso di agosto, sentii il vento fischiare sotto la nostra porta ed ebbi l’istinto di uscire di corsa in giardino.

Ricordo ancora lo sguardo severo di mio padre che anticipò le mie cattive intenzioni.

Dall’estate del 1960 per mio padre quel giardino si era trasformato in un pericolo per la sua famiglia.

E ogni volta non perdeva l’occasione di raccontare quella che per lui era stata una disgrazia insuperabile.

“Quella maledetta estate, due alberi si sono abbattuti sulla nostra casa, il vento li ha piegati in due” ripeteva ogni volta con la stessa voce rotta dalla malinconia. E la cronaca di quella sciagura si concludeva sempre con la stessa frase: “Mario è vivo per miracolo”.

Ha raccontato quell’episodio migliaia e migliaia di volte fino al suo ultimo giorno di vita.

Me lo ricordo come se fosse adesso: mio padre stesso sul letto di morte, con la foto di mio fratello stretta tra le mani, che racconta questa storia con il suo ultimo filo di voce.

“Papà che ci fai su quel muretto?” mi urla un uomo di circa quarant’anni che non conosco.

“Ho sentito il vento fischiare e sono uscito” vorrei rispondere ma non ci riesco.

È da un po’ di tempo che i miei pensieri rimangono intrappolati nel mio cervello e non riesco a trasformarli in parole.

“Dai, torniamo dentro che oggi c’è molto vento” insiste lo sconosciuto mentre mi aiuta a scendere.

Non so cosa mi succede ma ho difficoltà nei movimenti e anche un gesto così semplice mi costa uno sforzo enorme.

Sento il vento che mi scortica la faccia mentre mi lascio trascinare via da quell’uomo che mi tiene per un braccio.

“Mamma non ti sei accorta che era uscito?” chiede l’uomo a un’anziana donna quando entriamo in questa casa sconosciuta.

Non riconosco niente di questo posto.

Non so perché mi tengono prigioniero qui dentro.

Ogni notte sogno che mio fratello mi venga a salvare.

“Mario, perché sei uscito con questo vento?” mi chiede la donna mentre mi aiuta a sedermi su una poltrona che non ho mai visto prima.

La sconosciuta ha lo sguardo spento di chi ha vissuto una vita intera nella speranza.

Non so perché ma i suoi occhi mi fanno pensare a mio fratello.

I suoi occhi e il fischio forte del vento d’estate.

Quando lo sento, non posso fare a meno di correre fuori al giardino.

Quasi lo vedo, mio fratello che mi aiuta a salire sul muretto e insieme affrontiamo la forza dirompente di quelle raffiche di vento.

Mi sembra di sentire ancora le sue urla: “Dai Mario, rientriamo in casa. Il vento fischia forte”.

Quella maledetta estate del 1960 lo ripeté più volte, con un tono sempre più drammatico.

Lo ignorai.

“Perché non mangi?” mi chiede l’anziana donna che si è seduta di fronte a me.

Ha un piatto in mano e agita un cucchiaio davanti alla mia bocca.

“Se mi conoscessi, sapresti che per me il cibo ha perso ogni significato” le vorrei rispondere ma mi limito a tenere la bocca serrata.

Poverina, mi fa pena.

Scoppia a piangere e così capisco che anche lei è prigioniera in questa casa in cui non distinguo niente.

Non riconosco i mobili, le tende, i tappeti, i quadri e le persone che ci vivono.

Non ne riconosco l’odore, non ne avverto il calore.

In questo posto oscuro e misterioso, l’unico suono familiare è quando fischia forte il vento d’estate.