Dare da mangiare ai pesci_Sophie Strasser
Menzione Premio Energheia Germania 2024
Traduzione a cura di Cristina Cappellari
Diamo da mangiare ai pesci ogni fine settimana. Il sabato, dopo il caffè e la torta, lo zio metteva dei panini secchi e del pane vecchio in un secchio e mi chiedeva: “Anne, andiamo giù allo stagno?” Poi scendevamo insieme lungo il sentiero dalla collina, dove si trovava la nostra casa, fino al piccolo bosco dove c’era lo stagno, io mano nella mano con lo zio. Con le mie dita morbide da bambina, sentivo le verruche sul dorso della sua mano, che lì, nonostante il trattamento continuo, continuavano a crescere. Le mani dello zio erano più piccole di quelle di mio padre. Le mie mani erano grandi per quelle di una bambina. Dapprima facevamo un giro intorno allo stagno, poi ci inginocchiavamo sulla stretta riva e lo zio rompeva i pezzi di pane duro in piccole briciole. Le gettavo nell’acqua. Subito veniva un intero banco di piccoli pesci, si agitavano e afferravano le briciole di pane morbido. O succhiavano e mordevano, come un banco intero, le croste di pane duro che non si scioglievano velocemente. I piccoli pesci mi stupivano ogni volta per il loro numero, ma in realtà speravamo nei pesci vecchi, quelli grandi. “Anne, guarda!”, mi sussurrava lo zio. Due grosse carpe grigie si muovevano lentamente tra i loro piccoli compagni, aprivano la bocca e, snap, un intero pezzo di pane spariva in un colpo. Affondavano e tornavano qualche minuto dopo, spingevano i piccoli pesci da parte e afferravano il prossimo pezzo di pane. Quando arrivavano i pesci vecchi, stavamo immobili. Ci concentravamo solo sull’acqua, senza guardarci negli occhi. I movimenti veloci allontanano i pesci.
Lo zio veniva ogni fine settimana. Il venerdì pomeriggio, aspettavo impaziente il suono della sua BMW mentre entrava nel nostro cortile e girava intorno alla casa. Quando sentivo il rumore del motore, correvo alla finestra per salutarlo mentre passava. Quando entrava dalla porta di casa, correvo verso di lui e mi stringevo a lui. “Ciao, Anne”, diceva, e poi: “Ti ho portato qualcosa!” “Davvero?” Un libro con storie sui cavalli, proprio come quelli che divoravo a tonnellate. “Grazie zio!” “Prego, Anne”, diceva lui. Quasi ogni fine settimana lo zio mi portava un regalo, un libro, una rivista, una bella penna. I miei genitori lo rimproveravano per questo, ma lui non li ascoltava. I suoi regali avevano un posto d’onore nella mia libreria. Lo zio non aveva una sua famiglia o qualcosa del genere. Ogni fine settimana veniva da noi nel cortile, dove era cresciuto anche lui, e aiutava i miei genitori nella stalla. Ogni sabato pomeriggio, quando c’era il sole, andavamo a dare da mangiare ai pesci. Nella mia memoria, ogni sabato c’era il sole.
Lo zio era il mio protettore e il mio compagno di giochi. Se a pranzo o a cena non riuscivo a mangiare nulla e spostavo il cibo nel piatto senza riuscire a mangiarlo, e già solo a guardarlo mi venivano i brividi, lui, in un momento inosservato, prendeva la patata avanzata o la metà di una cotoletta e mi liberava dallo giustificarmi davanti ai miei genitori. Lo guardavo con gratitudine, ma lui faceva finta di niente, nemmeno un occhiolino lo tradiva.
Quando sono nata, lo zio aveva ancora sette anni da vivere.
Che lo zio non stesse bene, non lo avrebbe mai ammesso. Inizialmente non si notava nemmeno, o tutti facevamo finta di non accorgersene. Speranzosa, sbirciavo la mia porzione di cibo e la guardavo verso di lui, a cena. Ma lui lottava da solo. Mangia poco, a pezzetti, senza masticare, guardando ostinatamente il piatto. Vedevo che doveva ingannare la bocca, doveva deglutire prima che essa si rendesse conto che stava entrando del cibo. A volte lo facevo anch’io, ma non ero molto brava. Cucchiaio dopo cucchiaio, inghiottiva la salsa di mele fresca di mamma, poi scompariva rapidamente dalla cucina. Il giorno dopo, allo stagno, dovevo gettare i panini interi nell’acqua. Arrivavano un po’ di pesci piccoli, ma mi muovevo troppo nervosamente, e i grandi stavano lontani. Lo zio non mi rimproverava. Non ero sicura che lui vedesse i pesci.
Restava in silenzio finché i valori cattivi non lo costringevano a parlare. “Il prossimo fine settimana non torno a casa”, annunciò silenziosamente a cena. Fissava con attenzione la patata non mangiata nel suo piatto. “Vai in viaggio?”, chiese mia madre. “No, devo andare in ospedale. Devo fare di nuovo la chemio”.
Visitammo lo zio in ospedale. Avevo sette anni e conoscevo già la parola leucemia linfatica, ma non conoscevo ancora la parola attacco di panico. Lo zio aveva preso qualche virus ed era nella stanza di isolamento. Per questo indossavamo tute verdi, cuffie, occhiali protettivi e una maschera FFP-2. L’aria nella stanza era terribile. Non avevo mai sentito un odore simile. Puzzava di malattia, di vecchio, di urina, di sudore, di respiro acido e di brutti sogni. Nel letto davanti a noi c’era lo zio. I suoi capelli grigi spuntavano in tutte le direzioni. Il suo viso gonfio e bianco sotto una maschera di ossigeno. Sembrava un insetto. I membri della mia famiglia, con gli occhiali protettivi e le maschere, sembravano anch’essi insetti. Insetti verdi, alieni, che stavano intorno a uno zombie. Poi i miei occhi si posarono sul bicchiere dell’urina e mi venne da vomitare. Respiravo sempre più velocemente, ma in quel mondo non c’era aria, e mi veniva ancora più male, e all’improvviso tutto girò e mi trovai nel corridoio dell’ospedale con mio fratello. Le lacrime mi scendevano sulle guance e non riuscivo più a tornare in quella stanza, quella stanza stretta e puzzolente, dove non c’era davvero lo zio, ma solo una misera parodia di lui, che non serviva più a nulla.
Lo zio visse sette anni in più di quanto i medici gli avessero dato.
Un venerdì d’autunno tornò a casa già nel primo pomeriggio, molto prima del solito. Quando entrò dalla porta di casa, il mio saluto mi rimase in gola. Il suo viso era giallo, solo le borse sotto gli occhi e il labbro inferiore erano di un viola scuro. Disse piano “Ciao!”, e: “Oggi non ti ho portato niente!” La sua valigia gli scivolò dalle spalle e cadde a terra. “Te la porto su?” “No!” Prese la valigia, trattenendo il respiro passò lentamente davanti a me e salì le scale con passo lento, entrambe le mani sul corrimano. Poi sparì nella sua stanza. A cena si stava accasciato e fissava il suo piatto. “Non ti piace?”, chiese mia madre. “No!” Mangiammo in silenzio le patate, ma non potei fare a meno di chiedere: “Andiamo domani allo stagno? Domani avrei tempo”. Non mi guardò nemmeno quando rispose. “Non credo, Anne!”
Il fine settimana successivo sentii il rumore della sua BMW che girava intorno alla nostra casa. Esitai ancora quando sentii la porta di casa aprirsi, poi andai, comunque, giù. “Ciao, zio!” “Ciao, Anne!” Fragile, giallo e viola in faccia. Arricciò le labbra in quello che il suo corpo aveva conservato come sorriso, anche io. “Come stai?” “Non bene!” Lo disse a malapena, ma io sentii le parole chiaramente. Non lo aveva mai detto prima. A cena inghiottiva a fatica un boccone dopo l’altro del cibo di mamma. Ce la faceva a malapena con qualche forchettata. Ora toccava a me far sparire di nascosto i resti del suo piatto, ma guardavo solo il mio piatto, nemmeno alzando lo sguardo.
Dall’ospedale nella città vicina lo trasferirono a Monaco, per una nuova terapia da un medico specialista. Mamma preparò la salsa di mele e la mise in piccoli vasetti di vetro con il cucchiaio. Io andai con mio fratello a Monaco, con i vasetti in tasca. Non stava meglio. Appena entrai nella stanza, faticavo a respirare. Di nuovo lui era nel letto sotto quella coperta troppo pesante. Il suo viso era tutto bianco. I pochi capelli che gli erano rimasti, dopo la chemioterapia, spuntavano in tutte le direzioni, di nuovo. “Ciao, zio!” Tirai velocemente fuori il vasetto dalla tasca, per non dovergli dare la mano. “Da mamma !” Mio fratello si sedette accanto al letto e parlò con lui. Respiravo il meno possibile, per non sentire l’odore. Cercavo di non guardare il letto, non guardare il catetere con il liquido marrone-giallo, ma naturalmente i miei occhi si fermarono su di esso e mi saliva in gola una nausea acida. Guardai in fretta altrove e mi concentrai sull’arredamento della stanza. Il pavimento era di linoleum rosso scuro, sulla parete c’era un quadro con una cornice dello stesso colore. Superfici geometriche astratte su bianco. Triangoli di merda. Persone di merda che pensavano che quei triangoli di merda andassero bene in una stanza d’ospedale. Come dovrebbe guarire una persona, se è costretta a fissare per ore triangoli verde acido, cerchi rosa e rettangoli blu? Qualcuno mi chiese qualcosa, ma ero in un acquario, dietro il muro di vetro vedevo lo zio e mio fratello e quel dannato quadro, tutto sfocato. Ma anche se vedevo tutto sfocato, come se osservassi il tutto con lo sguardo di un pesce, ogni dettaglio si stampò nella mia mente, insieme alla vergogna.
A volte lo zio doveva ingoiare durante la conversazione, sputando silenziosamente piccole quantità di vomito in un fazzoletto. Mio fratello faceva finta di non accorgersene e continuava a parlare. Ma io vedevo chiaramente come la sua lingua e i piccoli frammenti bianchi sparivano nel fazzoletto, nient’altro. Fissavo la finestra con lo sguardo, aspettando che finalmente finisse. Solo al momento del congedo lo guardai brevemente negli occhi. Mi sorrise, vuoto e scuro. Guardai subito altrove, sulle sue mani. “Le tue verruche sono molto migliorate”, grugnii. “Ogni giorno ci metto la pomata alla calendula!”
Dopo la visita, mio fratello ed io camminammo nel Giardino Inglese, dove tutto era giallo, rosso e arancione. Era assurdo come gli alberi potessero brillare così e allo stesso tempo si potessero provare tali dolori. Assurdo come nello stesso momento qualcuno potesse essere sdraiato in un letto, in una stanza d’ospedale buia, sotto una coperta grigia troppo pesante, vomitando ogni cibo, con un catetere di urina marrone accanto al letto. Assurdo come si potesse voler bene a qualcuno ma non poter fare nulla, nemmeno superare se stessi per guardarlo negli occhi. Assurdo parlare di verruche quando in realtà volevi dire quanto ti dispiaceva per esserti chiusa così.
Ogni giorno qualcuno della mia famiglia andava a trovarlo. Io non andavo. Preferivo restare a casa e fare passeggiate da sola allo stagno. Segretamente ero felice che fosse in ospedale. Ero felice che mamma non dovesse più cucinare continuamente soufflé e patate mentre lui non riusciva ancora a mangiare, e tutto il suo lavoro extra fosse inutile, tutto inutile, ma comunque il tempo scorreva via e lei non riusciva a starci dietro. Ero felice che fosse in ospedale e che io potessi mangiare normalmente di nuovo, senza la paura irrazionale che mi contagiasse con il suo malessere, senza le domande e le risposte irritate.
Poco prima del suo compleanno, suonò il telefono a mezzogiorno. Ero a casa perché mi sentivo male. Era l’ospedale. Lo zio era al telefono. Papà mise il vivavoce. “Oggi mi sento un po’ meglio!” Potevamo sentire il suo sorriso attraverso il telefono. I suoi valori erano migliorati dal nulla. Finalmente. Quel giorno la composta di mele mi piacque di nuovo. Più tardi, al suo funerale, il suo migliore amico avrebbe letto un messaggio di quel giorno: “Caro Thomas, sono felice di dirti che oggi mi sento un po’ meglio per la prima volta!” Tornai di nuovo allo stagno, con passi leggeri, e mi sentivo felice che lo zio sarebbe tornato presto con noi. Avrebbe avuto il pane secco nel secchio e poi avremmo dato da mangiare ai pesci, sperando che arrivassero anche i grandi e non solo i piccoli.
Il fine settimana successivo tornai da lui. Forse era la speranza che mi permetteva di guardarlo negli occhi quando mi salutò. Presto avremmo potuto di nuovo dar da mangiare ai pesci, insieme. Lui era seduto dritto nel letto. “Come stai oggi?” “Oggi mi sono alzato e sono andato in bagno”. “Molto bene!” Mi avvicinai a una sedia e mi sedetti accanto al letto. Sul tavolino accanto al letto c’era un piccolo vasetto bianco. “Quella è la pomata alla calendula?” “No, quella la spalmo sullo stomaco e sulla schiena”. “Ah!” Deglutii, guardando il muro della casa fuori dalla finestra, i triangoli colorati dentro la cornice rossa. “Posso spalmartela sullo stomaco?” Il mio collo si irrigidì mentre mi sentivo parlare. E se dovesse vomitare di nuovo? Già solo a pensarci mi veniva male. Fissai il quadro mentre aspettavo la sua risposta. Era difficile per lui almeno quanto per me. “Va bene!”, disse piano. Si girò di lato e sollevò un po’ la maglia del pigiama. Il suo stomaco era ancora gonfio e disteso. Sporgeva dal torace, sopra le costole visibili. Mi mordicchiai il labbro mentre vedevo il suo stomaco. Ma non potevo più tirarmi indietro. Con cautela posai la mano sul suo stomaco e lo accarezzai lentamente. Era gonfio. Meno morbido di quanto pensassi. Depositi di acqua. La sua pelle era piena di nei, grandi macchie marroni e piccole verruche che sentivo come irregolarità sotto il palmo della mano. Mi venne in mente quando da bambina massaggiavo la schiena di mio padre, che gli faceva sempre male. La sua schiena era piena di nei, proprio come quella dello zio. La pelle delle mie mani mi ricordava la sensazione delle diverse irregolarità. Come i muscoli tesi di mio padre, sentivo sotto la pelle tesa dello stomaco dello zio dei nodi che erano grandi, come un pugno, e cedevano un po’ quando li accarezzavo. Passai lentamente, con poca pressione, sopra quella sorta di colline, sotto e sopra la sua pelle, dalle costole all’ombelico e sulla schiena. Lo zio aveva gli occhi chiusi e sembrava molto calmo.
Non l’avevo mai toccato in quel modo. Conoscevo la sensazione delle mie piccole mani di bambina nelle sue, dalle innumerevoli volte in cui insieme andavamo al laghetto. Conoscevo la sensazione delle sue dita ruvide, delle verruche secche, che proprio ora erano scomparse. Mentre le sue dita si appiattivano sotto la mia mano, le sue guance, un tempo piene, si incavavano e le spalle si ritraevano, qualcosa cresceva sotto la sua pelle. La malattia si diffondeva dentro di lui contro le pareti del suo corpo, invisibile, inspiegabile. Anche il medico specialista non riusciva a fare altro che indovinare. Il suo corpo nascondeva le sue sofferenze, come anche lui nascondeva il suo dolore, le sue emozioni, la sua vita al di fuori dei fine settimana. La sensazione del suo ventre sotto le mie mani mi fece intuire. Mentre le mani scivolavano sulla sua pelle morbida e irregolare, pensai al laghetto. Pensai ai campi verdi e al cielo azzurro. Volevo che il cielo scivolasse dalle mie mani nel suo ventre, il cielo azzurro delle nostre passeggiate al laghetto, che non vedeva da settimane, perché la sua finestra non era che una facciata. Forse l’acqua nel suo ventre era il desiderio accumulato per il suo posto preferito. Con il cielo azzurro nelle mani, avrei sciolto i nodi e lasciato che l’acqua defluisse, affinché le sue gambe potessero sostenerlo di nuovo. Pensai ai vecchi pesci, con i loro grandi corpi grigi, mentre si spostavano lentamente nell’acqua, mentre le mie mani scivolavano sul suo ventre pieno di acqua. Eravamo entrambi muti, ma questa era la lingua in cui ci capivamo. Quando spostai il peso delle mie gambe, urtai con la tibia al catetere nel letto. Non dovetti soffocare, non dovevo nemmeno deglutire. Non mi disturbava. “Grazie, Anne!”, disse lui, quando finalmente staccai le mani da lui, molto più tardi. Lo guardai negli occhi, per la prima volta, dopo tanto tempo. Erano scuri, ma nella vuotezza brillava qualcosa. “Posso farlo volentieri di nuovo!” Prese la mia mano mentre ci salutavamo. “Ciao, Anne !” “Ciao, zio ! Alla prossima volta. Tornerò presto !”