I racconti del Premio letterario Energheia

Zara 1944_Cristiano Scavongelli, Francavilla a Mara(CH)

_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia 2000.

 

Ci può essere pace in questo mondo?

Ci può essere?

Ci può essere?

Un altro posto.

Un altro giorno.

Delle altre persone.

Ma il risultato è lo stesso.

L’onda d’urto gli piegò le ginocchia, mentre un torrente d’aria lo investiva in faccia, gli premeva il torace, gli scarmigliava i capelli.

Sentì il respiro restargli in gola, senza scendere giù, fino ai polmoni.

Polvere e sassi piovvero dalla cresta dell’onda, detriti e frammenti di roccia gli sferzarono il corpo, mentre lo sentiva accasciarsi, mentre la mente vagava, altrove, mentre la sua anima si separava dalla carne.

Avvertì una puntura nella fronte quando una scheggia gli si conficcò nelle tempie. Sangue sprizzò dalla ferita, un rivolo gli colò lungo gli zigomi e si raccolse in bocca. Il sapore salato del suo sangue si diffuse nella bocca, straripò nel palato, dilagò nella mente.

Cadde all’indietro, avvertì il vento che gli scagliava i capelli sulle guance, la roccia che gli trapanava gelida il cranio, mille aghi sottili che si insinuavano nel suo corpo. Batté il capo sulla dura terra iugoslava, spaccata dal sole, corrosa dal vento. Gli occhi salirono verso il cielo, le nuvole straripanti nell’azzurro, e scorse il nero Uccello della Morte allontanarsi nel vento.

Le mani graffiarono la terra, le unghie si spezzarono, i capelli gli si appiccicarono sulla fronte, intrisi di sangue. Non riusciva a rendersi conto di quello che era successo, l’intero significato del mondo andava sparendo in una nebbia crepuscolare, mentre il sole cercava di nascondersi sotto le onde. Sapeva che qualcosa doveva essere successo, qualcosa di orribile, ma la sua mente non riusciva a collegare quell’inferno con la sua vita, con niente che lo riguardasse. Spostò lo sguardo sulle macerie sulle quali la polvere andava depositandosi: un cratere spiccava poco lontano, mentre persone iniziavano a lamentarsi, a piangere.

Spirali di fumo s’impennavano verso il cielo, fondendosi con le nuvole.

Scorse qualcuno alzarsi in piedi e correre verso il cratere. Sembrava piangere mentre Carlo, la testa poggiata su un duro cuscino di roccia, le dita conficcate nella terra, le gambe piegate sotto il corpo, non riusciva a collegare il cratere con (Dio santo!) se stesso. Lampi rifulsero nel cervello, luci si accesero dietro le palpebre abbassate. Carlo si alzò sulle ginocchia e le gambe gli lanciarono urla di dolore. Qualcuno era ancora a terra, qualcuno si lamentava, qualcuno stentava ad alzarsi. E tutti erano uomini: non riuscì a scorgere nemmeno una donna. O un bambino.

L’aereo luccicò contro una collina poco distante, poi fu avvolto dalle fiamme.

E la realtà lo trafisse e la consapevolezza si abbatté su di lui, fiume in piena, mare in burrasca. Si sentì mancare, mentre la gambe gli cedevano di nuovo sotto il peso della verità. Cadde in ginocchio, sapendo che questa volta sarebbe stato difficile alzarsi, sapendo che poteva comodamente dire addio a tutto ciò per cui era vissuto fino a quel momento, sapendo che ormai era tutto finito.

Sotto le macerie, dentro il cratere, c’era la sua famiglia.

Spirali di fumo s’impennavano verso il cielo, fondendosi con le nuvole.

L’acqua sciabordava contro la chiglia, mentre spruzzi salmastri salivano verso il cielo, portati dal vento. Sentiva la prua salire e scendere sotto di lui, l’odore del male diffondersi nelle narici, il vento accarezzargli i capelli. La ringhiera era fredda sotto le mani, come un pezzo di ghiaccio toccato nel carretto dei gelati di quel furbone che ogni domenica mattina ti rapina (lire) di gelato e tu non puoi fare a meno di comprarlo perché altrimenti i tuoi figli si mettono a piangere e tua moglie starnazza come un’oca e ti chiede ma perché sei così tirchio non so proprio perché ti ho sposato è proprio impossibile vivere con te e pensi solo a te stesso e non fai mai niente per la tua famiglia e tu ti devi mostrare scocciato o tapparti le orecchie per non far saltare tutto il divertimento della classica lite domenicale mentre invece sai che non è vero niente di quello che ti gira intorno e che è tutta una finta perché tua moglie e i tuoi figli si vogliono divertire alle tue spalle e perché anche tu così facendo Ti diverti.

Ma non era per niente allegro, non in quel momento. Eppure avrebbe dovuto esserlo: la traversata era andata persino meglio del previsto, a parte quella burrasca che avevano incontrato vicino le Tremiti, davanti alle coste della Puglia. Ma quello era un dettaglio facilmente trascurabile se messo a confronto con il resto del viaggio. Avevano trovato mare calmo e sole alto nel cielo per tre o quattro giorni dopo la partenza, poi erano incappati in una burrasca e quel che rimaneva della sua forza era bastato a tenere il mare a forza tre per il resto della traversata.

In fin dei conti quella era stata una gran bella tempesta, abbastanza forte per dare problemi alla nave ma non sufficiente per spaventare il capitano. Ma non era questo che lo angustiava, non ora che si trovavano a poche miglia nautiche dall’imboccatura del porto.

No, non era questo. Era qualcosa di più remoto, qualcosa che difficilmente sarebbe riuscito a isolare dal resto dei suoi pensieri. Ma di una cosa era certo: era qualcosa che riguardava la sua famiglia, sua moglie e tutti e tre i suoi figli.

Carlo non si riteneva superstizioso, anche se a volte gli veniva spontaneo fare le corna quando vedeva un gatto nero o quando sua moglie rompeva uno specchio. Ma questi atteggiamenti erano qualcosa di acquisito, non di naturale. Aveva iniziato a fare gesti scaramantici dopo il terzo passaggio per Napoli, dove aveva conosciuto un venditore di statuine per il presepe, nonché cornetti rossi portafortuna e crocifissi in legno scolpito.

L’aveva trovato simpatico subito dopo il suo primo acquisto, quando Carlo aveva dovuto sudare almeno una dozzina di camicie per estorcere da quel gran furbo di un napoletano un prezzo decente per un crocifisso da riportare a casa. Poi l’aveva incontrato più volte, dato che la sua bancarella l’aveva sulle banchine del porto, ora più su, ora più giù, ma sempre bene in mostra e, man mano che approfondiva la sua conoscenza per quel buffo tipo, aveva scoperto quanto superstiziosi si possa essere. Questi, infatti, non usciva mai di casa se non aveva con se tre o quattro cornetti e sicuramente (Carlo non l’aveva saputo per certo ma non avrebbe osato non crederci) era tipo da mettersi a piangere e fare scongiuri se si rompeva accidentalmente uno specchio.

Aveva insistito perché accettasse in dono uno di quei famosi cornetti, né Carlo aveva avuto il coraggio o la pazienza per tentare di fargli capire che lui non credeva a queste cose. Così Carlo si era ritrovato con un amico napoletano in più e una tasca appesantita da almeno un paio di cornetti.

E ora, tastandone uno che aveva preso l’abitudine di portare sempre con sé, si ritrovò a pensare suo malgrado a quello che aveva visto (o almeno gli era sembrato di vedere) nella tempesta.

Rivide il sartiame cede sotto i colpi del vento, ma non è un danno irreparabile. Il capitano sembra tranquillo mentre getta ordini con voce stentorea dal ponte di comando, ma nessuno può esserne sicuro, non in questi frangenti.

Nessuno può starsene con le mani in mano mentre corde e vele cadono sbrindellate sul ponte, mentre onde alte quanto la chiglia s’infrangono sulle fiancate. Bisogna che ognuno faccia la sua parte, che tutti contribuiscano alla salvezza della nave e di tutti gli altri membri dell’equipaggio.

Carlo ora deve ammainare l’unica vela ancora intera prima che il vento la faccia a pezzi come le altre. Così cerca di tirare una fune, mentre spruzzi d’acqua salata gli finiscono sul volto e negli occhi, accecandolo. I verricelli stridono sopra di lui ed è quello il momento in cui sente che qualcosa sta per succedere, e se non proprio a lui alla sua famiglia. Un formicolio gli pervade la schiena, mentre continua a tirare come un idiota quella fune. Poi la vela si squarcia e la fune frusta l’aria satura d’elettricità. Carlo è spinto sul ponte dalla forza d’inerzia e sente la schiena stridere contro le tavole di legno.

Ma quella sensazione non l’ha abbandonato, e a un certo punto sente quasi che con un piccolo sforzo gli sarà possibile guardare oltre le nebbie del tempo. La certezza sta ormai prendendo il posto del dubbio e non è una bella sensazione. Si aspetta quasi di scorgere delle tombe, anonime, sulle quali pian piano compaiono i nomi dei suoi cari. È orribile, ma non può fare niente per farlo smettere, può solo chiudere gli occhi alla pioggia e aspettare che passi di nuovo quello che neanche quei cornetti avevano potuto evitargli, ma senza nessuna speranza di uscirne indenne. Ma almeno poteva sedersi su un mucchio di cordami e aspettare che montasse la marea, così sarebbero potuti entrare nelle acque calme del porto di Zara e lui avrebbe potuto riabbracciare la sua famiglia.

Ma non riusciva a riappacificarsi con il suo cuore, mentre il tormento gli dilagava in ogni angolo dell’animo. Doveva scendere a terra subito e correre a casa, così avrebbe aperto la porta, scavalcato i giocattoli che Sandro lasciava sempre in mezzo ai piedi e riabbracciarli tutti, a partire da Giovanna, sua moglie.

Perciò ora sarebbe salito sul ponte di comando e avrebbe chiesto al comandante il permesso di scendere subito a terra, non avrebbe potuto negarglielo. Avrebbe gettato in mare una di quelle lance a motore che la nave continuava a portarsi dietro senza che venissero mai usate e si sarebbe fatto calare dentro. Avrebbe poi varcato le onde e il porto e, con un sol balzo, sarebbe stato a casa.

Salì in fretta le scalette che portavano al ponte di comando e si avvicinò alla porta del ponte. Ora, alla fine, aveva qualche rimorso e non poca paura. Che cosa avrebbe fatto se il comandante gli avesse negato il permesso di andarsene prima degli altri? In fondo non era un’eventualità prevista dal regolamento, quella di concedere a un marinaio di discendere a terra prima della nave, ma le regole esistono per esser infrante.

Poggiò la mano sudata sulla maniglia di ottone. Il metallo gli sembrò gelido sotto le dita.

Spinse debolmente. Le tenebre inghiottirono l’interno.

C’era solo una lampada ad illuminare la casa. Le tendine erano abbassate, a dispetto del sole che sfolgorava all’esterno. Solo spicchi di luce spettrale penetravano di tanto in tanto dagli strappi nelle tendine vecchie e corrose. Sembrava quasi di essere sotto la minaccia di un imminente attacco aereo, quando si era costretti ad oscurare le case, abbassando le tendine, spegnendo ogni luce, cercando in ogni modo di offrire il minimo bersaglio possibile agli incursori.

Avanzò di un passo nell’interno, poi si fermò di nuovo. Già da prima, quando aveva poggiato la mano sulla maniglia della porta per entrare, un gelido timore gli aveva percorso la schiena. Sembrava quasi che quella non fosse la casa di una normale famigliola con tre bambini sempre in giro a fare danno, ma somigliasse in modo inquietante ad una cappella ardente.

E infatti non gli era parso di sentire nessun rumore, benché spesso il chiasso che facevano i suoi figlioletti era facilmente udibile perfino nella tromba delle scale. Aveva poggiato l’orecchio alla porta e poi aveva bussato, aspettando di sentire i passetti veloci e le risate gioiose di Sandro, il più piccolo dei tre, ma non era venuto nessuno ad aprirgli, né era stato ricevuto dal consueto comitato d’accoglienza, quello formato dai suoi figli.

Allora aveva infilato la pesante chiave d’ottone nella toppa e l’aveva girata lentamente, cercando di fare il minor rumore possibile. Gli era venuto il dubbio che non l’avessero sentito, che forse stavano tutti dormendo, e ne era stato così convinto da riuscire persino ad immaginarsi la scena. Vide Giovanna seduta sul divano, gli occhi placidamente chiusi, mentre Sandro le distende la testa sulle ginocchia, mentre i piedi penzolano da sopra i braccioli. Contemplò la moglie con le braccia intorno alle spalle degli altri due bambini, Giancarlo e Roberto, e ad un certo punto quasi gli sfuggì un sospiro di sollievo al pensiero che tutte le sue preoccupazioni erano infondate.

Non sapeva come, ma era riuscito a convincere il capitano. Certo all’inizio questi aveva un po’ strepitato, anche se dire un po’ è un pochettino riduttivo, ma in fin dei conti era un brav’uomo e Carlo era riuscito a strappargli quel tanto sospirato permesso senza essere costretto a gettarglisi ai piedi e abbracciargli le ginocchia.

Poi non c’erano stati episodi di sorta durante la breve traversata dalla nave al porto e Carlo, ormeggiata in fretta e furia la lancia a motore, si era precipitato a casa sua, poco distante dalle banchine. Aveva salito le scale, tre piani di scale, senza mai concedersi un momento di sosta e solo intorno agli ultimi due pianerottoli era stato costretto a fermarsi con i polmoni svuotati dell’ossigeno. Aveva poi salito le ultime due rampe di scale con più calma, per riprendere fiato, ma si era accostato all’uscio ancora con il fiato corto.

All’inizio era più allegro, certo, sicuro, come no, era felice per esser di nuovo a casa e perché appena dietro cinque centimetri di legno avrebbe trovato un degno calmante per le sue preoccupazioni.

Ma ora, appena al di là di quei cinque centimetri di legno, non era più sicuro di niente.

Osservò il divano vuoto, opaco nella scarsa luce irradiata dal sole di mezzogiorno, e gli parve polveroso, come se più nessuno lo avesse utilizzato da chissà quanti giorni. Poi però la sua mente trovò una spiegazione che per qualche secondo gli sembrò ragionevole: forse non avevano usato più il divano da quando era iniziata l’estate, perché in effetti, lì, sotto quella finestra fa veramente caldo, quando il sole ci si mette d’impegno. Forse ora dormono tutti nella stanza di Sandro, dall’altro lato della casa, perché in fondo era da lì che proviene quella lucetta, e forse quella luce significa che hanno aperto un po’ la finestra per ricevere un po’ di frescura, forse…

Il corso dei suoi pensieri si bloccò di colpo, come se fosse stato tagliato da un colpo di mannaia, quando sbirciò per la prima volta dopo tanti mesi nella stanza del suo ultimo figlioletto. Si appoggiò allo stipite, mentre la testa gli ciondolava inerte sul collo, gli occhi strabuzzati, fissi sulla figura emaciata che giaceva nel letto di suo figlio.

Per alcuni lunghi, penosi minuti non riuscì a muoversi. Poi Giovanna girò lentamente la testa verso di lui. Aveva i capelli lunghi sciolti sulle spalle, gli occhi rossi e gonfi dal pianto, le guance, un tempo rosee e fresche scarne e pallide. Teneva una mano sulla testa di Sandro, mentre lui gliel’accarezzava con la propria, delicatamente.

Infine Carlo riuscì a scuotersi, a gridare al suo corpo di muoversi, anche se questo si rifiutava caparbiamente di avanzare, di avvicinarsi a quel letto di morte. Cadde in ginocchio vicino al letto, all’altezza del volto di Sandro e gli prese il volto tra le mani. Scottava, e gli occhi colmi di tristezza che lui gli rivolse erano lucidi per la febbre,

(Requiem aeternam)

pieni della certezza che i giorni lieti erano ormai finiti e che

(donat eis, Domine,)

non sarebbero mai più tornati. Carlo gli scostò i capelli dalla

 (et lux perpetua)

fronte, sicuro che presto le sue lacrime lo avrebbero inondato.

(luceat eis)

E quegli occhioni azzurri, quegli occhioni da cucciolo, quegli occhioni che tanta gioia gli avevano dato ogni volta che tornava a casa si chiusero su guance emanciate, e un ultimo respiro sfuggì da quelle labbra pallide che avevano conosciuto solo il sorriso.

E fu solo silenzio.

– Requiescant in pace. –

Amen.

Risuona placido nell’aria mattutina, quasi che non sia stato detto da nessuno ma che in molti l’abbiano pensato. Ed è questa l’unica cosa che resta, dopo la sepoltura: niente. Quei pochi passanti che per chissà quale ragione hanno deciso di fare un salto al cimitero, forse per trovare qualche parente, forse per puro sfizio, nessuno lo sa. Certo è che nessuno è riuscito davvero ad esserci, nessuno è riuscito almeno a far finta di essere commosso, nessuno ha pianto lacrime di coccodrillo davanti alla tomba di un bambino morto.

Poi tutti se ne vanno, pronunciando quel fatidico ‘Amen’ con un sospiro di liberazione, perché quella noiosissima predica (in latino, per giunta) che il prete di turno ha imbastito alla bell’e meglio per i suoi sparuti fedeli è finita, perché anche per un bambino pieno di sogni è finito tutto, se n’è andato il tempo della gioia e dei divertimenti.

Ma almeno, si dicono, non è mai stato preoccupato.

Vallo a spiegare ai suoi genitori o ai suoi fratelli. Prova a vedere se il padre ti dirà qualcosa di diverso da un placido ‘Crepa’, oppure se avrà la forza per risponderti qualcosa. Perché la verità è questa, non trovi mai qualcuno che ti stia intorno, che sia davvero partecipe del tuo dolore, soprattutto quando ne hai più bisogno. Ma cosa puoi farci, possono dirti, non pensarci più e vieni a farti un goccetto.

E la cosa peggiore è che hanno ragione, tu non puoi farci niente, assolutamente niente, e che se segui i loro consigli può darsi che riesca a dimenticare, a fare in modo che i tuoi ricordi non ti assillino più, ma ricorda che i risultati saranno più effimeri di quanto tu riesca a immaginare.

Perché se inizi, non necessariamente con un bicchierino, basta anche una parola detta fuori posto in quei momenti in cui tua moglie non può fare altro che trattenere le lacrime e mostrarsi felice anche se non lo è, quando i suoi nervi sono più fragili di uno di quei castelli di carte che tuo nonno ti ha insegnato a costruire, allora a quel punto stai pur sicuro che il morto non è solo tuo figlio, ma anche tu lo sei, e con te moriranno altre persone se non te ne fai una ragione.

Sì, è così, tu sai che è così, so che lo sai, ma non riesci ad accettarlo.

Ricorda: non puoi farci niente. Puoi piangere, strillare, strapparti i capelli, mandare tutto il tuo repertorio di bestemmie e maledizioni a chi di dovere, ma il risultato sarà lo stesso: non cambierai niente. Il passato è il passato, lì è e lì rimane, non puoi modificarlo. Pensalo come un foglio di carta scritta, come uno di quelli sui quali scrivi il tuo diario: hai mai pensato di andarlo a riguardare? Hai mai pensato alla possibilità di cambiarlo?

Che risultato avresti ottenuto, in ogni caso? Saresti solo riuscito a distruggere un po’ di quei bei giorni che hai trascorso insieme con la tua famiglia, o con i tuoi amici. Potresti forse cambiarlo su quei pezzetti di carta, potresti forse riscrivere là dove l’inchiostro è sbiadito, ma così facendo non riporterai in vita nessuno, né tuo figlio né la tua anima.

Ecco, ora guarda uno di quei foglietti bianchi che tieni nel taschino, di quelli che hai comprato l’altro giorno dal tabaccaio: quelli sono il tuo futuro. Pezzi di carta bianca che non aspetta altro che di essere scritta. Il futuro non sa nessuno come sarà, nessuno può prevederlo: forse potrai sapere cosa farai durante la serata, oppure cosa vedrai nel tuo prossimo viaggio, ma non potrai mai essere sicuro di niente finché questo non sarà accaduto.

Il tuo futuro lo devi ancora creare, perciò evita di piangerti così tanto addosso e cerca un po’ di risollevarti il morale. Può darsi che vivrai altri giorni belli oppure brutti, ma una cosa è certa: quello che ti accadrà domani sarà in parte opera tua, che sia un bello o un brutto giorno.

Perciò guardami adesso, papà: vedi di tirare avanti e di fare contenta la mamma. E anche se ti senti solo, soprattutto ora che i passanti se ne sono andati e il funerale è finito, anche se ora c’è solo una lapide e un po’ di terra dove sarei dovuto essere io, anche se verranno giorni in cui ti sentirai così stanco dal non riporre più speranze nel tuo futuro, sappi che potrai sempre contare su di me.

Bene, vedo che sorridi: è un buon segno. Domani per ricompensa ti porterò a pesca con me, al Fiume oltre il cortile della scuola, e poi forse potremo andare a lanciare degli aquiloni. E se a sera, quando torneremo a casa potrò dire che ti sei comportato da bravo bambino, forse (e dico forse, eh) ti comprerò un gelatino. Ma bada bene, però: non ti prometto niente.

In cambio fa’ una cosa per me, papà: allontanati dalla città, e in fretta anche. Sento qualcosa, sento che ti sta per accadere qualcosa di brutto, ma non so spiegarti né come lo so né cosa sarà. Ma tu vedi di andare il più lontano possibile da Zara, e anche il più in fretta possibile.

Ricorda, in ogni caso, qualunque cosa succeda: io sarò con te, sempre.

Sempre.

 

Carlo si svegliò di soprassalto, i capelli madidi di sudore, il cuore che gli batteva furiosamente in petto. Aveva sognato qualcosa, finalmente aveva sognato. Non sapeva spiegare che genere di sogno fosse stato, ma una cosa era certa: aveva sognato Sandro.

Era passata ormai una settimana da quando Sandro aveva raggiunto la sua ultima dimora e da allora Carlo non aveva fatto altro che piangere. Certe volte si riteneva uno stupido a fare così, si diceva che doveva essere forte, ma il dolore era troppo forte per lui.

Così aveva continuato a piangere e a piangere e a piangere, senza mai smettere, fino a quando era crollato esausto in un sonno senza sogni, dove unico re era la Notte. Era stato congedato dal suo capitano, anche se sarebbero dovuti partire solo fra altri quindici giorni, ma questi dava per scontato che per quanto fosse ben temprato, Carlo non ce l’avrebbe fatta a tornare quello di prima, non in un così ristretto lasso di tempo.

Mangiava appena, tormentato dal dolore. C’era solo quello ormai a riempire le sue giornate. A nulla serviva il bel sole che splendeva fuori, né le belle giornate che si susseguivano incessanti. Non riusciva quasi ad uscire di casa, non trovava la forza di sfidare di nuovo quel mondo che, d’un tratto, si era fatto così cupo e triste ai suoi occhi.

Evitava i luoghi frequentati, soprattutto quelli che erano luoghi di ritrovo per torme di bambini festanti, perché gli ricordavano i bei giorni passati a giocare con i propri bambini.

Ma finalmente qualcosa era cambiato. Non era sicuro di cosa avesse sognato, tutto era coperto dalla nebbia. Ricordava solo che aveva visto Sandro e che questi lo aveva consolato come meglio aveva potuto, poi più nulla. Ma qualcosa gli era rimasto, qualcosa di inintelligibile ma che per lui significava qualcosa, anche se solo a livello inconscio.

Sapeva che dovevano andarsene da lì.

In fretta.

Rodolfo Civitarese detto Raul sognava di diventare un pilota, o almeno di salire su un aereo, fin da quando era un bambino. Adorava i bombardieri ma stravedeva per i caccia: era il suo sogno, il suo sogno era l’aria e il suo mondo era tra le nuvole. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire una volta, almeno una volta, il motore ruggire davanti la cabina, le eliche iniziare a girare vorticosamente, l’aria infrangersi contro il vetro.

E a quel punto avrebbe tirato a sé la manetta e avrebbe ritirato i carrelli. Avrebbe osservato il cielo inghiottire la terra con gli occhi di un bambino che fa’ la sua prima escursione in giardino; avrebbe osservato le nuvole allargarsi fino a invadere l’azzurro del cielo e lui ci si sarebbe tuffato dentro, perché la sua vita era là, oltre quella coltre di batuffoli d’ovatta.

Naturalmente quando gli era arrivata la lettera che lo chiamava alle armi, aveva accolto con gioia la notizia, perché solo così avrebbe potuto sperare di diventare un vero pilota e sfidare i cieli. Ma la vita di caserma l’aveva deluso oltre che rattristato: si era immaginato la caserma e i soldati come qualcosa di più simile alla Legione Straniera che allo Spielberg di Pellico. Forse come paragone può sembrare un po’ azzardato ma per lui, abituato all’aria aperta e alla vita allegra e spensierata, il regime militare gli era sembrato così oppressivo da portarlo sul punto di gettare tutto alle ortiche, cieli e aviazione.

Però, come Dio volle, l’addestramento finì e Raul ne uscì vivo e ancora con la testa a posto. Finalmente avrebbe potuto coronare quel sogno che si portava sulla schiena fin da quando era bambino, finalmente avrebbe potuto cavalcare uno stallone del cielo e tentare di domarlo. Ma le cose non erano andate proprio come si aspettava.

Era stato mandato al reparto bombardieri, dove avrebbe dovuto volare come pilota. Non era come pilotare un caccia, con il quale assaporare la gioia dell’immensità, ma era pur sempre qualcosa, e Raul si sarebbe accontentato. Perché sapeva che se si fosse rifiutato avrebbe dovuto dire addio a tutti i suoi sogni davanti alla Corte Marziale, e se anche non lo avessero condannato a morte, sarebbe stato scacciato con disonore dall’esercito e rinchiuso per chissà quanto tempo in uno dei tanti carceri Italiani.

Ed era per questo motivo che ora si trovava a dirigersi sopra una piccola città jugoslava, qualcosa come Zorro, non ricordava bene.

Giunti sopra questo paese lui si sarebbe accontentato di pilotare l’aereo in un breve raid, mentre gli uomini addetti all’armamento avrebbero dovuto provare a fare più danno possibile.

All’inizio gli era sembrata una cosa emozionante: la sua prima azione in combattimento. Gli sembrava chissà che, anche se sapeva che quel giorno avrebbe volato per uccidere gente, e non si preoccupava più di tanto che per merito suo molte persone non avrebbero visto il tramonto e molte altre avrebbero forse perso le gambe, o le braccia, o la vita.

Iniziò una lenta cabrata a circa una decina di chilometri da Zara, in modo da portarsi il più in alto possibile perché così facendo le bombe che avrebbero sganciato, avrebbero avuto più tempo per incrementare la loro velocità e il loro potenziale distruttivo. E più persone non sarebbero sopravvissute. Sapeva bene che avrebbe dovuto iniziare l’ascesa già da almeno altri venti chilometri, ma ci teneva a vedere l’obiettivo, prima di distruggerlo.

Dall’ampio abitacolo Zara non gli sembrava altro che un porto con attaccato un paesello di pochi abitanti e, alla luce di queste supposizioni, Raul non si riusciva a spiegare il perché di una missione tanto costosa per un paese come quello. Il mare che luccicava alla sua destra lo scosse e per un istante gli parve di vedere il mare che si ritraeva e che al suo posto comparivano luci di una giornata di festa.

Man mano che salivano poté rendersi conto che Zara era tutt’altro che un paese scarsamente popolato, ma quasi una metropoli, nel suo piccolo. L’aereo sprofondò in una coperta di nubi e ne uscì in uno sbuffo di luce accecante. A quell’ora si dovevano trovare all’incirca sulle prime propaggini della città, ma voleva esserne sicuro prima di annunciare il raggiungimento dell’obiettivo.

Sotto di lui le nubi si squarciarono in uno sprazzo di terra e a quel punto Raul premette un pulsante sui comandi. Una spia si accese nella consolle dell’addetto all’armamento e questi posò un dito su una fila di interruttori, quelli che controllavano il vano bombe. Raul poteva vedere la tensione crescere sui volti dei suoi uomini.

Erano tutti novellini, lui compreso, e per tutti era la prima missione.

Scorse una goccia di sudore scivolare sul mento dell’addetto agli armamenti e stillargli nella camicia. Questi gettò un rapido sguardo alla città sotto di loro, tutto l’aereo taceva. I motori ruggivano costanti.

Gli interruttori caddero.

Il vano bombe si aprì.

Una parete si sbriciolò nella tempesta, una nube di polvere si levò quando i mattoni colpirono la strada, il rombo delle esplosioni riempì l’aria. Tetti si vaporizzarono mentre cascate di mattoni si riversavano sulla gente in fuga, vetri svanirono, case furono distrutte. Fumo saliva verso il cielo, nubi plumbee si addensavano sopra le macerie, l’ululato della sirena delle incursioni aeree strideva cupa.

Carlo corse lungo la via principale della città, come tante altre persone insieme con lui, ma un obiettivo l’aveva: il rifugio antiaereo.

Nessuno sapeva per quale assurda ragione questo rifugio fosse stato costruito fuori città, così fuori mano, perso fra i campi, ma era l’unico luogo, più o meno, sicuro in cui i cittadini potessero rifugiarsi. In realtà non era stato edificato con l’avvento della guerra, ma esisteva già da prima degli anni Venti, e forse era servito nella Grande Guerra ed era stato semplicemente ripulito per ospitare chi avesse avuto abbastanza fortuna da attraversare indenne la città sotto bombardamento.

Naturalmente voci maligne avevano già da lungo tempo sparso la voce che quel rifugio era tutt’altro che sicuro, cosa probabilmente vera ma che nessuno si era dato pena di confermare con un sopralluogo.

D’altra parte se qualcuno fosse riuscito ad arrivare più o meno vivo a quel famoso rifugio, molto probabilmente sarebbe arrivato a cose già concluse, in tempo per osservare il bombardiere che si allontanava verso le colline.

Un palazzo si afflosciò al suolo come un pallone sgonfio e Carlo si sentì mozzare il respiro. Perse la mano di Giovanna e la sentì gridare da qualche parte, ma non riusciva a discernere bene le voci nel gran fragore delle esplosioni. Si fermò per un attimo per riprendere fiato e si guardò intorno nella speranza di vederla. Per un attimo temette di averla persa, e questa volta per sempre, e il cuore gli lanciò fitte dolorose.

Poi scorse una delicata figura avanzare smarrita nel polverone e tirò un sospiro di sollievo quando riconobbe Giovanna.

La prese per mano e se la trascinò dietro. Non c’era tempo per assicurarsi se stesse bene, se ne sarebbe curato più tardi. Sapeva che Giancarlo e Roberto li seguivano, arrancando tra le macerie, e li sentiva ansimare, ma sapevano come lui che sarebbero bastati ancora pochi metri e poi sarebbero stati al sicuro.

Poi la campagna si aprì dinanzi a loro con tutta la sua sconfinata distesa di granaglie e Carlo sospinse sua moglie e i suoi figli dentro il rifugio che si apriva dinanzi a loro. Non era altro che una cupola di cemento grigio seminascosta dalle sterpaglie, ma sarebbe bastato.

Sollevò i suoi figli, prendendoli per la vita, e li depositò nelle sicure braccia del rifugio. Poi si voltò per accompagnare dentro Giovanna, ma lui non l’avrebbe seguita, non subito. Avrebbe prima dato spazio alle altre donne e bambini, poi sarebbe entrato anche lui, ma contava che a quel punto sarebbe già finito tutto.

Carlo abbracciò sua moglie per l’ultima volta, cercando di rassicurarla.

Le poggiò le labbra sulla fronte e sorrise. Perché in quel momento l’espressione triste di Giovanna gli aveva ricordato uno di quei cuccioletti che inseguiva quando era bambino: avevano la stessa aria spaventata, anche se questa volta c’era più angoscia che paura negli                                                                                                                                                                                                                                                                         occhi di quella fragile donna.

Le accarezzò i capelli ancora e ancora, poi si costrinse a lasciarla, senza voltarsi indietro, cercando di essere forte. Ma sapeva che due occhioni da cucciolo continuavano a fissarlo, mentre lui aiutava una vecchia a rialzarsi, mentre un fiume di persone si riversava nell’angusto ingresso del rifugio, mentre cinquemila piedi più in alto due bombe si sganciavano dal nero Uccello della Morte.

Giovanna non era mai stata così spaventata.

Sapeva che non ci sarebbe dovuto essere nessun pericolo, che lì erano praticamene al sicuro, che non avrebbe corso nessun rischio se fosse rimasta lì dentro. Ma aveva paura. Carlo aveva ragione, e lei glielo aveva letto negli occhi mentre lui le accarezzava i capelli: era proprio come un cucciolo. Non c’è pericolo, non c’è pericolo sei praticamene al sicuro non aver paura non devi avere paura non devi, non devi.

Non devi aver paura.

Roberto le si aggrappò alle gonne e lei gli accarezzò la testa, ma lo fece quasi senza pensarci, e quella che sarebbe dovuta essere una dimostrazione d’affetto diventò un gesto meccanico e privo di calore materno.

Un bimbo scoppiò a piangere nell’interno, da qualche parte nella folla, e Giovanna udì una madre consolarlo.

Forse avrebbe dovuto fare anche lei così anzi l’avrebbe fatto solo che il problema era che lei sapeva che non c’era niente d’aver paura eppure tremava oh se tremava, anche se forse Roberto aveva più paura di lei ma non riusciva a contenersi e il fatto era che

Tu non devi aver paura!

Poi anche Giancarlo seguì l’esempio del fratellino e appoggiò la testa sulla spalla della madre, ma questa volta Giovanna era presente.

Questa volta li abbracciò, stringendoli forte a sé, così che nessun maledetto tedesco avrebbe potuto portarli via, cercando di rassicurarli che papà sarebbe tornato presto e tutti insieme sarebbero stati meglio.

Ma i suoi occhi seguivano ancora la schiena di Carlo che si piegava per aiutare una vecchietta a rialzarsi e continuò a guardarla anche dopo che gli occhi le si riempivano di lacrime e il mondo svaniva in un’accecante palla di fuoco.

Spirali di fumo s’impennavano verso il cielo, fondendosi con le nuvole.

E alla fine rimane quello che hai sempre più temuto: niente. Alla fine ti rendi conto di aver perso tutto e sai che non riuscirai mai ad accettarlo. Sai che i giorni dei giochi sono finiti e che mai in futuro riuscirai ad essere felice. Sai che ti hanno bruciato nell’istante in cui quelle due bombe esplodevano tutti i foglietti bianchi che avevi intenzione di riempire. Sai che ormai non c’è più niente per te. Sai che è tutto finito e niente è rimasto.

E mentre ti punti quella pistola alla tempia sai che invece qualcosa ti è rimasto, mentre fissi le stelle sopra le colline sai che non ti è rimasto altro che una domanda, mentre premi il grilletto sai che quella domanda resterà sempre in te e che sarà un ruggito nelle notti con le stelle, che sarà un rombo nelle notti solo in mare, che sarà un’esplosione di dolore nelle notti davanti ad una tomba vuota.

E sai che ti resterà quell’oppressiva consapevolezza che non sparirà neanche quando riposerai sotto le stelle, e sarà la consapevolezza di sapere che la vita è atroce e che non si può sempre fuggire, ma neanche combattere.

Mentre sul resto saranno le stelle.