I Brevissimi 2025 – Estate fredda, Beatrice Ricci_Roma
Anno 2025 (Le stagioni: Estate) – finalista
Se provo a ripensare a quel momento mi torna in mente la terra.
Il sapore e l’odore della ghiaia, della pietra erosa, e poi un’improvvisa botta, seguita da un lungo suono, un fischio acuto.
Di quello che avvenne dopo non ricordo nulla. Non so nemmeno se avessi urlato, se avessi fatto in tempo a spaventarmi o no, se fosse accaduto tutto troppo in fretta, per rendermi conto di quello che era successo, e se avessi provato dolore.
È come se quel momento della mia vita fosse stato cancellato.
Penserei di essermi immaginata tutto se non avessi un’enorme chiazza rossa a lato della testa, e se non mi fossi ritrovata in questo luogo.
Assomiglia alla mia regione, dove sono nata e cresciuta, con i campi verdi nella bella stagione e qualche turista in vacanza, amante delle lunghe passeggiate o delle arrampicate sulle alti e possenti montagne.
Eppure qui non c’è niente di tutto ciò.
I prati sembrano essere usciti da un film in bianco e nero degli anni trenta, e sono spogli e aridi come se il sole ci avesse battuto troppo forte e troppo a lungo. In alcuni tratti si vedono persino delle crepe nel terreno.
Forse un tempo c’erano ciliegi, albicocchi, peschi, ma ormai non più. I tronchi degli alberi sono stesi a terra, sradicati, e le zone vicino sono cosparse di rami e foglie secche, che per qualche assurdo motivo non ci scricchiolano quando ci passi.
Non ci sono suoni o rumori qui, solo silenzio. È una quiete strana, controversa. É la pace che si sogna per tutta la vita, ma una volta raggiunta sembra solo… sbagliata. Vorrei tornare a essere frastornata dai rumori, senza non pare reale questo posto.
C’è sempre il sole, come nei pomeriggi estivi, ma non riscalda.
A volte è oscurato dai rami neri dei pochissimi alberi ancora in piedi. Lo intrappolano come per ricordarci che quel misero bagliore non esiste, è inutile, e non ci porta alcun conforto.
Ci siamo ritrovati in tanti in questo posto, chi prima chi dopo. I volti di molti non riesco a distinguerli, e i pochi che invece riesco non li saluto, come loro non salutano me.
Alla fine siamo tutti sconosciuti. Non conta più chi siamo stati o chi saremmo potuti essere, che ruolo avessimo nel mondo. Siamo tutti uguali adesso. Un’utopia perfetta che ha perso ogni significato nelle nostre menti. Passiamo il tempo a girare su questa terra, a camminare, a ripensare tutti al nostro ultimo attimo in cui siamo stati realmente noi, a guardarci negli occhi vitrei, senza riuscire a vedere veramente qualcosa, senza parlarci mai, senza badare mai all’altro. In fin dei conti, un po’ come abbiamo sempre fatto.
Mi viene quasi da ridere al pensiero di come sono finita qui. Facendo una cosa che amo, di cui so ogni singolo passaggio a memoria, e in cui sono brava, davvero brava. L’unica volta che mi sono distratta, che non ero concentrata, è stata anche la mia ultima volta.
Avrei dovuto controllare meglio il moschettone e fare meno la spavalda. Mi sarei dovuta fermare dove ero già arrivata altre volte, invece di scalare una parete di roccia che non avevo mai tastato con mano.
Perché ora sono qui, a trascorrere la mia estate di spensieratezza con i morti.




