I racconti del Premio Energheia Europa

Raskolnikov_Ivan Humanes Bespin, Barcellona(Spagna)

_Menzione speciale Premio Energheia Espana 2012.

Traduzione di Laura Durando

Non c’è nulla di meglio dello sparo mattutino per svegliarsi.

Ancor di più se lo sparo si dà sul ponte di K***. “      Raskolnikov”, cantano gli uccelli quando spiccano il volo dal fiume. “Raskolnikov, Raskolnikov, Raskolnikov”, dopo lo sparo. È già da alcuni mesi che il ponte di K*** è in acque calme, cadaveri sulla riva, coccodrilli. Il traffico d’armi non è più una buona opzione da quando non si può viaggiare. E tutto per quel ridicolo dettaglio che fa sì che il mondo sia morto, che forse solo io, ossia, Raskolnikov, sia l’unico ed esclusivo abitante. Per questo sopraggiunge lo sparo alle ore 9:11 ogni mattina, per svegliare ciò che permane in stato di rilassamento: mente, uccelli e demoni. Chiaro, dopo sopraggiungono le corse lungo il gran viale, con un’auto bruciata lasciata da un lato, dall’altro, stando attento a non cadere ed essere catturato dalle bestie che probabilmente mi corrono dietro cercando di raggiungermi per poi farla finita con l’unico che rappresenta la vita e la speranza dell’uomo, ossia: io. Raskolnikov, la colpa.

Bisognerebbe spiegare come sopraggiunge lei, la signorina Freud. Colei che mi sopporta e attende nel covo della terza strada che dà sul viale. Sempre di una tempra invidiabile, per via del riposo e della sua stupefacente calma. Bisogna andare indietro. Ventitré giorni. Quaranta. Prima che tutti riposassero nel fango. Secondo il parere del medico, lei così di cera, uno senza null’altro da offrirle che un futuro, ebbene, le armi danno vantaggi. Non sono solo viaggi, qui e là, vedere il mondo, piccola Freud, ma poter comandare. Poter comandare, piccola Freud. E più tardi entrambi (oh, casualità) nello stesso taxi, chiusi nel mio paradiso, con le finestre del covo coperte a ridere e consumare marijuana e caffè in polvere e chiacchierare per giorni mentre in strada gli uni contro gli altri, mondo non morto, come minimo guerra di zombie. Per quello dopo lo sparo delle ore 9:11 correre senza freno lungo il gran viale, aprire la porta dell’edificio, salire le scale di due in due, mettere da parte i carrelli della spesa che agiscono da prima barricata e entrare nell’appartamento, chiudere, disporre le armi all’ingresso e andare vicino a lei.

– Non tarderanno, te l’ho già detto – spiegarle. Mettersi dietro il sofà della sala da pranzo prendendo la mira con l’arma, nel caso gli altri, e dirle: – Il meglio: in primavera scappare dalla città, affittare una casetta al mare, lontano da rami spezzati, persa e perso nella sabbia. Prendersi cura di un paio di cani, sotto il sole. Tu e i cani e il sole.

Il cinema e quelle cose lì mi hanno sempre fatto impazzire, anche se non si ha il tempo per tutto se uno ha l’obbligo di sfacchinarsi coi voli e spiegare i cataloghi dei nostri prodotti dall’altra parte del mondo. Alla mia piccola Freud non interessa.

Non le interessano né il cinema, né la filosofia, né altre chiacchiere. La mia adorata Freud preferisce la filosofia zen, riposare gli occhi nella sabbia, immaginare di rastrellarla una volta e da capo. Cose di famiglia. “Tuo padre deve essere stato Jung”, scherzo, ma non capisce. “Sì, deve essere stato Jung, ne sono certo, è stato Jung, Jung, Jung”. Niente. E uno si chiede il motivo del fine, ed è meglio non chiederselo; poiché è evidente che il motivo principale è il caso, un dio che si confonde e invece di dare, toglie. Come il cadere di un bicchiere per terra che si rompe in mille pezzi per il movimento distratto del braccio sul tavolo, ed è già pronto da prendere, ma alla fine cade e quel che ti circonda è vetro in piccoli, minimi frammenti, noiose bustine. Ma non ci preoccupiamo nemmeno di quello. Ci facciamo carico delle conseguenze, senza aggiungere altro. Nello stesso modo in cui lei accetta che ogni mattina io mi rechi al ponte di K*** per riconfermarmi in vita, accondiscendo sul fatto che preferisca rimanere col sorriso amaro, da sola, in casa, accudendo i ragni.

Nonostante non mi abbiano mai raggiunto, nonostante chi sa dove si nascondono i maledetti mostri che ogni città morta deve nascondere nelle sue viscere.

Giochiamo a scacchi. “Freud e Raskolnikov giocano partite veloci di scacchi dietro il sofà”. Potrebbe essere un buon titolo per un quotidiano. “A volte scopano. A volte no.”, il sottotitolo”. Nel caso in cui a qualcuno di quelli che hanno la testa nel fiume interessasse la lettura e le rotture di scatole.

Se potessero leggere. Se ci fossero quotidiani. Se qualcuno perdesse il tempo con la scrittura e nel caso fortuito ci fossero più occhi dei nostri. Non ci sono più occhi dei nostri. Non più occhi dei miei. Dei suoi occhi acquatici. Giochiamo partite di cinque minuti, al massimo dieci. Abitualmente vinco.

Esco con la pedina del re, e4. Non posso evitare di vincere.

Lei con la sua testolina zen non pensa a possibili varianti, non riflette in modo logico; il suo pensiero suole essere laterale, un’enorme pausa laterale. E le spiego il perché del mio nome, che è il nome di un personaggio. E le racconto della colpa dell’uomo che è la gran colpa di Raskolnikov dopo aver ucciso nel romanzo del suo autore russo una vecchietta senza volere, o volendo ma senza averlo desiderato, quasi senza volerlo. E non lo capisce. E siamo al buio. Una cecità controllata. Aspettiamo al buio. Nella reclusione al buio aspettiamo il suono, gli altri.

– La colpa universale riposa sulle spalle di Raskolnikov, che sono le mie spalle – le dico mentre controllo che lo schioppo sia carico, in caso gli altri irrompessero mentre giochiamo.

Capelli corti, smalto e mani fredde e allungate, mani da figlia di dottore. Questi sono i tratti fisici che potrebbero descrivere la mia Freud, lucida nei momenti di stress. Come quando uscì per la prima volta dall’appartamento, dopo il disastro, e la vicina del primo – l’altra, proprio così: tre -, che sicuramente sorvegliava dallo spioncino e che somigliava tanto a mia madre da giovane, uscì anch’essa dall’appartamento e scese le scale, perseguitandomi. Perseguitandomi con la bocca molto aperta. Troppo aperta. Una delle ultime sopravvissute. E durante la persecuzione silenziosa lei che girava la testa e siccome vedeva me dietro, continuava con quell’inseguimento. Appiccicosa. Là dove andavo io andava lei. Puah. È certo che cominciò a correre e io dovetti fare lo stesso, e lì si verificò il guaio, se lei si girò e segnalò in lontananza, il ponte di K***, come rimproverandomi qualcosa, e io chiedevo il perché dell’inseguimento, quel tallonamento che mi faceva, la bocca troppo aperta, troppo, e allora mi ricordai di Raskolnikov e che chissà il meglio pam, una legnata e fuga. Finito irreversibilmente il garbuglio della mia persecutrice mi resi conto fin dove era caduto l’uomo, la città era morta, per le strade c’erano solo corpi malconci. L’uomo nuotava in un precipizio. Fine dei sorrisi franchi. A dispetto di tutto ciò, come stavo dicendo, Freud è una persona lucida nei momenti di stress: una volta tornai all’appartamento e dopo aver raccontato l’accaduto, la vicina e il collo che crac, la città senza vita, non disse nulla. Un’altra avrebbe potutotirarsi i capelli e provocare uno scisma nella nostra dipendenza, ma lei no, lei era la calma personificata, il nirvana, un Nevada deserto di idee.

Non ci sono state conversazioni con altre persone (riconosciute, dico, da entrambi). La nostra assenza è, diciamolo ormai, quasi totale. Il proposito principale è diminuire le tensioni con lo sparo mattutino. Tentare la sorte. Chiamare.

Ascoltare gli uccelli cantare di Raskolnikov. È possibile che l’orda esca un giorno di questi dalle sue fogne e vada in ricerca di qualcuno dopo la detonazione, ma bisogna provare.

Chi lo sa se può esserci più vita. Nello stesso modo in cui noi siamo riusciti a sopravvivere senza fare niente, avrebbero potuto altri. Non pratichiamo al momento nessuna strategia straordinaria. Ci appartiamo dal mondo per un mese e qualcosa, deliri e di più, qualche droga. Ci annodiamo al cordone ombelicale dell’altro. L’artefice supremo ha voluto durante la nostra assenza una città stracolma di avvoltoi. Sappiamo razionare le esistenze, ma gli avvoltoi ci riducono il morale.

Sono gli avvoltoi quelli che hanno rivoltato i procedimenti della lotta che conoscevamo. Aspettano. Gli avvoltoi aspettano e lo sparo scombussola. Alla fine della pista da ballo comincia il ponte che dà sul bosco.

Come facevamo prima, adesso giochiamo a scacchi. Giochiamo.

Giochiamo tutti e due a scacchi. Elucubriamo sulla stranezza della vita, consumiamo sigarette tra divagazioni e giochiamo a scacchi. Sono io quello che le mette la sigaretta e le apre le labbra e le mette la sigaretta e le muove la testolina e toglie il fumo dalle narici e muove il fante, il cavallo, arrocca. Passiamo le ore sorvegliando la porta di ingresso e giocando. E di tutta questa situazione ciò che mi sembra più ostico è raccontare a Freud dell’altra – la quarta, tre più uno -, la collega di lavoro che si è trasferita da poco nella proprietà, quella che sono andato a prendere all’altro capo della città e ho accompagnato in bici fino a qui, quella che forse ha quello sguardo di Freud e anche quelle mani di cera e si nasconde grazie a me in uno dei piani bassi della proprietà, secca come un chiodo. Mi piacciono le ragazze secche come un chiodo. Ma Freud non deve temere niente, noi due per sempre, Freud Raskolnikov, Raskolnikov e Freud. L’altra faccio in modo di vederla solo al risveglio. Diciamo che è ufficiale. Non essendo ufficiale per Freud, non esiste. Ma è lei che si insinua fino alla nostra camera. Scoordinata. Con la mia Freud addormentata e tutto. Che mi accarezza prima del bacio e dello sparo mattutino e scorrazza per il tetto e si nasconde dietro la sedia a dondolo. Quella che mi dice che devo trovarmi al ponte di K*** alle ore 9:11. Quella che mi chiede di dimenticare quella che dorme a mio fianco, “E’ tutto finito”, è arrivata a dirmi un giorno all’orecchio. Ma io amo Freud più di tutte le altre. La sincerità prima di tutto.