I racconti del Premio letterario Energheia

Cotone, caffè e… , Martina Bonnet_Luserna San Giovanni(TO)

Finalista Premio Energheia 2025 – sezione giovani

Cercavamo uomini come noi…
Da tempo avevamo intrapreso il nostro viaggio, senza alcuna soddisfazione. Adesso eravamo stati
catapultati in un nuovo mondo, un mondo che ci avrebbe rivelato grandi cose.
Durante il viaggio avevamo perso ogni cognizione. Era il buio. Fui svegliato da frastornanti rumori e
un lieve bagliore colpì i miei occhi offuscati. Mi alzai voltandomi intorno in cerca del mio compagno
di viaggio, ma lì per lì non riuscii a trovarlo; iniziai dunque a chiamarlo a gran voce quando, dopo
pochi istanti, lo vidi, anche lui profondamente spaesato, girare su se stesso per tentare di scorgermi.
Lo raggiunsi in fretta, ma nessuno dei due sapeva che dire.
Ci sentivamo molto strani, ma strani davvero, inadeguati. Una sensazione così estraniante che non
ricordavo di aver mai provato prima d’ora. Intorno a noi numerosi individui si erano fermati ad
osservarci: ognuno aveva in mano una piccola mattonella rettangolare che produceva qua e là rapidi
lampi di luce. Qualcuno rideva, qualcuno gridava e vi si creò un enorme brusio. Presi dunque per il
braccio il mio compagno Jatshi e ci avviammo a cercare un angolo più tranquillo, tentando di lasciarci
alle spalle quell’immensa confusione; la cosa funzionò, ma tutt’attorno mentre ci allontanavamo i
volti di quella gente continuavano ad esaminarci. Pian piano poi la folla iniziò a dissiparsi e, uno
dopo l’altro, tutti se ne andarono. Ci guardammo negli occhi con sguardi di stupore; non capivamo.
Fu però forse proprio questa la ragione per cui decidemmo di inoltrarci in quel nuovo paese per
conoscere il mondo in cui eravamo capitati ed intrattenere qualche nuova relazione con le persone
del luogo, com’era nostro uso.
«Jatshi, guarda quante case e quanto sono grandi, chissà quante persone devono viverci!» dissi
mentre procedevamo. «Hai ragione Libelave, ma poi… che strano, io non vedo i campi! E in ogni
caso mi chiedo come fanno qui i padroni a concedere tutto questo lusso ai loro braccianti?» – «Ma
figurati, mica i braccianti vivono qui, saranno sistemati nelle periferie decadenti». Discutevamo così,
mentre osservavamo tutto ciò che ci circondava: era veramente bislacco, non vi erano spazi vuoti,
ma tutto era costruito; qua e là però vi erano delle zone verdi con alcuni alberi che ombreggiavano.
A forza di procedere giungemmo all’insegna di una larghissima via su cui sfrecciavano dei carri non
trainati da alcun cavallo: erano molto colorati, chiusi da ogni lato, tutti con quattro ruote, ma di
diverse dimensioni; alcuni erano piccoli, altri – spesso bianchi con qualche scritta – più grandi e poi
alcuni assai lunghi. Certi passavano così velocemente che non facevamo in tempo a seguirli con lo
sguardo. Fu Jatshi a farmi notare che dentro quei “carri” vi erano delle persone, in alcune ve n’era
solo una, in altre invece ve n’erano due fila, certi davanti e certi dietro. Lo potemmo scorgere meglio
quando ad un certo punto tutti i “carri” sulla nostra destra si fermarono uno dietro l’altro, fino a
formare un’interminabile fila; quelli sulla sinistra invece continuavano a procedere. Tutto appariva
curiosamente ordinato: in questo modo certamente alcuni passavano prima, altri dopo senza
incontrarsi. Solo quando da entrambi i lati tutti erano fermi, allora le persone a piedi si fiondavano
da una parte e dall’altra della strada.
Un singolare aspetto colpì la nostra attenzione: tutti camminavano con le teste rivolte verso il basso,
quasi a tener sempre d’occhio il movimento dei loro piedi. Jatshi curioso si avvicinò ad un passante,
ed io lo seguii da dietro: questo appena visto Jatshi aveva alzato lo sguardo e quando invece si
accorse di me iniziò a velocizzare il ritmo in direzione opposta alla nostra; la stessa cosa capitò ad
altri due nostri tentativi, entrambi falliti. Certo non erano così ospitali! Ci fermammo allora un
momento interrogandoci sulla causa di questa reazione: eravamo stranieri, ma non doveva essere
questo il punto, dato che già prima avevamo notato per le strade gente di colore e di pelle chiara camminare fianco a fianco e avevamo sentito persone interloquire in lingue diverse. Jatshi mi
guardò e mi disse tentennando: «Beh, vedi Libelave… forse la ragione non è che veniamo da lontano,
ma è per come siamo vestiti. Io indosso una camicia di lino e un paio di pantaloni dismessi dal mio
padrone, ma tu… sei coperto di stracci.» – «Non è colpa mia se il mio padrone non era ricco quanto
il tuo. Comunque hai ragione, la mia camicia consunta e i miei pantaloni di canapa grezzi e rozzi non
reggono quasi più. Dev’essere di gran lunga migliore ogni società che non riproponga simili
distinzioni!» – «Credo che qui saremmo soddisfatti. Potremmo inoltrarci a cercare qualcosa, vedo
moltissimi indumenti esposti negli empori qui ai lati della strada». Attraversammo quindi diversi
porticati e decidemmo di entrare in una bottega da cui uscivano flussi di persone con enormi borse
stracolme in mano: all’interno dell’emporio vi erano indumenti da ogni parte, moltissimi e di ogni
sorta di specie, così tanti solo lì dentro che si sarebbero potuti vestire gli schiavi di almeno un’intera
piantagione. E pensare a quante altre botteghe avevamo notato lungo la strada fino a quel
momento. Ci avvicinammo al bancone ed indicammo una camicetta dalle maniche corte. «Questa?
– fece il negoziante – È puro cotone, ad un prezzo bassissimo!». Jatshi si sentì chiamato in causa e
reclamò: «Com’è possibile che il prezzo sia così basso? Schiavi lavorano distrutti tutto il giorno per
coltivare piante di cotone». «Ma da che mondo vieni! Noi la schiavitù l’abbiamo abolita». A questo
punto del discorso mi inserii anch’io: «Vuoi dire che non avete più schiavi? E non ci sono neanche
padroni? E chi produce tutto?». «Si chiama “globalizzazione”, comunque certo che non abbiamo più
schiavi», ribatté nuovamente il negoziante; dopodiché uscimmo, osservando ancora tutte quelle
persone che prendevano e posavano abiti in continuazione.
Ammirati da quanto sentito, iniziammo a girare la città con volti stupefatti. Osservavamo gli empori
ricolmi di ogni bene e ci sorprendevamo sempre più di questo nuovo mondo in cui eravamo capitati.
Ragionavamo intanto fra noi: se non c’erano più schiavi voleva dire che la gente era felice poiché
non aveva padroni a cui obbedire e forse, pensavamo, se i prezzi erano bassi come diceva il
negoziante i poveri (ammesso che questi esistessero ancora) avrebbero potuto più facilmente
accedere anche a questi beni.
Non facemmo in tempo a discutere oltre che al margine del porticato, di fronte ad una ricca bottega,
si presentò a noi un’altra scena: accasciato in un angolo, avvolto da una coperta stava un uomo,
tutto rannicchiato su di sé senza nulla, solo un cappello di fronte a lui rivolto all’incontrario in cui un
paio di persone gettarono una moneta. Lo raggiungemmo per domandargli se avesse bisogno
d’aiuto, se per caso si fosse sentito male, ma ci rispose brutalmente: quella era la sua condizione,
diceva, così come molti altri in quel paese; nessuno si preoccupava di loro e non riuscivano a
permettersi un luogo dove stare; l’unica speranza era che qualcuno passando avrebbe portato loro
qualcosa. Ci sentivamo sempre più perplessi: mentre ci trovavamo accanto a quell’uomo, andavano
e venivano moltissime persone vestite dei più svariati colori, con grossi pendagli alle orecchie e
preziosi anelli alle dita. C’erano più differenze tra il povero accasciato a terra e la gente che circolava
per le vie della stessa città che quanta ne corresse tra noi e i nostri padroni. È vero che c’era un
ampio divario tra le povere condizioni in cui mi trovavo io e il benessere del mio signore, mentre
Jatshi godeva di privilegi a cui io non aspiravo perché il suo padrone era davvero molto ricco e
ostentava questa sua condizione anche attraverso l’aspetto dei suoi schiavi. Eppure ad entrambi
pareva immenso il distacco di quel pover’uomo a lato della strada dal resto della città.
Quando la nostra presenza divenne meno gradita ci alzammo e continuammo da dove eravamo
arrivati visto che utili non potevamo essere più di tanto. Jatshi mi sembrava intento a scrutare
qualcosa di nuovo ed infatti ad un tratto attaccò: «Libelave, ti ricordi che prima osservavamo le
persone camminare guardandosi i piedi? Beh credo non guardassero proprio i loro piedi, ma piuttosto quelle mattonelle rettangolari che tengono in mano. Sembrano tutte uguali, non capisco
cosa ci sia di bello…». «Senti Jatshi, hai ragione, siamo giunti qui per conoscere nuovi mondi e non
possiamo raggiungere il nostro obiettivo se non ci muoviamo». Così detto mi voltai, feci due passi e
mi trovai di fronte ad un uomo di giovane età: questa volta il signore mi notò ma non prese a
scappare come ci era capitato in precedenza. Gli chiesi a che cosa servissero quegli attrezzi e perché
tutti li guardassero continuamente: subito sembrò non avermi sentito e fece per andarsene, ma io
che non volevo farmi sfuggire nuovamente questa opportunità gli toccai la spalla. Quello si fermò,
si voltò e mi guardò con aria stupefatta e interrogatoria: «Ma scusami da dove vieni? Non puoi non
saperlo! Se non facessi caso alla tua faccia così perplessa e alla tua aria così ingenua mi verrebbe da
dire che vuoi solo cercare di truffarmi. Però… dai, facciamo in fretta: si chiamano “smartphone” e
hanno migliaia di funzionalità; puoi fare foto, video, chiamare gli amici o solo mandare messaggi,
contare i tuoi passi, i chilometri, le ore, puoi scrivere mail, testi, giocare, calcolare, controllare
l’allarme di casa, programmare il forno per pranzo e tanto altro; e ti ho detto solo pochissime
funzioni. Puoi veramente fare di tutto! Nessuno più ci vive senza, è il nostro compagno perenne.
Non incontrerai mai nessuno senza uno smartphone perché è così importante che ti puoi
dimenticare di tutto, ma non di quello. Immaginalo come una memoria esterna, può ricordati i tuoi
impegni, le tue centinaia di password, può persino scrivere interi testi solo con un tuo semplice
comando. Oh scusami adesso devo rispondere a tutti i messaggi che mi sono arrivati in questi minuti
in cui mi sono intrattenuto con te». Mentre lui muoveva freneticamente le dita, io stavo cercando
di immagazzinare alcune delle parole che il giovane aveva pronunciato, quando chiesi: «Ma questi…
eh come si chiamano…? Ah smartphone devono costare tantissimo perché moltissimi li hanno».
«Moltissimi? – fece lui – No, tutti! Uomini, donne, vecchi, bambini, malati, guarda là», e mi indicò
una mamma con un bambino piccolo piccolo in una culla che piangeva quante più lacrime aveva in
corpo; la signora sfilò dalla sua sacca uno smartphone simile a quello del giovane con cui parlavo,
che brillava di luci colorate, e lo posò nelle mani del bimbetto felice. «Ce ne sono di più economici
e di meno, gusti personali.», riprese ancora. «Ma non trovate più interessante osservare la natura
che vi circonda? – disse timidamente Jatshi. «Natura? E voi questa la chiamereste natura? Blocchi
di cemento ingrigiti impilati uno sopra l’altro o cantieri dismessi dietro i grandi negozi? No, nessuno
più crede che si possano migliorare queste città.» «Potreste andare a vivere nelle ville vicino alle
piantagioni, dato che gli schiavi non ci sono più.», insistemmo. Si mise improvvisamente a ridere
sempre continuando a guardare il suo smartphone, dal quale aveva staccato lo sguardo solo quando
gli si eravamo avvicinati. «Eh eh… la campagna, sì forse l’aria un po’ più pulita, ma gli uomini stanno
devastando tutto: diamo tanto spazio all’ambiente, grandi cartelloni verdi in tutte le vetrine, articoli
su articoli, cibi biologici, materiali rinnovabili e nuove fonti di energia, ma in sostanza – e qui la sua
aria divenne più seria – in sostanza non facciamo mai niente. Il cambiamento climatico distruggerà
tutto, quindi, che differenza fa… Bello conoscere gente nuova, ma ora devo andare.». E così ci lasciò.
Noi intanto riprendemmo a camminare, circondati da tutti questi individui che fissavano i loro
aggeggi: alcuni erano colorati, altri producevano brevi suoni, altri ancora emettevano voci che
discorrevano a lungo. Tutti procedevano in ugual modo, tutti con il capo chino. Io e Jatshi ci
meravigliavamo passo dopo passo: noi chinavano la testa solo in presenza del nostro padrone
perché così ci era stato ordinato, certo non per nostra volontà. Era proprio strano: padroni proprio
non se ne vedevano, neanche a cercarli tra quella moltitudine di gente che avevamo attorno, eppure
qui tutti avevano le teste piegate. Certo questo atteggiamento era dovuto dal fatto che ognuno
guardava il proprio smartphone, ma sembravano proprio camminare come degli individui
sottomessi, cosa assurda. Comunque aveva ragione, tutti ne avevano uno; gli unici che spesso non lo guardavano erano quelle persone che muovendo velocemente le loro gambe viaggiavano su veicoli a due ruote con grandi scatole azzurre o talvolta gialle sul retro del loro mezzo o direttamente sulle loro spalle. Ce n’erano a decine nella stessa via che sfrecciavano uno dietro l’altro per poi diramarsi in viuzze più piccole.
Raramente si fermavano, mantenevano i loro sguardi concentrati in avanti come se dovessero
vincere una lotta contro il tempo. Ci arrestammo a lato della strada per capire meglio chi fossero,
ma nessuno dei due riuscì a trarre nuove informazioni né a cogliere il motivo della loro spinta
forsennata. Continuammo quindi a vagare per il paese e dopo un lungo tratto rettilineo, svoltati un
paio d’angoli, ci ritrovammo di fronte ad un’imponente struttura dove vi era grande movimento. Ci
avvicinammo un poco per curiosare e fummo accontentati: era da qui che partivano tutti quelli
individui sui mezzi a due ruote! Ognuno di loro usciva dal fabbricato con pacchi e sacche che
riponeva nelle scatole azzurre, quelle che già avevamo notato prima. Celermente sistemava il tutto,
montava sul piccolo veicolo e in brevissimo tempo partiva alla volta di… eh non ci era ancora ben
chiaro. Nel frattempo altre decine di queste persone arrivavano allo stesso stabilimento,
scendevano, entravano, e dopo pochi istanti già erano di nuovo pronti a riprendere la via. Era
strabiliante come tutti agissero così velocemente e nello stesso modo: pochissimi si distinguevano,
tutti sembravano seguire uno schema rigoroso. «Sai Libelave, tutto questo mi ricorda molto quando
noi obbedivamo agli ordini del nostro signore; magari hanno anche qui dei padroni a cui sottostare»
mi disse Jatshi. «Non può essere possibile. Hanno insistito che qui schiavi non ce ne sono e dunque,
anche se questa faccenda non mi convince del tutto, non ci devono essere nemmeno padroni. Ma,
guarda là!». «Dove?». «Là, sotto quella tendina. C’è scritto “caffè”. Magari trovo qualche
compagno!».
L’entrata non era molto grande, poco decorata, ma dall’interno proveniva un gran brusio di voci che
si percepiva solo accostandosi. Aprimmo la porta, facemmo due passi, mentre già alcuni clienti
incuriositi interrompevano i loro discorsi, così mettendoci piuttosto a disagio: ci guardavamo
intorno, ma non vedevamo nessun uomo della nostra specie; nessuno vestiva abiti simili ai nostri e
nessuno aveva l’aria sofferta a causa del lavoro agreste. Il proprietario della taverna ci fece un cenno
di andare più avanti, squadrò i nostri visi e chiese: «Buongiorno, desiderate ordinare?». Jatshi pensò
che il suo turno di parlare fosse finito, dunque toccò a me interloquire: «Ordinare? Noi in realtà
cercavamo caffè… e in particolare chi lo lavora». «Scusate non credo di avervi seguito. Se volete del
caffè ve lo posso preparare in due secondi; aspettate qui e poi potrete accomodarvi a quel tavolo,
vicino ai tre signori sulla destra. Dunque, due caffè?». Annuimmo con la testa e seguimmo le
indicazioni del taverniere, che nel frattempo si era girato verso una strana macchina sotto cui aveva
posto due tazzine; premette un bottone e in men che non si dica nelle due tazzine colò un liquido
nero. Appena la macchina si fermò il taverniere prese le tazzine e ce le porse. «Eccovi serviti, due
caffè freschi freschi». «Questo è il nostro caffè? Come avete fatto a preparalo così in fretta e dove
sono chicchi e foglie?!». «Venite da molto lontano, eh? Niente più roba del genere, ormai le
macchinette ci salvano. Ci basta premere un paio di pulsanti ed è tutto fatto, altrimenti non
riusciremmo a stare dietro alla clientela!». Ci spostammo quindi sulla destra e raggiungemmo i
signori indicatici. Il tavolo stava vicino ad un grande vetro che dava sulla strada da cui eravamo
arrivati.
I tre uomini ci guardavano con aria stupita, ma non sembravano malvagi e anzi pronti ad attaccare
qualche piccolo discorso. «È strano come voi riusciate a fare tutto così in fretta, ma diteci, chi lavora
il caffè?», dissi dopo aver avvicinato la tazzina alle mie labbra. «Non lo sappiamo» fece uno con aria
di sfida, ma un altro lo interruppe «Invece sono quei poveracci dei contadini sfruttati dalle multinazionali dei paesi ricchi del mondo». «Sì – riprese il primo – ma noi dei contadini non possiamo
preoccuparci, qui abbiamo solo le multinazionali». Accortisi delle nostre espressioni interrogative ci
esplicitarono che cosa si intendesse per multinazionali e come queste funzionassero. «Non avete
notato tutti quei grossi camion per la strada con i marchi delle aziende? La maggior parte dipende
dai grandi enti, come dicevamo prima. – continuò il signore alla nostra sinistra – Ed anche tutti noi
ormai siamo trascinati da essi. Non possiamo più fare a meno di comprare ogni cosa sui loro siti: i
prezzi sono bassi, la scelta è ampia, gli ordini arrivano a casa tua entro pochi giorni». In questo
momento intervenne il terzo uomo, che fino ad allora si era limitato ad osservare la nostra
discussione. «Certamente, tutto per noi è facile, a discapito del resto di quel mondo che
consideriamo così lontano, ma che in realtà è invece così vicino. Noi stiamo bene, per così dire, e
per questo non ci preoccupiamo degli altri. Non possiamo nemmeno renderci conto di quel che
succede poiché nessuno ci informa». Sembrava di parere discordante il primo signore: «Come non
lo sappiamo? Non ci sono abbastanza post sui social o programmi in televisione o articoli di giornale
che ci mostrano le disgrazie del nostro globo? Io per quel che mi riguarda ne ho fin troppi: quando
capita qualcosa non si parla più d’altro». «No, mio caro – proseguì nuovamente l’uomo silenzioso –
pensiamo di conoscere tutto, ma in realtà è solo conoscenza effimera perché le informazioni sono
manipolate e poi siamo tutti molto bravi a sentire le nuove senza fare nulla a riguardo. Pensate
all’ambiente: la nostra società sembra molto sensibile a questo tema, ma nessuno si è mai
realmente sbilanciato a proporre qualcosa seriamente. Tutte parole, niente fatti.». Si creò un breve
momento di silenzio, che fu però subito troncato dalle parole del secondo signore: «Suvvia, non
dobbiamo lamentarci troppo. Tu – disse indicando il compagno seduto alla sua destra – sei ormai
sulla soglia della pensione e anche noi – facendo questa volta un cenno all’uomo seduto al suo fianco
– non siamo messi male: già avere un lavoro stabile è un miracolo per quest’epoca». «Ci sono
persone senza lavoro?» domandai interessato. «Oh sì, e tante» mi venne risposto con un sospiro.
«E non lavorano nei campi?» ribattei. «Beh dai, non ci sono più gli schiavi, siamo nel Ventunesimo
secolo. Se lavori nei campi forse forse sei ancora fortunato, o meglio ci sono condizioni peggiori. Ho
un amico che cercava lavoro da tempo, ma dopo non aver trovato nulla è stato preso come operaio
in una delle filiali di una grande multinazionale e ogni volta mi racconta come procede: ormai queste
enormi aziende hanno acquistato la fiducia della massa perché i loro sistemi funzionano bene; poi
in realtà nessuno sa come veramente si lavora in questi luoghi. Io ho questo amico, ma ammetto
che neanch’io prima di conoscerlo ne ero così al corrente. Ci sono ampie infrastrutture in cui
moltissimi operai lavorano insieme giorno dopo giorno, ora dopo ora; ognuno ha particolari
mansioni da svolgere, che ripete continuamente per non interrompere la catena. Non c’è tregua.».
Io e Jatshi intenti ad ascoltare incrociammo i nostri sguardi perché il racconto non ci suonava poi
così strano, com’era invece stato l’approccio a questa nuova civiltà che avevamo capito essere di
due secoli più avanti alla nostra.
Dopo le ultime parole, ringraziammo i tre signori della lunga chiacchierata poiché ci avevano
avvisato che per loro era giunta l’ora di andare: la luce del sole si stava infatti pian piano spegnendo
e dovevano tornare alle loro case. Io e Jatshi invece decidemmo di trascorrere un altro po’ di tempo
in quella taverna.
Ripensavamo a tutto ciò che avevamo visto e a che cosa ancora avremmo voluto vedere: il giorno
successivo ci sarebbe stato altro tempo, per esempio per incontrare uno di questi lavoratori a cui
erano affidati compiti assai monotoni e che si trovavano tutti insieme in ampie strutture. «Anche
noi in effetti dovevamo svolgere sempre le stesse mansioni quando eravamo nelle piantagioni;
ricordi, vero, Libelave?». «E come potrei dimenticare, Jatshi?» gli risposi. «Nonostante tutto però – continuò lui – pare che qui non vi siano ancora padroni, come i nostri che facevano di tutto pur di
non lasciarci scappare.». «Padroni forse non ce ne sono, ma che ne dici allora del comportamento
della gente di questo posto? Deduco che neanche una sola parte di loro debba sottostare ad un
signore, altrimenti verrebbero chiamati schiavi anche loro. Qui però ci hanno ribadito tutti che la
schiavitù è stata abolita dunque posso credere di aver ragione…». Continuando a parlare Jatshi riuscì
a farmi venire altri numerosi dubbi, che si aggiunsero a tutti quelli che già circolavano nella mia
mente. «Non lo possiamo sapere: forse qui la schiavitù è diversa da quella che abbiamo conosciuto
noi o pensa… magari qualcuno non si rende conto di essere schiavo.». «Mi sembra alquanto
improbabile che qualcuno non lo realizzi, ma potresti avere ragione, Jatshi; la condizione di questi
schiavi potrebbe essere così diversa dalla nostra quasi da non farci più caso. Conosciamo ancora
poco di questa società, approfondiremo le nostre ricerche.». Le nostre parole si interruppero qui
poiché il taverniere ci disse che doveva chiudere bottega e che non saremmo potuti rimanere più a
lungo; ci alzammo dal tavolo e uscimmo in strada.
Non avevamo mai visto nulla di simile: la città era illuminata in ogni sua parte e molti luoghi erano
ancora affollati. Qui la gente proprio non se ne andava mai. Il Sole era ormai scomparso, ma il
tramonto non l’avevamo potuto vedere poiché le grandi strutture coprivano l’orizzonte. Allo stesso
modo la grandissima quantità di luci precludeva la vista delle stelle, quelle stelle che tante volte noi
schiavi avevamo dovuto vedere, quelle stelle compagne che spesso ci seguivano fino alla fine delle
nostre ore di duro lavoro.
Cercavamo uomini come noi, ma in questo luogo non li avevamo trovati: non avevamo incontrato
gente che portava i nostri stessi abiti o che si sentiva come noi, non avevamo trovato nessuno che
anche solo ci avesse capito. Che i nostri simili avessero cambiato nome? Non lo scoprimmo mai.
Tuttavia, nonostante la diversità, sentivamo che qualcosa di quello che noi stessi avevamo vissuto
era rimasto anche in questa società. Continuavamo a percepirci diversi da tutti gli altri e inadeguati,
ma se da un lato vivevamo la curiosità di approfondire ancora, dall’altro sentivamo nostalgia di quel
mondo da cui provenivamo: un mondo che ci aveva fatto tanto soffrire, eppure che corrispondeva
pur sempre per noi a quel luogo chiamato casa.