I racconti "brevissimi di Energheia"

I Brevissimi 2025 – Estate 1943, Paolo Musano_Matera

Anno 2025 (Le stagioni: Estate) – finalista

L’estate era arrivata all’improvviso, come fanno sempre le cose belle quando meno te le aspetti. La guerra continuava a sbranarci il tempo, come una bestia affamata che ci rubava i giorni con gli allarmi, i silenzi forzati, le file interminabili per il pane. Non sapevamo più che giorno fosse, e le stagioni si mescolavano come fotografie sbiadite. Ogni notte una speranza sottile di svegliarsi ancora insieme, stretti l’uno all’altra. Ma in quella casa di pietra tra i campi, io e Lea sembravamo fuori dal mondo.

Non c’era nulla, eppure avevamo tutto: una branda cigolante, una brocca d’acqua fresca e il profumo del basilico che cresceva selvatico sul davanzale. Lei diceva che anche la terra, ogni tanto, vuole dimenticare di essere campo di battaglia. Ridevamo piano, sempre sottovoce, come se anche le parole potessero tradirci.

Lea era ebrea, scappata da Roma in una notte di rastrellamenti, quando le sirene ululavano come animali feriti. Suo padre era stato portato via. Lei aveva studiato musica, e suonava Chopin con dita leggere. Una sera, seduta accanto alla finestra, confessò che le mancavano i tasti d’avorio più di qualsiasi altra cosa. Io, invece, ero figlio di un gerarca fascista. Avevo giurato fedeltà, avevo indossato la divisa. Ma ogni giorno che passavo con lei, qualcosa in me si crepava.

Ogni mattina, al primo raggio di sole, tra i vapori dorati che salivano dai campi, lei usciva a raccogliere more dietro il casolare. Tornava con le dita viola e un sorriso che sapeva di infanzia. Ci raccontavamo il mondo come sarebbe stato “dopo”: una libreria sul mare, un gatto bianco e delle tende leggere.

Di notte, i nostri corpi si cercavano come se il tempo potesse finire all’alba. Le sue mani scivolavano sulla mia schiena come acqua. Facevamo l’amore con la fame di chi ha poco tempo, come se ogni tocco potesse cancellare il mondo attorno. Eppure, sentivo il peso della mia uniforme come una seconda pelle, cucita con il filo del rimorso. C’era un momento, subito dopo il piacere, in cui le mie mani tremavano non per stanchezza, ma per la vergogna di aver amato chi dovevo temere. Cosa stavo facendo? Avevo giurato fedeltà a uno Stato che la voleva morta.

La paura entrava nel letto con noi. Io ero spaccato: ogni bacio era una confessione contro tutto ciò che avevo giurato di difendere. Le sue labbra erano una domanda: chi sei davvero? Ogni volta che la toccavo, sentivo i muri dentro di me crollare. Lei sorrideva, e mi diceva che avevo occhi da disertore.

Una notte sentimmo i cani. Le torce tra gli alberi. Restammo immobili, con il fiato a metà. Lei mi prese la mano: «Se succede qualcosa, non tornare a cercarmi. Ricorda solo come eravamo felici». Quando aprii gli occhi, lei non c’era più. Solo un foulard impolverato sulla sedia e il basilico spezzato sul davanzale.

Passarono giorni, settimane. La guerra si mangiava tutto: nomi, volti, promesse. Ma io restai. Ogni estate, lo stesso sogno: lei che mi guarda tra i filari, con le dita macchiate di viola. A volte c’era un campo di girasoli, a volte il mare. Sempre lei. Sempre l’estate.

Anni dopo, in una vecchia libreria sul mare, vidi una copia esatta di lei, come uscita da un sogno ricorrente. Stessi occhi, stessa voce. Ma non mi riconobbe. O finse di non farlo.

«Cerchi qualcosa?», mi chiese, col sorriso leggero delle cose impossibili.

«No», risposi. «Sto guardando in giro, grazie».

E uscii, con il cuore che batteva come allora. Forse l’avevo trovata, forse l’avevo solo sognata con troppa intensità. Il profumo di basilico mi raggiunse all’improvviso. Mi voltai: la vetrina della libreria era vuota. E lei non c’era più.

L’estate era tornata, di nuovo, a confondere i confini tra quel che era stato e quel che poteva ancora essere.